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Autore: Peter The Sloth    14/04/2013    1 recensioni
Jacques è un venticinquenne uscito dalla dipendenza da eroina. Vive da solo, nella casa che è stata dei genitori.
Ha un quadro che li raffigura, e ogni tanto gli causa qualche sospiro nostalgico. Ma mai gli ha causato problemi.
Quella mattina, invece, gliene causa.
Genere: Generale, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Quadro.

Sia benedetto Gesù Cristo, è domenica.
Mi sveglio, controllo fugacemente l’ora, mi giro nuovamente verso il muro, dall’altra parte.
Quindi, caccio un urlo e cado dal letto.
Chi diavolo ha spostato questo quadro?
 
Il quadro di Heinrich, raffigurante i miei genitori, è stato spostato nottetempo dal soggiorno in camera in mia. E’ stato tutta la notte davanti alla mia faccia. Mi muovo poco o nulla di notte, e mi sveglio sempre nella stessa posizione in cui mi sono addormentato.
Sono agghiacciato. Seduto sul pavimento, sento che i miei capelli sono scompigliati in modo comico. La mia faccia dev’essere impagabile.
Non muovo un muscolo. Mi pare di aver smesso di respirare.
Non prendo nemmeno in considerazione l’idea che sia un sogno, è così incredibilmente banale. Insomma, cazzo, uno se ne accorge se è sveglio o addormentato. Giusto se torni da un trip di acidi non lo capisci.
 
Il quadro è sempre lo stesso.
Mio padre con quella faccia vagamente demoniaca che non è sua, mia madre con una faccia estremamente angelica che non è sua. Dovrebbe essere il contrario.
Mi fissano, come farebbero sempre, anche se fossero nello sgabuzzino, nel bagno o in cucina.
La firma, “Heinrich Y.”, è sempre lì. Acquarello nero, calligrafia graffiante, aguzza. Talmente aguzza che dà l’impressione di lacerare la tela.
Peculiare, sì, ma è sempre quella.
Insomma, il quadro è lo stesso.
Ma non so come cazzo ci sia finito in camera mia.
 
Mi alzo a fatica. Come se niente fosse accaduto, vado a fare colazione.
Riscaldo il pane, preparo il caffè, tiro fuori le marmellate, faccio la “schiuma”. Vecchia storia, quella della schiuma. L’unica famiglia al mondo che si fa il cappuccino da sola, siamo.
Sorseggio.
Do’ un morso al pane, ricoperto di burro e zucchero. Mi guardo intorno.
Quindi, nuovamente, caccio un urlo, rovescio il rovesciabile e con la stessa faccia di prima mi ritrovo in piedi, con la schiena premuta contro il rovente ferro del tostapane.
Fa male, sì, ma pur di stare lontano da quel quadro mi sparerei un colpo sulla scapola.
E’ uno scherzo decisamente di cattivo gusto, questo di spostare i quadri.
Anche perché in cucina ci sta maluccio.
 
Riprovo la stessa tattica: me ne infischio. Mi vado a lavare, sciacquo il pigiama sporco di burro, caffè e anche un po’ bruciacchiato per colpa del vecchio tostapane.
Poi commetto l’errore, ancora una volta, di girarmi.
Jacques, sei un cazzone.
Il quadro è, ovviamente, appeso in bagno. Sullo specchio.
Ripeto la gag per la terza volta e il pigiama finisce nel cesso.
Prendo in mano il quadro.
Chi l’ha appeso sullo specchio ha fatto un lavoro pulito: un foro, piccolo, dove mettere il chiodo. Senza una sbavatura.
 
Riporto il quadro al suo posto, in soggiorno. Non mi sorprende il fatto che il buco nel muro fatto per appenderlo sia scomparso.
Lo appendo, fissando il chiodo con un libro. Tanto era un mattone, una traduzione orribile di “Il Ritratto di Dorian Gray”.
Penso al fatto che il libro parli di quadri e scoppio a ridere.
Così, giusto per mascherare il fatto che sia morto di paura tre volte, oggi.
 
Mi giro per posare il libro sul tavolo.
-Jacques, aspetta un attimo.
Il sangue mi si gela nelle vene.
Con un gesto assurdamente naturale, mi giro e lancio il libro alla cieca. Manco di poco il quadro.
-Calmo, Jacques.
Vedo distintamente le labbra di mio padre muoversi sul quadro.
 
-Scusa.
Grazie al cazzo che chiedi scusa! E’ da un’ora che mi fate prendere un colpo dietro l’altro, penso. Ma dietro quest’ironia nascondo una gran voglia di piangere e di correre ad abbracciare quel quadro.
-Scusa per averti abbandonato-, aggiunge mamma, che si è girata verso di me.
-Scusa per averti abbandonato a te stesso, in un mare di guai ed eroina.-, la corregge papà.
E sì che ci ho pensato all’astinenza, ma in fondo non mi faccio un buco da tre anni.
Ora, però, non so che rispondere.
Apro e chiudo la bocca senza emettere un suono.
-Jacques, ci perdonerai?
 
Penso a tante cose.
Penso a mio padre.
Penso a mia madre.
Penso alle mie vene violacee ed all’orgasmica sensazione che percorre tutto il mio corpo.
Penso a mio padre che rientra in casa e mi trova completamente fatto.
Penso alla siringa che mia madre spezza davanti a me per poi ricoprirmi d’insulti.
Penso a entrambi che mi cacciano di casa.
Penso al centro di recupero, a quegli otto mesi d’inferno.
Penso all’uscita dalla clinica e alla macchina che corre veloce sotto la pioggia per tornare a casa.
Penso alla porta che mio padre non apre quando mi vede bussare a ripetizione.
Penso all’acqua, alla tanta acqua che scende dal cielo e che mi bagna la testa, i vestiti, il corpo.
Penso alle lacrime che si confondono con essa.
Penso alle loro bare, due anni dopo.
Penso alle loro lapidi.
Penso ad Heinrich, crucco di merda, che mi consegna il ritratto che anni prima aveva fatto e consegnato ai miei genitori.
Penso alla storia di Heinrich, a mio padre che lancia addosso all’amico il quadro durante un litigio.
Penso ad Heinrich che prende il quadro, si volta e se ne va.
Penso a mio padre che si mette a piangere.
Penso a mia madre che si mette a piangere.
Penso ai miei genitori.
 
Poi, il quadro scompare.
Rimango seduto sul pavimento, sorridente, a fissare la parete del soggiorno, mentre le lacrime mi appannano la vista.

Poi, continuo a vivere come se non fosse successo nulla.
  
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