NOI
Camminare
da sola per le strade è ormai un’abitudine oltre che una necessità per me.
Tendo
a camminare sul lato più estremo della strada, segno inconfondibile della mia
natura schiva: evito il contatto con la folla del corso principale, per non
urtare nessuno. E intanto osservo.
Potrei sfuggire al freddo
camminando più velocemente, ma questo è il mio personale spettacolo dal vivo,
gratuito e segreto. È forse così che riesco a compensare il mio silenzio.
All’università mi sono seduta senza intrattenermi con nessuno, al solito. Mi
sono seduta senza parlare, con l’unico intento di osservare. Invisibile, il mio
sguardo sguscia via e si fissa su dei soggetti ben precisi: sulle donne come
me. Di qualsiasi età o aspetto, le mie simili mi affascinano. Ci sono stati
pochi uomini di rilievo nella mia vita: donne, invece, ce ne sono state tante,
l’ hanno cambiata. Hanno cambiato me. Per strada osservo gli abiti, i volti, le
mosse, i comportamenti. Il mio passatempo è immaginarmi il loro passato: che
infanzia avrà avuto quella signora che mastica la gomma e cammina con aria
svagata? Come avrà reagito l’altra di mezza età che si introduce di corsa oltre
un portone, con una cartella piena di documenti, quando il suo corpo ha
cominciato a cambiare? Quando si sarà innamorata per la prima volta quella
ragazza con lo zaino in spalla e ciondolante? Ha la faccia preoccupata, forse
per un’interrogazione. Sembra un doppio di me stessa come ero un anno fa, prima
di scomparire fra la moltitudine e i numeri di matricola di otto corsi di
laurea stipati in un edificio. Fra donne, con i loro quaderni e i loro
pensieri. A poco a poco, mentre le guardo ad una ad una, sento come se una
cappa fosse calata su di loro, su di noi: è ciò che potrebbe chiamarsi fattore
determinante. Ci accomuna niente eppure tutto. Ci accomunano stimmate diverse
ed una croce universale. Ho conosciuto molte donne e so di cosa sono capaci: ho
conosciuto la ferrea lealtà della migliore amica e la sordida meschinità di chi
ti colpisce nel buio, la grande e onnipotente solidarietà e la cieca idiozia
del conflitto, fra loro, fra noi. Insegnano molto cinque anni in una classe
femminile. Poi ci sono le donne che non hai mai visto né conosciuto tranne
quando un volto al telegiornale ne annuncia la stupro o la morte o ambo le
cose.
Ragazza
di sedici anni, di ventidue anni, donna di quarant’anni
violentata in un parcheggio, ai giardini pubblici, in casa propria, percossa,
accoltellata, lapidata.
E penso allora: “Domani forse toccherà a me”. E magari un’altra, con in mano la forchetta o il telecomando, si fermerà ad ascoltare. E avrà pietà di me, nel profondo, più di quanta ne proverà mai quella che per mesi è stata seduta di banco accanto a me.
Così va, fra donne, quando una di
noi cade sotto la croce, per la milionesima volta. Se va bene. Quando
affrontiamo il mondo siamo come barboni che frugano nei cassonetti, fra rifiuti
e sporcizia: rovistiamo e rovistiamo finché non troviamo del pane che qualcuno
non ha voluto, che qualcuno per incuria ha gettato via.
Quel pane è una donna, con i suoi
drammi piccoli e grandi e la sua storia, che digrigna i denti e che a modo suo
accetta la croce, ogni giorno. Non per risorgere.
Per guadagnarsi un posto
nell’ordine delle cose. Per rinnovare, ogni giorno, l’inganno e il miracolo di noi
stesse.