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Autore: Kwaku Ananse    14/04/2013    0 recensioni
Questo era il potere che più amava, quello che lo rendeva Kwaku Ananse, il Ragno, dio, signore, protettore di tutte le storie: gli bastava sfiorare un oggetto per poter vedere con i suoi stessi occhi e assistere ai fatti cui era stato testimone e di cui serbava la memoria.
Questa storia, in particolare, parlava di buie profondità sotto il velo dell'acqua, di un canto e di struggente, disperato desiderio. Il racconto lo avvolse completamente e non c'era più Ananse, o la perla o la stanza, né Londra o qualsiasi altra cosa. Il racconto era ora realtà come per un uomo addormentato è reale il sogno e la realtà un vago ricordo, ma delle due sarebbe stato difficile dire quale fosse più vera, se la realtà sognata o la lontana immagine di una sera di nebbia e pioggia in una vecchia libreria.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La tela del Ragno:

 

Kwaku Ananse, il Ragno, chiuse le pesanti imposte di legno davanti a sé e controllò ancora una volta che la porta fosse ben chiusa e il cartello girato per il verso giusto, poi, con un sorriso, si rivolse alla stanza e, ad occhi chiusi, ne respirò profondamente l'odore: legno, vecchio inchiostro, carta, cuoio stagionato. Adorava inspirare quell'insieme di essenze perché portavano con sé un numero infinito di immagini ed emozioni, di bei ricordi e di ricordi brutti che, col tempo, se non erano divenuti belli, avevano comunque preso quel velo di malinconia tipico delle cose perdute. Tutta la sua vita poteva essere riassunta in un solo respiro. Sollevò le palpebre ed ammirò per un attimo le alte scaffalature fitte dei libri più disparati, dai tomi polverosi e imponenti, all'ultimo best-seller, fino all'opuscolo per bambini. Ogni storia, anche quella apparentemente più insignificante, aveva la sua importanza, il suo frammento di verità da custodire con cura, in attesa che qualcuno, con pazienza ed attenzione, tornasse a recuperarlo.

Era questo il compito che Ananse si era prefissato, e questa sua missione l'aveva portato a ricoprire molte identità ed aspetti nel corso dei secoli e dei millenni e a visitare i luoghi più diversi. Aveva cucito su di se molti volti per poter vivere accanto agli uomini e alle storie che tanto desiderava, ma ne aveva alcune che prediligeva, come per esempio quella, che attualmente ricopriva, di anziano libraio dall'aria gentile, un po' curvo sotto il peso degli anni e il viso sbarbato segnato da molte rughe, in un quartiere tranquillo di una grande metropoli, Zimbawe, in antico, l'egizia Alessandria, Roma imperiale, Londra in quel preciso istante, così diverse, ma così simili, in fondo, nel loro caotico divenire, nel loro turbinoso intreccio di vite, emozioni, destini.

Era un ragno molto vecchio e stava diventando abitudinario.

Fuori dal negozio, il mondo era ormai avvolto dall'ombrosa sera autunnale e una pioggia sferzante batteva il marciapiede e scorreva sulle liscie strade asfaltate, ma le finestre della sua piccola bottega erano ben chiuse da pesanti imposte e dietro alla vecchia porta finestra in legno era appeso un cartoncino bianco con una vivace scritta rossa "CHIUSO".

Unico nell'isolato, non si era ancora dotato di una pesante saracinesca di metallo con antifurto incorporato, non ne aveva mai avuto bisogno. I vicini pensavano che fosse un tipo eccentrico e anche un po' avventato, ma importava poco: presto o tardi si sarebbe spostato, diretto ad una nuova città, un nuovo crogiuolo di storie, New York, forse, o Pietrogrado, Calcutta o magari, incontro al sole, Kyoto, non aveva importanza, quello era il suo destino. Come ogni altra volta, il pensiero lo riempì di malinconia: aveva posato lo sguardo sulla capitale britannica ormai dodici anni prima e si era affezionato al rumore di fondo eterno di macchine e persone, alla sua vita brulicante attiva, instancabile, al suo cosmopolitismo, alla grandeur decadente da impero al tramonto.

Si riscosse dai pensieri. Sul retro lo attendeva altro lavoro.

Pochi passi, una maniglia girata silenziosamente, una porta chiusa con discrezione.

Si trovava ora in quello che aveva tutta l'aria di essere un comodo, ampio, salotto, ideale pre trascorrervi le lunghe sere invernali a leggere affondato in una comoda poltrona color zafferano, o magari chiacchierando amabilmente con amici, fumando sigari e bevendo bourbon in perfetto stile inglese, parquet e pannellature di legno alle pareti rendevano l'ambiente più caldo e confortevole.

Non c'erano librerie in questa stanza, in compenso, disposti sui numerosi tavolini, pensili, piedistalli, sopra il caminetto in fondo alla stanza, stavano, a mo' di soprammobili, stavano gli oggetti più disparati, una vecchia forchetta coi denti piegati, accanto al divano, un vecchio libro annerito dal fuoco su una colonnina vicino all'ingresso, un anonimo pezzo di lamiera sopr il focolare e molti altri, dal pupazzo di una giraffa rosa, ad un teschio umano con diamanti incastonati all'altezza degli occhi. L'uomo attraverso con calma la stanza fino ad arrivare ad una mensola ancora parzialmente vuota per depositarvi sopra un nuovo pezzo della collezione: una perla, lucida e sferica, perfetta e nera come la mezzanotte. Ananse chiuse gli occhi, carezzando delicatamente la superficie liscia e fredda, assaporando le visioni che sempre più nitide e precise giungevano a lui al suo richiamo, al suo contatto.

Questo era il potere che più amava, quello che lo rendeva Kwaku Ananse, il Ragno, dio, signore, protettore di tutte le storie: gli bastava sfiorare un oggetto per poter vedere con i suoi stessi occhi e assistere ai fatti cui era stato testimone e di cui serbava la memoria.

Questa storia, in particolare, parlava di buie profondità sotto il velo dell'acqua, di un canto e di struggente, disperato desiderio. Il racconto lo avvolse completamente e non c'era più Ananse, o la perla o la stanza, né Londra o qualsiasi altra cosa. Il racconto era ora realtà come per un uomo addormentato è reale il sogno e la realtà un vago ricordo, ma delle due sarebbe stato difficile dire quale fosse più vera, se la realtà sognata o la lontana immagine di una sera di nebbia e pioggia in una vecchia libreria.

 

 

Brannagh O'Malley e il dono delle fate:

 

Ci sono oggetti che conoscono molte storie, oggetti che nella loro lunga vita passano di mano in mano portando con sé memoria di mendiacanti, re, criminali, profeti, santi, sono testimoni di fatti mirabolanti e unici e incutono soggezione e paura, quasi, per la saggezza che contengono. Ci sono altri oggetti, invece, che ne contengono solo una, ma quell'unica si imprime in essa fortemente, tanto da rappresentarne l'emblema, la ragione stessa d'esistenza. Spesso queste storie non sono grandiose, non contengono eserciti, né immense brame, sono storie piccole ed umili di gente semplice, con semplici desideri, ma queste sono le storie che, spesso, meglio si imprimono negli animi, e nella loro umiltà il messaggio che trasmettono non è meno profondo. Questa è una di quelle storie.

 

-Brannagh! Dove sei? Il pranzo è a tavola! Se non ti sbrighi mangiamo tutto noi e non ti diamo niente- il richiamo della madre risvegliò l'attenzione Brannagh, così impegnato a giocare da non essersi accorto di quanto tempo fosse passato, né quanto fosse lontano da casa.

Era solo, giocava sempre da solo. In quel preciso momento stava osservando un ragno nell'atto di tessere la sua tela, ed era così assorbito da quei gesti piccoli, precisi, meticolosi da non accorgersi di nulla di tutto ciò che avveniva attorno a lui. Fino a quel momento.

Appena il richiamo della madre giunse alle sue orecchie si alzò di scatto e prese a correre verso casa alla maggior velocità possibile nell'intricato sottobosco. Se l'avesse scoperto a gironzolare ancora una volta nel folto del bosco, sarebbe finito in grossi guai.

Troppo tardi. Stava per sgusciare agilmente sotto un ramo basso, il comignolo di pietra della capanna già in vista in mezzo al verde, quando si senti sollevare per il colletto da braccia forti e poco inclini alla gentilezza:

-Allora? Cos'hai da dire in tua discolpa?- la madre lo rigirò per fissarlo dritto negli occhi: per quanto non fosse più giovane, aveva ormai superato i trent'anni, Cailin, questo era il nome di sua madre, era ancora una bella donna, alta, più alta di molti uomini, dal fisico asciutto allenato dal duro compito di badare, sola, ad una casa e a due figli, capelli neri, lisci e lucenti, ora imprigionati in una stretta treccia, pelle chiara e rosea, ancora pressoché priva di rughe e occhi grigi e penetranti che lo guardavano con una disapprovazione che non lasciava presagire nulla di buono.

Vedendo Brannagh rimanere in silenzio ostentando uno sguardo colpevole, lei continuò: -Quante volte ti devo dire di non andare a giocare nella foresta? E' pericoloso, ci sono animali feroci, serpenti velenosi, potresti romperti una gamba in qualche buca. E se ti perdi? E non riesco a trovarti? Pensa se...- ma ormai Brannagh non l'ascoltava più.

Era sempre così, con sua madre: tutte le volte che lo sorprendeva a fare qualcosa che non doveva fare si lanciava in una lunga e dettagliata descrizione dei pericoli che avrebbe potuto correre, dilungandosi il più possibile nei particolari più crudi e macabri. Lo faceva per spaventarlo, lo sapeva bene, nella speranza che non ci riprovasse di nuovo in futuro. Quando era più piccolo funzionava... per un po', ma ora era grande, aveva nove anni e in certi trucchetti non cascava più -... e poi se ti addentri troppo nel bosco, se ci rimani troppo tempo una fata potrebbe rapirti e portarti nella Città delle Fate, da cui non usciresti mai più- l'attenzione di Brannagh fu all'improvviso calamitata da quelle ultime parole e in un baleno dietro ai suoi occhi iniziarono a scorrere immagini silenziose di piccoli esseri delicati, donne in miniatura dotate di lunghe ali di farfalla, e altrettanto piccole, e tutto attorno ad esse una radura baciata dal sole, circondata come un recinto da alti alberi secolari e punteggiata di miriadi di fiori multicolori, e a fare capolino in questo mare verde tante torri aguzze e appuntite, dalle strane forme, ricche di ramificazioni, come giovani alberelli, ma fatte d'argento scintillante, e unite tra loro da ponti e camminamenti, le dimore delle fate. E se ci si chinava in avanti si vedeva che anche il suolo era lastricato d'argento e per le strade...

-Brannagh mi stai ascoltando?!- ancora una volta il ruggito della madre lo riporto alla realtà

-Mamma davvero le fate mi portano nella loro città?- disse speranzoso, ignorando lo sguardo sconcertato della madre:

-Beh...-

Lui continuò, bloccando la risposta sul nascere: -Che bello mamma! Ma non sono un po' grande? Le fate sono così piccole, magari non mi tengono perché non sanno dove mettermi. Dici che potrebbero farmi diventare piccolo come loro? Risolverebbero il problema dello spazio. E poi potrebbero anche insegnarmi a volare come loro, e io farei i dispetti a Padraig, gli pungerei il sedere con aculei di vespa e gli intreccerei i lacci dei sandali e...-

-Basta!- un grido disperato di pietà –Sei... sei...- il volto della donna si aprì in un largo sorriso -Sei la peggiore peste che ci sia sulla faccia della terra, piccolo demonio- e così dicendo si strinse forte il bambino al petto, affondando il volto tra i capelli, lisci come i suoi, ma rossi, che tanto gli ricordavano il padre, suo marito, morto ormai da tempo, mai abbastanza per appianare il dolore.

-Mamma così mi soffochi- brontolò il piccolo, che provava a divincolarsi invano.

Lei lo ignorò -Ti voglio tanto bene, Brannagh. Cerca di stare attento: ho sempre tanta paura quando non riesco a vederti, né sentirti-.

Paure comprensibili, in una donna che aveva visto perire il marito e i primi due figli di peste, ma cosa poteva capire di tutto questo un bambino di nove anni che non aveva mai conosciuto la morte, il pericolo, la paura se non da molto distante? Quando si comportava così, per Brannagh, la madre era solo una grossa scocciatrice.

-Su coraggio, andiamo a mangiare- disse la donna a mo' di conclusione, posandolo a terra, ed entrambi si diressero a casa.

La suddetta casa, dove Brannagh abitava assieme a Cailin e al fratellino Padraig era una capanna piuttosto piccola, dalle pareti di fango e il tetto di frasche di legna. Il comignolo e il basamento su cui poggiavano le mura erano le uniche parti in pietra dell'edificio. L'interno non era meno povero essendo costituito da un'unica stanza più o meno circolare dominata da un grande camino, gli unici mobili erano un tavolo con tre sedie di paglia dall'aria malridotta, una credenza, e un grande letto separato dal resto del vano da una tela stinta ai cui piedi stava una cassapanca di legno scuro. Tra le poche suppellettili c'erano un lavabo, una tinozza e un vaso colmo di fiori freschi. Una scala a pioli portava al sottotetto, adibito a soffitta e a dispensa dei pochi beni della famiglia.

In quel momento, la tavola era apparecchiata con tre ciotole fonde e tre paia di posate e al centro faceva mostra di sé una pentola di terracotta fumante di quella che sembrava una zuppa densa di verdure. Seduto su una sedia, scalpitante di impazienza, stava un bambino piccolo e magro, di non più di cinque anni, capelli neri mossi, disordinati e il viso dominato da grandi occhi color nocciola. Padraig, il membro più piccolo della famiglia. Somigliava molto al fratello più grande: entrambi erano di corporatura minuta e di carnagione pallida, entrambi avevano preso dal padre il colore degli occhi, e uno sguardo più dolce rispetto a quello glaciale e fiero della madre. Differivano per il colore dei capelli, avendo ereditato dai genitori le caratteristiche inverse: Brannagh il colore, rosso, dal padre e la consistenza dalla madre, Padraig viceversa.

-Uffa ci siete stati tanto. Io ho fame!- l'esclamazione del piccolo fece sorridere gli altri due che si accomodarono a tavola. Finito il pasto, entrambi i figli aiutarono la madre ad accudire l'orto e le tre caprette che tenevano in una stalla, sarebbe stato meglio dire una baracca, adiacente alla casa. Per quel giorno, per Brannagh, non ci furono altre avventure.

Il giorno successivo, all'alba, mentre il villaggio iniziava lentamente a svegliarsi, Cailin si era già inoltrata nella foresta da almeno un'ora. Cercava radici commestibili, frutti selvatici, bacche, funghi, ma anche erbe medicamentose e terapeutiche. Questa conoscenza le era stata tramandata da sua madre, che a sua volta l'aveva appresa dalla propria genitrice e così via andando indietro per chissà quante generazioni ed era stata estremamente preziosa per tirare avanti dopo la morte del marito: le altre famiglie del villaggio erano sempre disposte alla generosità verso chi curava i propri cari infermi.

Non avendo figlie, l'unica che aveva avuto, Meara, se l'era portata via la peste, e ogni sera, commemorando i suoi cari defunti, versava lacrime anche per lei, affinché la tradizione e la conoscenza non si perdessero, portava con sé Brannagh, mostrandogli di volta in volta i frutti e le erbe raccolte, descrivendoli inoltre con dovizia di particolari, perché se ne ricordasse e mettendolo in guardia, sulle numerose piante velenose da cui guardarsi.

Il Sole era sorto, ormai, da un paio d'ore quando Cailin decise di tornare verso casa.

Nel complesso poteva dirsi pienamente soddisfatta: l'estate era stata calda e generosa, fino a quel momento e ne era prova il sacco che portava sulle spalle, carico di radici, bacche e altri frutti commestibili della terra, e il cesto portato da Brannagh, pieno di erbe per i suoi unguenti e i suoi decotti.

Arrivati a casa, il sole era alto nel cielo e il villaggio ferveva di attività e nei campi uomini e buoi avevano già iniziato il loro lavoro, anche il piccolo Padraig, lasciato solo per permettergli di dormire, si stava dando da fare a mungere le capre mansuete. Aperta la porta della loro unica stanza, Cailin si sedette, appoggiandosi pesantemente al tavolo, ritenendo che dopo la lunga fatica appena trascorsa potesse permettersi un po' di riposo.

-Mamma?- un pigolio arrivo da sotto di lei, richiamandola:

-Dimmi, Brannagh- disse trattenendo uno sbadiglio, era davvero molto stanca

-Posso andare fuori a giocare?- chiese il figlio con voce supplichevole -Te lo giuro, mamma farò il bravo, non mi metterò nei pasticci. Promesso.–

Lei sospirò e rifletté alcuni secondi: -Va bene, ma non ti allontanare e stai attento. Tra poco ti vengo a controllare- il bambino la gratificò con un abbraccio e uno schioccante bacio sulla guancia, poi filò via di corsa, prima che lei potesse avere dei ripensamenti.

I suoi passi lo condussero subito in direzione delle grosse querce ricoperte di festoni di licheni che segnavano il limitare della foresta, lontano dalle case e dal vociare della gente, e dei bambini. Brannagh non giocava con gli altri bambini: essere un orfano cresciuto da una madre sola è una vita dura, una vita di sacrifici e di rinuncie già dalla prima infanzia. Brannagh lo sapeva, vedeva gli altri bambini con addosso abiti con poche toppe, o nessuna e a volte anche con abiti nuovi. Brannagh non aveva mai vestiti nuovi, ma le donne del villaggio di tanto in tanto davano alla madre i capi smessi dei figli che lei adattava ai suoi. E in genere erano già discretamente rattoppati.

I bambini del villaggio non erano crudeli e non gli facevano pesare la sua condizione di orfano. La peste aveva colpito in modo terribile e ciascuno aveva avuto i suoi lutti.

Ogni famiglia era ripartita, cercando, in qualche modo di ricostruire la normalità perduta. Ad alcuni era andata meglio, ad altri peggio, ma Cailin e i suoi figli erano stati quelli cui era andata peggio.

A Brannagh non piaceva unirsi ai giochi, mostrare a tutti la propria estrema povertà. Così fuggiva, si rifugiava nella solitudine dei boschi a osservare un ragno tessere la propria tela o frugare in una tana per vedere se era un coniglio o un tasso. Qualche volta aveva provato ad arrampicarsi sugli alberi ma non gli era andata troppo bene: i rami più grossi, capaci di reggerlo comodamente erano sempre troppo in alto per lui e la scalata sul tronco liscio e viscido di muschio era tutt'altro che facile.

Anche questa volta, la verde coltre della foresta lo accolse come l'abbraccio di un vecchio amico.

Giunto nel rassicurante riparo della penombra, la sua mente iniziò subito a lavorare alacremente pensando a come si sarebbe potuto divertire. Non tardò a darsi una risposta: quel giorno, prima ancora del canto del gallo, sua madre lo aveva svegliato, scuotendolo dolcemente, gli aveva dato una tazza di latte caldo e noci per colazione, poi gli aveva messo in mano un cesto di vimini e l'aveva portato con lei in cerba di erbe e radici. Da soli, lui e sua madre, si erano addentrati sotto la coltre verde, ancora avvolti dall'atmosfera azzurrina che precede l'alba, calcando sentieri appena acccennati dal cammino delle bestie selvatiche, facendosi strada in mezzo a cespugli spinosi, valicando miriade di pigri rigagnoli, sempre sotto lo sguardo silenzioso degli alberi. Erano stati i momenti più emozionanti della sua breve vita. Non aveva mai visto nulla di più bello, di più impressionante. Si era sentito piccolo, umile, si era sentito estraneo, ma anche parte di qualcosa di più grande, la sua vita penetrava la natura e la natura l'avvolgeva, lui non ne era che un piccolissimo frammento e insieme ne era il protagonista. Emozioni troppo forti, troppo complesse da afferrare per un bambino di nove anni. Non sapeva esprimerle, se qualcuno gli avesse chiesto di descriverle sarebbe rimasto muto, ma le provava, come una sorta di ansia, un male nel petto che gli imponeva di agire. Agire come? Ecco, qui rientrava il suo passatempo della giornata: intendeva esplorare la foresta, ripetendo il percorso fatto assieme alla madre e magari muovendosi anche per percorsi nuovi.

"Non puoi farlo, la mamma dice che è pericoloso e rischi di farti male. E poi se ti scopre si arrabbierà tantissimo" così gli diceva, nella testa, la vocina preoccupata della sua coscienza. Per un attimo esitò, ma il desiderio di avventura e la curiosità insite in ogni bambino ebbero il sopravvento "Tanto la mamma non lo scoprirà mai" si disse in cuor suo, anche per farsi coraggio "Non starò molto. Voglio solo vedere cosa c'è oltre quell'albero spezzato da un fulmine, poi torno indietro". Nulla più che buoni propositi.

Brannagh superò, com'era prevedibile, il vecchio tronco carbonizzato in un vecchio temporale, e anche il masso a forma di becco affiorante in mezzo alle foglie secche, e un ruscello la cui acqua, nel buio sotto la fitta chioma degli alberi, era verde e scura, fredda e sapeva di terra.

Superò anche una radura punteggiata di fiori colorati, una macchia di luce calda in mezzo al bosco, che subito gli avevano fatto tornare alla mente le sue fantasticherie. Era rimasto molto deluso dal non trovarvi nemmeno una fata, se non la loro città d'argento.

Superò questo, e molti altri luoghi, che si era posto come limite ultimo delle sue esplorazioni, mentre il tempo scorreva e il sole disegnava il suo arco nel cielo. Così accadde che, ad un certo punto, Brannagh, voltandosi indietro, non seppe più da che parte fosse venuto e il giorno era ormai prossimo al tramonto.

Il panico si impadronì del bambino quasi immediatamente mentre, girandosi di quà e di là, non riconosceva nessun punto di riferimento, ogni albero, ogni pietra, ogni singolo cespuglio era assolutamente anonimo, nessuna strada gli sembrava più valida di un'altra. Improvvisamente si sentì circondato da un vasto e pericoloso ignoto. Si era perso.

"La mamma si arrabbierà moltissimo" Fu questo il primo pensiero coerente, quando Brannagh riuscì a recuperare una parvenza di lucidità.

"Pensi veramente che rivedrai tua madre?" disse una voce maligna e carica di scherno, nella sua testa mentre la sua coscienza tornava, tristemente a farsi sentire:

"Te l'avevo detto di stare più attento. Adesso sei proprio nei guai"

Calde lacrime premettero con forza contro gli occhi, ma Brannagh le ricacciò indietro: era grande ormai, non poteva mettersi a piangere.

Era coraggioso, lui. La foresta era sempre stato il suo terreno di giochi, anche se non si era mai spinto così nelle sue profondità, la conosceva. Sarebbe tornato a casa.

Ripeteva queste parole, a mente e a bassa voce e questo lo tranquillizzava, e nel frattempo si guardava attorno, con maggiore attenzione, in cerca di una via da seguire.

La scelta, alla fine, fu quasi casuale, ma volle convincersi di aver riconosciuto cumuli di terra e foglie mosse dai suoi passi. Iniziò a camminare di buon passo in quella direzione, sperando di riconoscere un qualche segno che gli mostrasse di aver scelto la strada giusta.

A un certo punto, Brannagh si ritrovò a rabbrividire per il freddo: il sole era sempre più basso all'orizzonte e presto non sarebbe più stato in grado di vedere i piedi davanti a sé.

Stava per lasciarsi trascianare di nuovo nella disperazione, mentre l'orizzonte si incendiava di un ultimo trionfo, prima della calata della notte, quando la barriera arborea che fino a quel momento l'aveva avvolto, si spalancò di colpo in un'ampia radura, diversa da tutte quelle incontrate fino a quel momento: era quasi perfettamente circolare e il suolo, qui, era duro e sassoso cosicché l'erba vi cresceva bassa e rada. Inoltre al suo centro, circondato da un anello di pietre liscie e tondeggianti, stava un laghetto, dalla superficie liscia e immota. Brannagh si avvicinò, incuriosito, malgrado la paura che da ore gli strisciava dentro, contaminandogli le vene.

Percepiva una strana sensazione, in fondo al suo cuore, un misto di timore e rispetto che lo spingeva a fare attenzione ogni volta che spingeva in avanti un piede. La stessa sensazione lo coglieva quando, assieme alla madre e al fratello, varcava i portoni della chiesa.

Aveva mosso i primi passi all'aperto quando il suo sguardo fu attirato dai sassi che contornavano la riva, erano perfettamente lisci, scuri e lucidi, sembravano fatti di pietra, ma di un tipo che Brannagh non aveva mai visto. Al tatto si mostrarono gelide, nonostante il sole avesse battuto per tutto il giorno sulla radura. Se si faceva bene attenzione, poi, si scopriva che non erano perfettamente uniformi, ma che erano lievemente incisi, come da una mano molto leggera, da disegni strani e curiosi, spirali involute, linee frenetiche e nervose, disegni complessi e intrecciati, difficili da seguire alla luce sempre più fioca.

Si sporse in avanti oltre il cerchio, per bere, e osservare la polla d'acqua: era limpida, non aveva mai visto uno specchio d'acqua così limpido e puro, ma scuro, sia perché il sole era ormai morente, sia perché doveva essere molto, molto profondo. Istintivamente si ritrasse indietro, non sapeva nuotare e il pensiero di annegare in quell'acqua nera e fredda lo riempiva di terrore. Tuttavia moriva di sete, non beveva da ore ormai, per cui, con molta attenzione, accostò le labbra alla superficie. Come aveva previsto, l'acqua era gelida, ma dolce e se ne servì avidamente.

Si era appena tirato di nuovo su, e stava per rimettersi in marcia quando la coda dell'occhio afferrò un movimento, e si girò, allarmato, mentre anche l'orecchio registrava uno strano rumore: il lago aveva iniziato a ribollire, prima sommessamente, poi con sempre maggior vigore, come l'acqua in una pentola messa sul fuoco. Impietrito dalla sorpresa, Brannagh rimase immobile, nonostante il cervello gli urlasse di voltarsi e fuggire con tutta la velocità permessagli dalle gambe. Non poteva, semplicemente le sue membra si rifiutavano di reagire.

La sua paura si tramutò in meraviglia e puro terrore, quando vide una donna affiorare dalle profondità della polla. L'acqua si calmò immediatamente, non appena la testa della figura fece capolino in superficie, tornando alla precedente immobilità. La creatura si guardò intorno, poi vedendo il bambino paralizzato sulla riva gli si avvicinò con destrezza, increspando appena l'acqua al suo passaggio, e appoggiate le braccia a riva, si fermò a fissarlo, ricambiato. Il viso era quello di una donna di una bellezza sconvolgente, la pelle, pallida e argentea, baluginante di mobili riflessi nella luce del tramonto, i capelli, blu, lucenti e molto lunghi, intrecciati di verdi alghe e fiori acquatici, galleggiavano pigramente, circondandole il capo come una corona, gli occhi, privi di iridi o pupilla, erano due pozzi azzurri e lucenti. Le braccia snelle e flessuose e le spalle esili erano rivestite di minuscole scaglie argentee, come da una veste sottile e aderente, le dita lunghe e affusolate di ciascuna mano erano unite tra loro da una sottile membrana

-Ehi piccolo, come sei carino. Ti prego avvicinati, è molto che nessuno della tua gente viene fino qui- Così parlò la donna, e la sua voce era così dolce e melodiosa che Brannagh ne fu totalmente conquistato, e la paura si allontanò da lui, sostituita da una soffusa sensazione di calore. Senza quasi rendersene conto si fece più vicino.

-Eh sì, sei proprio un bel bambino, anche se così magro, poverino. Come ti chiami?-

-Brannagh- rispose il bambino, facendola sorridere

-Che bel nome- lo squadrò alcuni istanti -Ma che visino spaventato e stanco. Cosa è successo? Come ti sei ridotto così?- il tono di lei sembrava sinceramente preoccupato e dolente. Brannagh rispose senza esitazione, incantato:

-Mi sono perso. Stavo giocando nella foresta e io volevo solo vedere fino a oltre l'albero distrutto dal fulmine e poi sarei tornato indietro. Ma mi sono perso e non riesco più a tornare a casa. Ho freddo e fame, mi manca la mia mamma, e anche Padraig. E' il mio fratellino- si affrettò ad aggiungere. Poi non riuscì a trattenere una domanda che si teneva dentro dall'inizio del dialogo:

-Tu sei una fata? Una fata che vive nell'acqua, invece che tra i fiori?-

La donna sorrise -Una specie, piccolino. Questo lago è la casa mia e delle mie sorelle da tempo immemorabile-

Il viso di Brannagh si illuminò alla notizia -Davvero? Quindi ci sono altre come te? Tante?-

-Certo, piccolo, un'intera città. Vorresti, forse vederla?-

Per un attimo il bambino fu sul punto di rispondere di sì, poi davanti agli occhi gli comparve l'immagine della madre abbattuta sul letto a piangere disperata la perdita di un altro figlio, i piedi coperti di vesciche per aver consumato i poveri stracci che le facevano da stracci e sulle braccia il segno dei graffi lasciato dai rami bassi. Prese la sua decisione:

-No, ti ringrazio, fata. Ma, per favore, puoi farmi tornare a casa?- La voce del bambino tradivano speranza, paura,nostalgia per la famiglia ora così lontana.

Il sorriso, nel volto della creatura, si allargò, così carico di gioia, così contagioso, che anche Brannagh piegò le labbra in un debole sorriso -Ma certo che posso e lo farò! Tornerai a casa in men che non si dica!- a questo trillo allegro, Brannagh sentì il cuore salire fino al cielo e nuove lacrime, questa volta di commozione, iniziarono a pungergli ai lati degli occhi -Davvero puoi farlo, fatina?-

-Certo, per me è facilissimo-

-Puoi anche fare in modo che la mamma non si arabbi con me?-

Lei scoppiò a ridere -Adesso chiedi un po' troppo-

"Peccato" pensò lui, ma in fondo era contento così – E cosa dovrei fare per tornare a casa?-

chiese continuando il discorso, e la fata -Semplice, torna indietro da dove sei venuto, nel bosco, sempre dritto e appena vedi un faggio nato dal tronco morto di un castagno, passagli alle spalle, girandogli attorno. A quel punto vedrai, attraverso le fronde, le luci della tua casa- Brannagh annuì lentamente, cercando di memorizzare alla perfezione la dettagliata descrizione -Grazie, fatina- disse serio, un effetto strano in una voce infantile

-Non c'è di che. Voglio darti un regalo. Stai qui e non muoverti- e così si tuffò, lasciando il bambino solo a fissare la superficie del lago, immerso nei rumori della foresta e di quelle creature che, di notte, vi si destavano. Ricomparve pochi minuti dopo, scuotendo dai capelli una pioggia di goccioline e tenendo tra le mani a coppa, una grossa perla candida

-Questa è per te, piccolo- disse, porgendola a Brannagh.

Lui la prese rigirandosela fra le mani e osservandola rapito. Era fredda e liscia al tatto, ancora umida e sembrava brillare debolmente nella luce morente del sole.

-Grazie, fatina- sussurrò con un filo di voce. Non sapeva cosa dire, per lui era tutto come un sogno, smarrirsi nel bosco, incontrare la fata. E ora questo.

-Bada bene, questo è un regalo molto prezioso!- esclamò la donna, sollevando un braccio in direzione del bambino -Finché questa perla rimarrà in tuo possesso, nulla, per te, sarà impossibile. Ogni tuo progetto andrà a buon fine, se lo vorrai davvero, e non conoscerai il fallimento. Ma stai attento, nell'istante stesso in cui tu dovessi perderla, con essa perderai anche tutto ciò che hai ottenuto. Sii saggio e prudente piccolo-

E detto così tornò centro del lago per svanire nelle sue profondità, lasciando Brannagh ancora una volta solo e confuso. Le parole della creatura aleggiavano nella sua mente come fantasmi ammonitori mentre un pensiero si faceva strada fino alla superficie "Doveva andare a casa. Poteva andare a casa".

Senza voltarsi indietro, diede le spalle al lago e si mise in marcia, ripetendo a bassa voce le istruzioni per non dimenticarsele o non confonderle. Torna nel bosco. Sempre dritto. Il faggio. Girare attorno.

Per un attimo si sentì disorientato, la testa prese a girargli all'impazzata e per poco non cadde a terra. Poi si riprese. E quando fu di nuovo in grado di mettere a fuoco, vide fare capolino tra i rami, le calde luci della sua capanna.

Le lacrime, fino a quel momento trattenute, presero a scorrere calde e copiose lungo le guance mentre arrancava fuori dalla foresta.

Era sfinito, ma in quel momento non sentiva la fatica, il sollievo di essere ritornato a casa, sano e salvo, la gioia di rivedere sua madre e il suo fratellino davano nuova forza alle sue gambe stanche e spazzavano via le nebbie che fino ad allora avevano indugiato sulla sua testa. Iniziò a correre, incapace di controllare l'eccitazione. Poi il suo passo si fece più incerto, a causa di un'improvvisa considerazione: aveva disubbidito alla mamma. Lei poi lo aveva cercato per tutto il giorno. Paura, ansia, preoccupazione, terrore erano tutti sentimenti che si dovevano essere avvicendati nel suo animo, come una tempesta, finché non era crollata, vinta dalla fatica. Sicuramente, dopo che si fosse accertata che quello che stava tornando a casa era veramente suo figlio, e che era tutto intero, si sarebbe molto arrabbiata. A meno che non portasse con se qualcosa che la rendesse così felice da farle dimenticare di arrabbiarsi. E cosa può desiderare una madre sola e povera se non qualche aiuto per sostenere sé e la sua famiglia?

"Magari uno di quei tesori che ci sono nelle fiabe e l'eroe buono li trova e diventa ricco e poi principe e poi si innamora della principessa, la sposa e..." il filo dei suoi pensieri fu improvvisamente rotto da un ruzzolone: trottando nel buio era inciampato su qualcosa di sporgente ed era caduto a terra bocconi.

Rotolò sulla schiena con un gemito e faticosamente guadagnò la posizione seduta per constatare le condizioni del piede su cui era inciampato, quando il suo sguardo fu attratto dalla causa della sua caduta: uno spigolo di legno rinforzato da piccole borchie di ferro. Sembrava appartenere ad una cassa, o forse un piccolo baule. Incuriosito si avvicinò e prese a smuovere la terra tutt'intorno: era veramente una cassa, di legno scuro reso poroso dalla prolungata esposizione all'umidità, gli stessi rinforzi in ferro che la ricoprivano erano coperti di ruggine. Tirando con tutte le sue forze, Brannagh riuscì a tirarla fuori dalla buca in cui era inclinata e a portarla su terreno più solido per poterla osservare meglio: era piuttosto piccola, meno di mezzo metro di lato, e pressoché cubica, sembrava molto antica e gli pareva assai curioso, in tanti anni di non averla mai notata. Squadrandola da ogni lato, si accorse, inoltre, che non era chiusa da alcun lucchetto o serratura, ma il coperchio era tenuto abbassato sul corpo della cassa da una semplice asticella passante per due anelli, che venne via con una certa facilità. Ciò che era contenuto all'interno lasciò il bambino di sasso, ad aprire e chiudere gli occhi ripetutamente, incredulo. Monete d'oro. Tantissime, fino al bordo del contenitore, lucenti, per non essere mai entrate in contatto con la polvere dell'esterno, grandi e pesanti in mano. Brannagh non ne aveva mai visto ma sapeva, da membro di una famiglia povera, quanto fossero preziose. In preda all'euforia, corse verso casa chiamando forte la mamma che, ne era sicuro, questa volta non l'avrebbe sgridato.

 

Le cose non andarono come si era aspettato. Non esattamente.

La madre, appena sentite le grida del figlio provenienti dal bosco, era accorsa dalla porta.

Il volto era segnato dalla stanchezza e dal dolore, gli occhi, infossati nel cranio, erano adombrati da profonde occhiaie e rossi per il lungo tempo trascorso a piangere. Vedendo il figlio correre verso di lei, chiamandola, il suo viso mutò prima in un'espressione di assoluta incredulità, le labbra pronunciando, in silenzio, il nome del figlio, per poi illuminarsi di un sorriso radiso e totale, di pura gioia, che Brannagh non avrebbe mai dimenticato. Piangendo, questa volta lacrime di felicità, sollevò il bambino alto sopra la testa per poi serrarlo in un abbraccio caldo e confortante che, questa volta, non provocò proteste.

-Brannagh, piccolo mio. Credevo di averti perso. Credevo di averti perso per sempre- diceva la donna, la voce rotta dalla commozione -Sia ringraziato il cielo. Sei vivo. Vivo! Non lasciarmi più, mai più. Il mio bambino-

-Sono qui, mamma- diceva lui stringendola più forte -Ti voglio bene-

Dopo un tempo indefinito Brannagh si ricordò dello scrigno a pochi passi da casa. Convincere la madre a sciogliere l'abbaccio e seguirla non fu facile all'inizio ma i suoi sforzi furono ben ripagati: Vedendo il cumulo di monete ai suoi piedi Cailin rimase totalmente impietrita, dopodiché, guardandosi attorno per controllare che nessuno avesse visto quel tesoro, lo avvolse nello scialle e lo portò a casa, al riparo della quale, si lasciò andare in una risata liberatoria. Era la soluzione a tutti i loro problemi. Qualsiasi cosa fosse successo, non sarebbero più stati poveri.

In una sola cosa, Brannagh O'Malley sbagliò i suoi conti: sperava che la madre, strabiliata da un così eclatante colpo di fortuna, si dimenticasse di punirlo per averle disubbidito. Illuso. Le mamme non dimenticano mai, avrebbe dovuto aspettarselo. Quella sera, e le tre sere seguenti, saltò la cena e dovette sobbarcarsi anche tutti i lavori normalmente svolti da Padraig, come dare da mangiare alle capre, il tutto senza potersi allontanare da casa, se non sotto l'occhio e la compagnia vigile della genitrice.

Un carcere duro, ma Brannagh sopportò senza lamentarsi troppo: poteva andargli peggio, ed era un piccolo prezzo da pagare in cambio dei mutamenti cui stava andando incontro la loro vita: con l'oro ritrovato, Cailin comprò della buona terra grassa, da coltivare e assunse due garzoni del villaggio, perché li aiutassero nel lavoro dei campi, la capanna dove avevano vissuto fino a quel momento fu sostituita da una nuova, grande casa. Per la prima volta Brannagh ebbe dei vestiti nuovi.

Passarono gli anni e le cose non fecero che migliorare. Brannagh crebbe diventando prima un ragazzo e poi un uomo forte e sano e così il fratello, mentre Cailin si ritirava in una serena vecchiaia assistita dai figli.

L'indigenza in cui avevano dovuto vivere ormai non era che un ricordo e la buona sorte sembrava essersi decisa a volgersi verso di loro.

-Che fortunati sono Cailin O'Malley e i suoi figli- esclamavano i loro paesani. Ed era vero. Per quanto un estate potesse essere fredda o secca, un inverno rigido, un autunno piovoso, una primavera incerta, i loro campi non sembravano risentire di nessuna inclemenza, ma qualsiasi cosa vi piantassero cresceva rigogliosa e abbondante, in maniera stupefacente.

I garzoni divennero tre, poi cinque, si aggiunsero col tempo due pastori e due vaccare. Erano ormai diventati proprietari benestanti. Non dimenticavano la loro origine, però, e i due uomini lavoravano quanto e più di coloro che erano alle loro dipendenze, nutrendoli e vestendoli come persone di casa, e donavano con generosità dai loro granai quando nel villaggio serpeggiava lo spettro della fame.

Giunta la sua ora, Cailin si spense serenamente nel suo letto, circondata dal dolore di tutti. Aveva molto sofferto nella vita, e se anche la prosperità raggiunta non poteva colmare il dolore delle sue perdite, moriva con la consolazione che i figli sarebbero stati più felici.

Così parve accadere: Padraig, l'anno successivo alla scomparsa della madre, si sposò, trasferendosi lontano. Aveva lasciato Brannagh, che era il maggiore, padrone di tutte le terre, ricevendone, in cambio denaro, con cui aprì un'atttività, divenendo mercante, in città.

Brannagh non si era sposato, invece, nonostante fosse ormai divenuto adulto, un uomo bello e gentile, né aveva mai corteggiato o mostrato interesse per una ragazza e molti nel villaggio si chiedevano il motivo di questo strano compartamento: era ricco ormai, padrone di vaste terre, fortunato, quello che viene definito un ottimo partito, le pretendenti non gli sarebbero mancate.

Aveva alcune stranezze nel carattere, che in una comunità tanto piccola saltavano subito all'occhio: stava a lungo in silenzio, come distratto da qualche pensiero, a volte parlando tra sé a bassa voce.

Trascorreva molto tempo da solo, nel bosco, specie al tramonto o in piena notte, facendo comunque sempre attenzione a che nessuno lo seguisse. Infine non si separava mai da quello che diceva fosse il suo portafortuna: una perla di fiume, bianca e lucente, che aveva incastonato personalmente in un pendente d'argento che portava sempre al collo.

Le visite notturne nei boschi di Brannagh erano però di gran lunga la maggior fonte di chiacchiere, c'era chi, non senza malizia, sibilava che vi si incontrass con una bella amante straniera. E non aveva, in fondo, tutti i torti: dopo aver ricevuto la perla, dopo il ritrovamento dello scrigno che aveva dato inizio alla loro ricchezza, il bambino non aveva dimenticato la fata che viveva nelle profondità della foresta, in quel misterioso lago circolare ma era tornato, quando aveva potuto, alla sua ricerca, per ringraziarla. Aveva, così, scoperto di sapersi orientare straordinariamente bene, nel bosco, molto meglio di quanto non avesse fatto alla sua prima esperienza e non impiegò molto a ritrovare la polla d'acqua circolare, attorniata da pietre incise da misteriosi simboli.

La fata era lì, sembrava attenderlo: sorrideva e pettinava i capelli con un lucente pettine d'argento. Vedendolo lo aveva salutato e gli aveva chiesto il motivo della sua visita.

Era stato quello il primo di molti incontri, anno dopo anno. Brannagh raccontava le sue avventure di bambino, confidava piccoli segreti, descriveva i giochi con i coetanei. Crescendo aveva iniziato a narrare il lavoro nei campi e le fatiche di mandare avanti una grande casa, ma anche le gioie per i nuovi successi e la prosperità raggiunta. Di fronte al lago aveva pianto la morte della madre e la fata, una Nixie, come si definiva lei stessa aveva intonato un canto funebre, così bello, così struggente, carico di denso dolore che Brannagh ne era stato così ammaliato da dimenticare sé stesso perso com'era nella melodia. Quella, invece, il più delle volte, quasi non parlava, limitandosi ad ascolarlo e a congratularsi con lui, ma a volte, spinta dal suo umore mutevole e imprevedibile iniziava a parlare della vita che conduceva nelle profondità del lago, assieme a quelle che definiva "Le sue sorelle" e che il ragazzo non aveva mai visto.

Descriveva, poi, con ricchezza di particolare la città adagiata sul fondo fangoso, eternamente nella penombra, poiché la luce arriva a fatica così lontano dalla terra, i cui edifici erano avvolti da alghe multicolori come da vesti eleganti, incrostati di conchiglie di ogni forma, ornati da perle candide non diverse da quella che lui possedeva. Laggiù lontane dagli affanni della superficie, le fate trascorrevano le giornate in eterna festa, tra canti e danze. Non avevano bisogno di dormire, infatti, né di nutrirsi, né invecchiavano come gli umani, ma rimanevano eternamente giovani. Se talvolta cadevano in un profondo sonno, o si nutrivano dei pesci e dei molluschi, che erano abbondanti in quelle acque, non lo facevano per necessità, ma per il piacere di farlo.

In quelle occasioni Brannagh non commentava, non faceva domande, ma ascoltava, pendendo dalle labbra dell'eterea creatura e sentiva il suo cuore battere più forte, il sangue corrergli furioso nelle orecchie e sulle guance la lingua impastarsi, goffa e inutile.

Aveva scoperto col tempo, crescendo, che quello era amore, un amore potente e totale, e capiva che nessuna donna del villaggio avrebbe potuto sottrarlo ad esso perché mai e poi mai sarebbe stata all'altezza dell'incantevole fata che gli aveva donato la sua fortuna. E di cui non conosceva, né avrebbe mai conosciuto, nemmeno il nome.

Una sera, in cui la luna era alta nel cielo e le stelle particolarmente vivide nel terso cielo invernale, alte, oltre la cupola degli alberi, Brannagh era giunto alla radura, dopo una dura giornata di fatica: un branco di lupi, spinti dalla fame, aveva assaltato, di soppiatto gli stalli dove le capre trascorrevano l'inverno. I belati disperati degli animali avevano fatto accorrere gli uomini. In condizioni normali, le belve sarebbero fuggite, la la fame fu più forte della paura e lottarono accanitamente per il possesso delle prede; prima che volgessero in fuga, tre contadini erano finiti a terra con la gola squarciata.

Stava raccontando l'episodio alla Nixie, comodamente appoggiata con le braccia sulla riva, il cuore pesante per la perdita di persone che erao stati suoi vicini, suoi amici e lei ascoltava, non con il solito sorriso enigmatico, ma seria e attenta, annuendo brevemene nei momenti in cui il racconto raggiungeva la maggiore tensione.

L'uomo aveva appena terminato il racconto quando lei gli rivolse la parola?

-Se lo desideri posso condurti con me per vedere la nostra città-

Quelle parole giunsero così inaspettate che non rispose subito, limitando a fissare la donna in tralice. Solo dopo molto tempo riuscì ad articolare una balbettante risposta:

-Davvero lo faresti? Perché?-

-Perché ritengo che te lo sia meritato e so che lo desideri ardentemente- rispose lei semplicemente -Allora accetti?-

Lui, per un istante, esitò: molti, troppi, interrogativi gli affollavano la mente -Lo vorrei, tantissimo. Puoi davvero farlo, non mi stai ingannando? -

-Come ti fidasti di me quando, da bambino, ti perdesti nel bosco e io ti indicai la strada per tornare a casa, così devi fidarti di me ora- ribatté la fata, solennemente

-Non rischio, forse, di annegare rimanendo troppo a lungo nell'acqua, oppure di morire assiderato? E le tue sorelle approveranno ciò che vuoi fare?-

Lei scosse la testa, chiaramente infastidita -Se sarai sotto la mia protezione non ti accadrà nulla. E non ti preoccupare, nessuna di noi fa nulla che le altre non vogliano. Perché sei così diffidente, perché hai paura?- sembrava sinceramente indignata e Brannagh sentì il cuore precipitare per averla contrariata a quel modo

-Sono solo un uomo, fata, ed è umano avere paura. Per noi la vita è preziosa: per quanto breve e pericolosa sia, è l'unica che abbiamo-

Parlando, quasi senza accorgersene, si era sempre più avvicinato alla riva, attratto dagli occhi della Nixie, profodi pozzi neri carichi di mistero, e appena ebbe finito, lei fece un'altra cosa che lui mai si sarebbe aspettato: si sporse in avanti e, tendendo una mano, gli accarezzò lentamente una guancia. Brannagh trattenne il respiro, incredulo, mentre nel suo petto il tamburellare diventava incalzante e così forte che quasi gli sembrava di poter udirlo. Il tocco di quelle dita argentee e palmate era caldo, nonostante l'acqua del lago fosse gelida come il ghiaccio e sorprendentemente morbido e delicato, una promessa di desiderio, un frammento di dolce piacere.

-Ti prego, fidati di me- il tono della fata aveva assunto una nuova sfumatura implorante.

La ragione gli pose davanti un ultimo ostacolo -Nessun uomo può trattenere il respiro così a lungo da visitare una città-

-Ci sono cose che tu non puoi capire- Il discorso era chiuso, Brannagh si arrese definitivamente -Va bene- Le braccia della donna si strinsero attorno alle sue spalle in una presa d'acciaio e trascinarono l'uomo in acqua e poi giù, verso il fondo.

All'inizio fu il panico: il freddo pungeva la pelle come una selva di aghi, i polmoni annaspavano in disperata ricerca d'aria. Questo per alcuni secondi. Dopodiché, la terra solida colpì i piedi di Brannagh e l'oscurità che fino a quel momento aveva avvolto i suoi occhi si aprì ad una luce soffusa, crepuscolare, permetendogli di ammirare lo spettacolo che aveva davanti: la prima cosa di cui si accorse era che era ancora circondato ovunque da acqua, non da aria come aveva pensato, ma lui respirava tranquillamente come se fosse in superficie, inoltre camminava comodamente, invece che nuotare come faacevano tutti i piccoli pesci che lo circondavano "Ci sono cose che tu non puoi capire" giunse a ricordargli la mente, e lui non si fece domande.

-Brannagh! Brannagh O'Malley! Vieni- una voce familiare giunse alle sue spalle "Ma com'é possibile parlare sott'acqua?" e lui si voltò vedendo vicino a sé la fata, anch'essa con i piedi poggiati al suolo. "Strade lastricate di perle. Allora, è vero, è tutto vero"

Non era sola ma era circondata da molte altre creature simili a lei, le sue sorelle, evidentemente, erano tutte ferme e lo guardavano con curiosità. Tutt'attorno si estendeva la città, bella esotica, incantata come gliela aveva descritta, come l'aveva vista nei suoi sogli, torri d'argento alte e sottili salivano fino al cielo, avvolte da alghe ondeggianti, incrostate di pietre colorate, perle, conchiglie dalle forme curiose. La luce proveniva da quelle che sembravano larghe foglie blu luminescenti, appese ad ogni palazzo.

-Ecco, Brannagh, questa è la nostra città, e queste sono le mie sorelle. Erano molto ansiose di conoscerti-

L'attenzione di Brannagh, i cui occhi, ormai, erano guizzati in ogni direzione per poter ammirare le meraviglie cui era testimone venne catapultata di nuovo in basso dalle parole della fata.

-E' raro che noi concediamo questo privilegio, e mai più di una volta nella vita di un mortale. Da ormai molti secoli nessuno della tua stirpe scendeva fino a noi. Ma tu lo hai meritato, perciò vieni, Brannagh, vieni a danzare con noi-

E con un sorriso lei gli tese una mano, che lui accolse tra le sue, così grandi e rozze, al confronto, dure e callose, come in un sogno.

E danzò, danzò sotto la superficie del mondo, nella terra ove non giunge la luce del sole, nell'acqua nera e fredda, fra le calde braccia di una fata, danzò fino a perdere il tempo, a dimenticare il suo nome, la sua stessa coscienza.

Si svegliò, rantolando e tossendo, per liberare i polmoni dall'acqua, come un infante ai primi istanti di vita. Il pallido sole era alto nel cielo e illuminava lo specchio d'acqua come cristallo, faceva freddo e i vestiti fradici, incollati al corpo, provocavano forti tremiti alla sua pelle. Se li tolse in fretta, stringendo forte tra le mani la sua perla, unico oggetto che non aveva voluto togliere, per quanto fosse gelido il suo tocco sul petto, pregando di poter trovare qualcosa con cui coprirsi, dopo pochi istanti, lo sguardo si posò su un fagotto, scuro tra l'erba intirizzita: il suo mantello. Non ricordava di averlo tolto, ma sembrava asciutto, grato se lo mise addosso sfregandosi vigorosamente le membra mentre cercava di mettere ordine nella sua testa confusa. Di quanto accaduto durante le danze fatate non conservava ricordi visivi, ma una sorta di euforia sopita, una bramosia, una struggente nostalgia, nel silenzio, quasi gli sembrava di poter udire ancora il canto delle fate acquatiche. "La Città" pensò incredulo e ammirato "Ho visto la loro città, ho danzato con loro, sono stato un di loro, per una volta" Già, per una volta, una soltanto, in tutta la vita, ricordava bene questo divieto. Improvvisamente si sentì triste. Per scacciare il pensiero, si mise a camminare, era stato un intera notte, fuori, la sua assenza avrebbe di certo destato qualche preoccupazione.

Percorrendo il sentiero indicatogli anni prima, quando era solo un bambino, giunse in breve alla sua casa. Era strettamente avvolto nel mantello, per nascondere la sua nudità, e i vestiti bagnati stretti tra le braccia come un fagotto. Il suo arrivo destò un'agitazione che

non si era aspettato: vedendolo passare, diretto alla sua porta, una donna urlò dallo stupore, lasciando cadere la cesta che portava sulla testa e molti uomini arrestarono il proprio lavoro per andargli incontro, tempestandolo di parole e domande.

Venne allora a sapere che era sparito da una settimana, e ogni ricerca, in lungo e in largo, per trovarlo, era stata vana. Suo fratello Padraig, dalla città era stato richiamato al villaggio e lui giunto si sarebbe dovuto celebrare il suo funerale.

Il fatto si aggiunse alla lista di numerose stranezze che ormai si era appuntata su Brannagh O'Malley, ma non ci furono altre conseguenze e la vita riprese ordinata e tranquilla come prima, almeno per un po'. Ma la natura di ogni cosa è di avere un inizio, un corso, una fine, e questo valeva anche per la fortuna di Brannagh.

Nulla lasciava presagire la disgrazia imminente: l'estate era stata piovosa e non esageratamente calda, l'autunno si era dimostrato una lunga, mite, protesi di quest'ultima e un'abbondante raccolto si apprestava a raccogliere l'inverno imminente.

La natura era stata generosa, quell'anno, e la paura della fame era solo un pallido spettro.

Non tutti però, potevano dirsi contenti della loro condizione, e, di fronte alla relativa tranquillità dei tanti, i pochi che, per colpa della sorte o dei loro errori, si trovavano in cattive acque erano facili prede dei veleni dell'invidia.

Colui che, probabilmente, ne era stato infettato più di chiunque altro, aveva nome Eogan O'Flaertry. Eogan era un uomo giovane, poco più anziano di Brannagh e la famiglia da cui proveniva era tra le più stimate del villaggio. Il padre di lui, in gioventù, era stato soldato ed aveva viaggiato a lungo marciando sotto i vessili, finché, congedato, non era tornato al villaggio nativo, aveva aperto un'officina di fabbro e aveva generato tre figli maschi, sani, di cui lui era stato il primo a vedere la luce. La peste, che così crudelmente aveva portato via un marito e tre figli a Cailin, fu clemente, con la famiglia O'Flaertry, che non ebbe a patire lutti, mantenendosi, grazie al lavoro dell'officina cui ognuno dei tre fratelli veniva iniziato, in condizioni più che rispettabili.

La sorte, si sa, è come un mulino, le cui pale girano incessantemente, e quella che fino a pochi secondi prima era alta, nel cielo, ecco che affonda, in basso, verso la terra, e una nuova viene innalzata ad accarezzare l'aria più vicina al sole.

Così accadde che, mentre lentamente iniziava l'ascesa di Brannagh, ecco che per gli O'Flaertry ebbero inizio inaspettate disgrazie: la moglie del fabbro morì, nel corso di una nuova gravidanza, portando il nascituro con sé, l'uomo scosso dal dolore, iniziò a bere e a trascurare la qualità del lavoro, finché un giorno in una rissa da taverna, non scivolò sul terreno bagnato di vino e unto, per lo sporco, rompendosi l'osso del collo. Un uomo fu impiccato per questa morte, ma questo non smorzò il dolore dei figli. Eogan, che allora era quasi giunto alla maggiore età, prese sotto di sé i fratelli più piccoli, rifiutando l'aiuto e l'elemosina dei vicini, ma cercando di continuare l'attività paterna, e mantenersi con essa. La sua decisione fi accolta con ammirazione e preoccupazione, ma Eogan ormai era quasi adulto e così i suoi fratelli, nessuno insistette. La malasorte, però, sembrava essersi affezionata a quei ragazzi e infatti, a un anno dalla morte del padre, il più giovane dei tre, morì di un morbo misterioso nel corso di un giorno, piombando in un sonno profondo da cui non si svegliò più, e due anni dopo, mentre i due superstiti, a tarda sera, ancora lavoravano in fucina, questa crollò rovinosamente su di loro, ricoprendoli di pesanti pietre e spandendo tutto attorno il terribile calore della fornace.

I soccorsi tempestivi non servirono a nulla.

Solo Eogan riuscì a salvarsi, e molti pensarono che sarebbe stato meglio, per lui, morire.

Crollando al suolo, la fucina aveva disperso il calore della fornace come un vento rovente, in ogni direzione ed Eogan O'Flaertry, che presso quella fornace stava lavorando, ne fu investito in pieno. Quando venne tirato fuori dalle macerie non un solo osso del coro era rimasto integro e la pelle era coperta da orribili ustioni, eppure il cuore continuava tenacemente a battere. Per giorni rimase sospeso, fra la vita e la morte ma alla fine questa lo rifiutò. Colui che si rialzò dal letto non aveva nulla del ragazzone robusto che era stato un tempo: le ustioni, ciccatrizzandosi, avevano lasciato la pelle spessa e coriacea, solcata da profondi segni pallidi, la dove era rimasto ferito a sangue. Il volto era divenuta una maschera orrenda, calva e scura, in cui espressioni normali del volto, come un sorriso, non vi potevano essere che a malapena accennate. Gli occhi incavati, brillavano di una nuova follia malevola, conseguenza del troppo dolore patito. Il corpo stesso, ormai, era un relitto disfatto, fatto di ossa mal calcificate che rendevano i movimenti rigidi e a scatti, difforme nelle proporzioni, grottesco -Cosa mai può aver fatto, la famiglia O'Flaertry per meritarsi un simile castigo?- si chiedevano i compaesani, dimenticandosi che la sorte non premia e non punisce, ma agisce a suo puro arbitrio.

Perso il suo lavoro, la sua casa, la sua famiglia, incapace, per i dolori lancinanti che sempre lo tormentavano, di compiere le stesse fatiche degli altri uomini, la mente ormai spezzata e pazza, Eodan venne relegato ai margini della vita e della vista, soggetto alla occasionale carità, e ai lavori più umili per andare avanti un giorno dopo l'altro, e non solo: se da un granaio spariva un sacco di patate, o da una stalla un agnello, o un sacchetto di monete d una casa mal custodita era certamente colpa di Eogan O'Flaertry.

Era folle, ma non vacuo come pensavano tutti coloro che vi avevano a che fare, ma manteneva una malevola intelligenza, nutrita dai cupi pensieri che, nella solitudine, gli facevano compagnia.

Aveva osservato a lungo Brannagh O'Malley, non visto, dalla sua postazione privilegiata di emarginato, aveva osservato la sua bontà, il modo in cui riusciva sempre a farsi ben volere e considerare, la sua fortuna, la sua capacità di tramutare qualsiasi cosa facesse in un successo, e un odio profondo si era insinuato in lui. Brannagh, che dal non avere nulla era divenuto ricco, rappresentava la sua parabola speculare. Si era convinto che, con qualche sorta di maleicio, l'altro avesse rubato a lui, alla sua famiglia, la fortuna, per prendersela per sé.

-E' quella perla- ringhiava, lamentandosi. Brannagh non aveva mai fatto mistero del portafortuna che portava appeso al collo -E' la causa di tutto. Ha catturato la mia fortuna e l'ha rinchiusa in quel gioiello. Lo voglio. Era mia un tempo, non farei che riprendermi ciò che era già mio-

Molte volte indugiva in questi pensieri, qualndo la fame o il freddo mordevano con maggiore insistenza, ma non aveva mai avuto il coraggio di passare alle vie di fatto. Questo finché, in una sera di inverno, squassato dalla tosse nel bugigattolo che gli fungeva da casa, ben lontano dalle altre dimore del villaggio, non gli colò dalla bocca, sporcando il pavimento fangoso, sangue rosso e appiccicoso. Capì, allora, di non avere più tempo: se non l'avesse fatto quella sera, non avrebbe più avuto la forza di farlo e la morte l'avrebbe lasciato a rimordersi in eterno, spettro rancoroso e livido di rabbia.

Era una notte senza luna e le stelle erano coperte da una spessa coltre di nuvole, per cui Eogan non ebbe alcun problema a giungere, non visto, all'abitazione di Brannagh. Era, questa, una grande casa, a due piani, in cui i superiori, in legno e sporgenti rispetto al resto dell'edificio, erano sostenuti dalle robuste mura di pietra chiara di cui era costituito il piano terra. La camera di Brannagh, sapeva, era al primo piano. Si accostò alla base della casa, facendo attenzione di non essere scorto. Aveva portato con sé un'arma, dalla sua tana, un coltellaccio arrugginito ma ancora affilato, di quelli che i macellai usano per squartare le carni delle bestie; non avrebbe permesso ad alcun ostacolo, questa volta, di bloccarlo.

Le grosse, rozze pietre del muro e le travi poste più in alto, offrivano un facile appiglio. Non fu, dunque, difficile, per Eogan, salire fino al primo piano, ad una finestra che dava su un corridoio, dalle imposte chiuse. Facendo attenzione a non fare rumore, torturando i muscoli doloranti, infilò la lama del coltello nella sottile fessura fra le due ante, finché non sentì scivolare via, al contatto, il gancio che le chiudeva. Le finestre non erano sbarrate in altro modo, Brannagh non temeva alcuna aggressione, non credeva di avere nemici. Eogan entrò. Il pavimento scricchiolò sommessamente appena vi si posò sopra, ma nessuno accorse. Guardandosi attorno, nel buio, notò la sagoma di una porta alla sua sinistra, facendo attenzione a non fare rumore, provò ad aprirla. Non era chiusa a chiave, e, ulteriore colpo di fortuna, che sembrava aver deciso inaspettatamente di ricompensarlo, dava sulla camera di Brannagh, profondamente addormentato.

La perla era lì, poggiata con noncuranza al comodino accanto al letto, incustodita; brillava debolmente pur nell'oscurità più totale ed Eogan sentì il desiderio bramoso di averla.

Nel silenzio più assoluto, tenendo costantemente d'occhio il padrone di casa addormentato, il ladro arrivò al comodino e afferrò la perla, tenendola stretta in mano. Per alcuni istanti rimase ad ammirarla, impressionato dalla sua bellezza, mentre il suo animo esultava. Teneva tra le mani, sentiva, il riscatto da tutte le sue disgrazie. Era così assorbito nell'osservare il monile che non si accorse che qualcosa si muoveva accanto a lui finché non si ritrovò steso a terra. Brannagh si era svegliato. Eogan cadde rovinosamente, gemendo quando una fitta di dolore gli pervase tutto il corpo, ma non mollò la presa sulla perla. Provò ad alzarsi ma venne immobilizzato al suolo da un corpo pesante e forte e mani d'acciaio si avvinghiarono alle sue per strappargli il bottino. Senza fiato provò a divincolarsi, e con la forza della disperazione riuscì a liberare un braccio dalla morsa e ad afferrare il coltello, che fino a quel momento l'altro sembrava non aver notato, che scattò rapido contro la pelle esposta di un fianco, penetrando in profondità. Ancora. E ancora. Brannagh urlò, mentre la camicia e il legno del pavimento iniziavano a imbrattarsi di sangue liberando il prigioniero sotto di lui, che sgusciò via, diretto alle scale che davano sul piano di sotto, verso l'uscita. Eogan aveva appena imboccato i primi scalini quando qualcosa gli si avventò alle spalle, colpendolo con la forza di un toro in corsa. Ruzzolarono insieme, ladro e vittima, precipitando fino a fermarsi nell'atrio accanto alla porta, senza smettere un secondo di lottare finché non fu l'impatto del suolo a costringerli a sospendere la lotta. Formavano un fagotto informe, i due, un groviglio di gambe e braccia contuse, entrambi imbrattati del sangue del ferito. Fu tuttavia Eogan il pimo ad alzarsi, più fragile, in apparenza, storpio, ma animato da una forza che era dettato dalla sua follia e dal suo odio oscuro. Si alzò in piedi e fuggì, spalancando la porta, senza voltarsi indietro a guardare la pozza di sangue allargarsi sempre di più sotto al corpo immobile dell'uomo che un tempo era stato fortunato. Fuggì e corse, lontano, nelle campagne nere e incolte per l'inverno. Non sarebbe tornato al villaggio, mai più, non avrebbero avuto pietà di un ladro e assassino. Ma ora aveva la perla, aveva la fortuna, niente gli sarebbe più stato negato là fuori, nel mondo

-Eogan O'Flaertry- una voce femminile risuonò attorno a lui, o forse nella sua testa. Era imperiosa e carica di minaccia -Hai derubato un uomo giusto di un sacro dono, che aveva meritato. Cosa che tu non hai fatto- un muto terrore si impadronì di Eogan che cominciò a correre a casaccio. Voleva nascondersi, andare dove la voce non l'avrebbe visto. E come? Se era solo una voce non aveva bisogno di vederlo.

-Era la mia fortuna. Era mia, ho ripreso solo ciò che già mi apparteneva-

tentò di difendersi lui, invano.

-Che cosa dici sciocco!- parole di fuoco gli si impressero nella testa. Urlò mentre queste prendevano ad eccheggiare sempe più forti -Credi veramente che fosse la tua fortuna? Povero idiota, pensi che l'uomo possa davvero controllare una simile potenza? Entità molto più grandi di te governano la buona e la cattiva sorte e le dispensano come loro desiderano-

Eogan prese a barcollare. Il dolore ormai lo aveva reso cieco e, incapace di trattenere le grida, non si curava nemmeno che qualcuno potesse sentirlo, voleva solo liberarsi da quel tormento.

-Sei un empio, Eogan O'Flaertry, un ladro e un assassino. Nessuna pena sarà mai abbastanza severa nei tuoi confronti- la voce tacque definitivamente. Dall'uomo fuoriuscì un ultimo disperato ululato.

Gli uomini e le donne che, svegliati da una così atroce agonia, accorsero al luogo non trovarono nulla, se non una grossa macchia di fango dalla sagoma vagamente umana accasciata per terra e pullulante di vermi.

Si dice che in questi vermi siano racchiusi i frammenti disfatti della sua anima tormentata e questi, moltiplicandosi a dismisura nella terra ne accrescerebbero le eterne sofferenze, come un corpo fatto a brani che, rimanendo cosciente, continuasse a percepire dolore in ogni membro reciso. Queste larve sarebbero riconoscibili per non essere pallide come la maggior parte dei propri simili, ma nere, nere come la grossa, cupa perla, ritrovata in mezzo alla melma, e si dice che, tagliandole in due, si possano sentire, per un momento, le atroci grida di un uomo.

Questa fu la fine di Eogan O'Flaertry nelle storie e nei canti.

 

Brannagh si alzò, dalla pozza del suo stesso sangue, barcollando, sforzandosi di non scivolare. Il ladro era ormai lontano, irraggiungibile. La vista gli si offuscava, sempre più e sentiva la fine vicina. Ma sapeva cosa l'attendeva prima della morte.

Uscì, incespicando, dalla porta mentre il cielo sopra la sua testa diventava rapidamente denso e scuro, e un cupo brontolio lo pervadeva, tremendo presagio. Non una goccia di pioggia cadde al suolo, ma una selva di fulmini, come lingue di fiamma, si abbatterono sulla casa e sugli ampi granai che presto divamparono, rossi e crepitanti. La fortuna di Brannagh. Presto null'altro che cenere. Lui rimase appena fuori dalla portata del fuoco, a osservare il maestoso spettacolo della sua rovina. Voleva morire lì, all'inizio, in mezzo a ciò che era stato suo e che con così rapida crudeltà gli era stato tolto. Poi qualcos'altro si mosse nell'animo e allora capì che era altro ciò che desiderava. Si voltò, lasciandosi alle spalle tutta la sua vita e, con un'energia che, così vicino all'ultima soglia, non credeva si potesse possedere, si mise a correre. Ed entrò nel bosco. Gli sembrò di attraversare un attimo, un battito di ciglia, e già era lì, nella radura, immota e uguale a sé stessa, in cui l'erba secca e pallida, circondava il lago, che, nel buio della notte, appariva come un pozzo nero e senza fondo. Arrivò fino alla riva, poi si arrestò e, rivolto all'acqua piatta come vetro, gridò la sua supplica.

-Accoglietemi tra voi, vi prego, a danzare un ultima volta nelle profondità senza sole-

E senza attendere una risposta, si lasciò cadere, sprofondando senza lasciare traccia.

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Mi scuso in anticipo per gli errori che posso non aver individuato correggendo un po' di fretta!
Spero che il racconto risulti gradevole nonostante la lunghezza un po' inusuale :) consigli e pareri sono sempre bene accetti :)
 

  
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