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Autore: lu and the diamonds    14/04/2013    5 recensioni
[slash; fluff]
[zaynxliam]
[con la partecipazione speciale di Lottie e Fizzy Tomlinson!]
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Tutti sappiamo la storia del sedicesimo compleanno di Liam...ma cosa sarebbe successo se quel giorno lui avesse incontrato Zayn?
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Dal testo:
«Secondo te perché non è ancora arrivato nessuno?» balbettai, preoccupato.
«E io che ne so?»
«Dai, secondo te perché?» insistetti, sperando che mi desse una qualunque risposta che potesse tranquillizzarmi, ma «Perché sei uno sfigato» replicò quella, senza riuscire a trattenersi dal ridacchiare.
Sentii il fiato mancarmi per un attimo e gli occhi pizzicarmi. No, non era vero. Non ero uno sfigato. Ruth era solo un’acida senza cuore ed era invidiosa che presto avrei festeggiato con tutti i miei amici e mi sarei divertito. Era certamente per quello, mi dissi, stringendo i pugni e i denti per non piangere.

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Ero soltanto uno stupido sedicenne solo e triste, che in quel momento sentiva le orecchie andargli a fuoco, perché un ragazzo che non conosceva gli si era seduto accanto e gli stava rivolgendo la parola.
«Allora, che succede?» mi chiese il moro dagli occhi scuri e profondi, sfiorandomi un ginocchio e facendomi avvampare.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Liam Payne, Zayn Malik
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Be the cherry to my cake.






Alla mia Fabia (aka everybodyneedsshirin),
buon compleanno (e scusa se fa pena!).

 

 



***

 
Liam
Quel sabato del 29 agosto 2009, il sole era seminascosto dalle nubi, lì nell’alto del cielo di Wolverhampton, e un vento caldo soffiava nell’aria, rendendola umida e appiccicosa, ma a me, seduto sul sedile posteriore dell’auto dei miei genitori, stretto fra le mie due biondissime sorelle, Nicola e Ruth, non importava. Mi sentiva eccitato come non mai: era il giorno del mio sedicesimo compleanno e quella giornata, che era già iniziata splendidamente – avevo ricevuto una macchina in regalo! – non poteva che migliorare.
Eravano diretti al Malik’s, un locale carino situato in Queen Square; i miei genitori avevano prenotato alcuni tavoli per me e i miei compagni di scuola, avremmo festeggiato lì. E io non potevo fare altro che essere ansioso ed emozionato allo stesso tempo: non avevo mai fatto una festa, non con i miei amici per lo meno.
Ero sempre stato troppo timido e “secchione” perché qualcuno volesse essere mio amico, eppure durante gli ultimi mesi di scuola avevo legato con un paio di ragazzi e anche iniziato a parlare con quasi tutti gli altri, era un enorme progresso! Forse era stato quello a spingermi a prendere il telefono, due settimane prima, e, con le dita tremanti, comporre i numeri di tutti loro per invitarli alla sua festa. Ancora non ci credevo davvero, che molti di loro avessero accettato, “sì, ci sarò!” mi avevano detto entusiasti ed io era stato certo che quello sarebbe stato il giorno più felice della mia vita.
Perché non mi ero mai sentito parte di niente, mai; ero sempre stato solo e morivo dalla voglia di sperimentare, tastare, scoprire, ero davvero curioso di sapere come ci si sentisse ad essere al centro dell’attenzione, a fare una battuta simpatica e vedere gli altri ridere – con me, non di me – e, quando svoltammo in Lichfield Street, fremetti al pensiero che mancasse davvero così poco a quel momento. Mi agitai un po’ sul sedile e mi sistemai il colletto della camicia rigorosamente a quadroni – perché avevo sempre amato i quadroni – e sospirai troppo rumorosamente. Mia madre si voltò dalla seduta anteriore per guardarmi negli occhi.
«Tutto okay, amore?» domandò, apprensiva.
Solo a lei avevo avuto il coraggio di confessare quanto fossi in ansia per quel giorno, perciò mi costrinse ad annuire, provando ad essere più o meno convincente, e «Tutto okay!» confermai, per poi sorriderle sinceramente. Quando la donna si rivoltò, spinsi lo sguardo fuori dal finestrino – scoprii che ormai il sole era quasi tramontato del tutto – e mi persi ad immaginare la serata nei minimi dettagli, finché Nicola non mi sfiorò un ginocchio con la mano.
«Mi dispiace non poter restare con te…e mi dispiace che per colpa mia non possano esserci neanche mamma e papà al tuo compleanno» disse piano, un’espressione rammaricata dipinta sul volto pallido e spigoloso. Scossi il capo e le presi la mano. «Tranquilla Ni, io festeggerò ancora tanti compleanni in vita mia, ma questa gara è la tua grande occasione per farti notare, non puoi mancare!»
La bionda mi sorrise dolcemente, probabilmente orgogliosa che, nonostante avessi solo sedici anni appena compiuti, fossi così comprensivo. Ma come avrei potuto non esserlo? Lei era una sorella fantastica, c’era sempre per me, qualsiasi problema avessi, lei era sempre pronta ad aiutarmi a risolverlo e l’indomani avrebbe avuto una gara di moda dalla parte opposta della nazione; quella gara era troppo importante perché se la perdesse per uno stupido compleanno, ne andava di mezzo il suo futuro e la sua felicità!
«D’accordo!» esclamò quindi. «Però promettimi che appena torno, festeggiamo insieme, io e te da soli!»
Ridacchiò della sua espressione seriosa e le porsi il mio mignolo, al quale lei incrociò il suo.
«Promesso!» giurai, suggellando il nostro patto.
 
Quando, alcuni minuti dopo, scendemmo tutti dall’auto, temetti seriamente che le gambe non mi avrebbero retto: ero troppo emozionato, troppo agitato, troppo in ansia, troppo…troppo. Così mi limitai ad affiancarmi a Nicola e seguire i miei genitori, mentre una Ruth sbuffante camminava dietro di noi con passo strascicato. Sull’insegna nera del locale troneggiava la scritta “Malik’s” in grandi lettere nere e a stampatello; sulla porta c’erano un paio di persone che chiacchieravano. Entrammo.
All’interno, l’ambiente era accogliente e – ringraziai Dio per quella benedizione – climatizzato. I tavoli e le sedie di legno nero erano disposte a spina di pesce lungo tutta la parete a vetro, sui muri color pesca vi erano dei quadri, che assurdamente non riconobbi, e il pavimento e il bancone di marmo brillavano, perfettamente tirati a lucido. Mentre mi perdevo ad esaminare la sala, un uomo dalla carnagione mulatta ci venne incontro, con un sorriso splendente dipinto sulle labbra.
«Salve!» ci salutò, per poi stringere le mani dei miei genitori. «Suppongo che tu sia Liam» disse, voltandosi verso di me che, percependo il sangue defluire verso le guance, mi limitai ad annuire. «Io sono Javadd Malik, vi stavo aspettando. Seguitemi, così vi mostro i vostri tavoli» spiegò, incamminandosi verso il fondo della sala, sulla quale si apriva una porta. Ci accodammo all’uomo, il quale stava parlando di chissà cosa con mio padre: non li stavo ascoltando, era troppo eccitato per la festa per prestare loro attenzione!
«Eccoci qui, il 17 e il 18. In totale sono venticinque posti a sedere, come mi avevate chiesto al telefono»
«Perfetto!» esclamò, entusiasta, mia madre, mentre Javadd Malik annuiva e si allontanava verso quella che doveva essere la cucina.
«Allora, caro» disse l’uomo da cui avevo ereditato il cognome, mettendomi una mano sulla spalla. «Noi ora andiamo, tanto qui con te resta Ruth – che sbuffò silenziosamente, ma non abbastanza da non meritare un’occhiataccia da parte di nostra madre – e comunque ti telefoniamo più tardi! Divertiti, figliolo» concluse, soffocandomi in un abbraccio.
«Certo, papà, grazie!»
Salutai con un bacio Karen e Nicola e, una volta che furono andati via, iniziai a camminare avanti e indietro per la sala – mentre alcuni tavoli iniziavano a riempirsi – per cercare di calmare la mia ansia. Avevo detto a tutti che la festa sarebbe iniziata alle sette e ormai mancavano davvero pochissimi minuti, prima che quelli arrivassero.
«Liam» sbuffò mia sorella, improvvisamente, alzando gli occhi dal cellulare, che non aveva mollato nemmeno per un attimo. Spaventato dalla sua voce che arrivò alle mie orecchie senza preavviso, mi fermai di colpo e mi voltai verso di lei con un’espressione interrogativa. «Vuoi stare fermo? Mi stai facendo venire da vomitare» disse, acida come sempre, per poi tornare a digitare qualcosa su quella stupida tastiera.
Sospirai e mi sedetti su una sedia, la schiena ritta contro lo schienale, perché proprio non ce la facevo a calmarmi. Iniziai a ticchettare le dita sulla tovaglia color panna, sistemandomi con le mani il ciuffo di capelli lisci, che da due anni mi ostinavo a stirare, perché così facendo sembravo un po’ più grande, dato che il vento li aveva scompigliati, e controllando l’orologio di tanto in tanto. Erano trascorsi ormai venti minuti, ma ancora nessuno dei miei compagni di scuola era arrivato.
«Ru?» domandai, mordendomi il labbro, mentre la mia felicità iniziava a vacillare. La bionda sollevò lo sguardo annoiata e «Che vuoi?» disse, alzando gli occhi al cielo.
«Secondo te perché non è ancora arrivato nessuno?» balbettai, preoccupato.
«E io che ne so?»
«Dai, secondo te perché?» insistetti, sperando che mi desse una qualunque risposta che potesse tranquillizzarmi, ma «Perché sei uno sfigato» replicò quella, senza riuscire a trattenersi dal ridacchiare.
Sentii il fiato mancarmi per un attimo e gli occhi pizzicarmi. No, non era vero. Non ero uno sfigato. Ruth era solo un’acida senza cuore ed era invidiosa che presto avrei festeggiato con tutti i miei amici e mi sarei divertito. Era certamente per quello, mi dissi, stringendo i pugni e i denti per non piangere. Impiegai diversi minuti perché le lacrime smettessero di spingere, chiedendo di essere liberate, ma alla fine io fui più forte di loro e le ricacciai indietro.
La bionda nel frattempo si era alzata dalla sedia e, dopo essersi aggiustata la gonna verde, lisciandola con le mani, mi guardò e «Senti, fuori c’è Mike, esco con lui. Torno a prenderti fra qualche ora» mi disse con noncuranza, senza lasciarmi il tempo di ribattere, per poi dirigersi fuori dalla sala, lasciandomi solo con me stesso. Da una parte gliene fui persino grato: essere costretto alla sua presenza era snervante e forse ora mi sarei rilassato un po’, mentre aspettavo che i miei compagni arrivassero.
Perché sarebbero arrivati, ne ero certo.
Io non ero uno sfigato.
 

***


Zayn
«Zayn!» mi chiamò mio zio, Javadd, il proprietario della pizzeria in cui lavoravo da qualche anno, facendomi sobbalzare. L’uomo, alto e con la pelle di alcune tonalità più scura della mia, entrò nella cucina, guardandosi attorno, probabilmente cercando me.
«Sì, zio, dimmi» replicai, mentre continuavo a sciacquare i piatti che stavo lavando. Quello mi si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla.
«Ti dispiace andare a fare una consegna a domicilio? Hanno chiesto espressamente di te»
«D’accordo» acconsentii, sbuffando. In ogni caso sgranchirmi un po’ le gambe non mi sarebbe dispiaciuto, nonostante al di fuori del locale l’aria fosse bollente, così mi asciugai le mani sul grembiule blu, che poi sfilai ed appesi ad un gancio sulla parete della cucina. Attraversai la sala adiacente: erano quasi le otto di sera ed era già piuttosto affollata, nel fine settimana il locale era sempre gremito. Ormai solo pochi tavoli erano liberi e uno di quelli attirò la mia attenzione.
Vi era seduto un ragazzino – avrà avuto quindici o sedici anni – ed era solo.
Che strano, pensai, scrutandolo meglio.
I capelli color caramello – acconciati in un ciuffo liscio che si adagiava ordinatamente sulla sua fronte – incorniciavano un paio di occhi cioccolato – notai quando sollevò lo sguardo verso la vetrata e sospirò –, un naso piccolo con la punta leggermente rivolta verso l’alto, e delle labbra carnose e rosse, forse divenute di quel colore a forza di mordicchiarle, nel modo in cui stava facendo proprio in quel momento. Era davvero bellissimo – tanto che sentii le mie guance imporporarsi appena – e sembrava triste, molto triste.
Aspettava qualcuno che non era ancora arrivato, forse? Avrei voluto aiutarlo, nonostante non sapessi come, ma avevo quella consegna da fare e non potevo proprio rimandare. Così, passandomi una mano fra i capelli corvini, superai a malincuore il ragazzino ed uscii dalla sala, per poi prendere i cartoni di pizza e uscire dal locale.
L’aria umida di quella fine di agosto mi si appiccicò sulla pelle non appena mossi un passo fuori dalla porta, facendomi mancare il fiato per un momento, a causa del cambio repentino della temperatura. Mi concessi qualche secondo per abituarmici, poi legai le pizze al vano bagagli della mia moto e mi misi in sella. Controllai l’indirizzo che mio zio aveva scribacchiato in fretta su un foglietto: mi venne quasi da ridere, riconoscendolo; almeno non era molto lontano di lì, quindi avrei impiegato poco tempo. Dopo pochi minuti, infatti, arrivai di fronte alla grande villa che conoscevo tanto bene; parcheggiai la moto nel vialetto del cortile e mi accinsi a suonare al campanello, ma non ne ebbi neppure il tempo, perché la porta si spalancò immediatamente, mostrando due ragazzine bionde, con gli occhi chiari come il cielo, le guance rosse di imbarazzo, che mi sorridevano.
«Ciaaao» dissero quasi all’unisono, la più grande si morse il labbro inferiore.
«Buonasera, signorine Tomlinson» le salutai gentilmente, sapevo che erano entrambe pazze di me: capitava almeno una volta alla settimana che fossi costretto a consegnare le pizze a casa delle due biondine, che chiedevano sempre che fossi io a farlo.
«Fa caldo eh!» esclamò la più piccola, sventolandosi con la mano e spostandosi di proposito la spallina della canottiera arancione che indossava. Quella volta fui io ad arrossire di fronte a quel gesto…ah, se solo avessero saputo! Cercai di non badarvi troppo e sorrisi loro, dicendo «Già, le pizze qui dentro staranno ancora cuocendo!», provocando la risata di entrambe, come se avessi effettivamente esclamato la più brillante delle battute.
«E anche tu avrai caldo…» azzardò la più grande, fissandomi con quegli occhi glaciali. «Vuoi entrare per bere un po’ d’acqua?»
Sospirai nella mia testa, stanco di quella situazione che andava avanti da mesi.
«Mi dispiace, devo proprio andare» le risposi, mostrandomi dispiaciuto, e porgendo loro le pizze. «Comunque, sono undici sterline» dissi e l’altra mi porse immediatamente i soldi.
«Grazie mille, alla prossima, Zayn!» mi salutarono, chiudendosi la porta alle spalle.
Mi concessi di prendere un respiro un po’ più profondo e risalii sulla moto, per ritrovarmi nel parcheggiò della pizzeria. Legai la moto con la catena e mi diressi all’interno, dove finalmente potei bearmi di un po’ di fresco, grazie all’aria condizionata. Quell’estate, il tempo ci stava dando davvero del filo da torcere, lì a Wolverhampton: le temperature non sembravano essere intenzionate ad abbassarsi per nulla al mondo. Mentre ci pensavo, mi rassettai i capelli e dopo aver salutato un paio di clienti abituali che riconobbi seduti ai tavoli della prima sala, mi avviai verso la seconda, diretto alla cucina.
Non appena entrai nella stanza, però, il mio sguardo corse involontariamente al posto in cui appena mezz’ora prima era seduto quel ragazzino dalle labbra rosse e – quasi non ci credetti! – lui era ancora lì. Solo. Con gli occhi ancora più intrisi di tristezza.
«Hey! Tutto okay?» gli domandai, cedendo all’impulso che mi stava ordinando da quando l’avevo visto la prima volta di avvicinarmi a lui. Il biondino sollevò lo sguardo, spaesato. Mi guardò; arrossì; si asciugò una lacrima – non avevo notato stesse piangendo – ed «Eh?» mugugnò, tirando su col naso. Mi si strinse il cuore. Tirai indietro la sedia accanto alla sua e mi ci sedetti.
«Allora, che succede?» insistetti. Speravo di capire quale fosse il problema per poterlo poi aiutare, ma lui se ne stette semplicemente così, seduto con lo sguardo basso, senza dire una parola, arrossendo e tirando su col naso. Gli sfiorai il ginocchio con le dita, non sapendo bene cos’altro fare.
Perché un ragazzo così carino se ne sta seduto da solo in una pizzeria a piangere? E chissà che forma assumono le sue labbra rosse quando si stendono in un sorriso, mi chiesi allora, pensando ad un modo per farlo sorridere.
 

***


Liam
Ero completamente rosso di imbarazzo. Ero ancora seduto al tavolo della pizzeria e nessuno dei miei compagni di scuola si era presentato. Ormai avevo perso la speranza che qualcuno arrivasse e, per quanto mi sentissi un idiota totale, l’unica cosa che mi venne in mente di fare fu piangere. Così senza farmi notare da nessuno in quella sala – nessuno mi avrebbe notato in ogni caso, erano tutti troppo impegnati a godersi la compagnia dei propri familiari o dei propri amici – iniziai a singhiozzare sommessamente.
Ero a pezzi.
Ero stato un ingenuo e un illuso credendo che a qualcuno importasse di me. Avevo sperato fino all’ultimo secondo che qualcuno arrivasse correndo e che col fiatone e un pacchetto regalo stretto fra le mani mi dicesse “Hey Liam, scusa per il ritardo, c’era traffico. Buon compleanno!”; avevo immaginato mille e più scenari diversi, inventato mille e più scuse per giustificare il fatto che nessuno degli invitati fosse venuto al mio compleanno, ma la motivazione che mi risuonava in testa era sempre la stessa: era uno sfigato.
Mia sorella aveva ragione. Ero solo uno sfigato e a nessuno importava di me, nemmeno alla mia famiglia. Ero soltanto uno stupido sedicenne solo e triste, che in quel momento sentiva le orecchie andargli a fuoco, perché un ragazzo che non conosceva gli si era seduto accanto e gli stava rivolgendo la parola.
«Allora, che succede?» mi chiese il moro dagli occhi scuri e profondi, sfiorandomi un ginocchio e facendomi avvampare.
Perché mai un ragazzo così bello se ne sta seduto accanto ad uno sfigato come me? Perché si interessa a me?, mi domandai, senza riuscire a trovare una risposta che avesse un minimo di logica.
Mi sentivo troppo in imbarazzo con lui al mio fianco, perciò decisi di non rispondere, magari si sarebbe stancato di starmi dietro e se ne sarebbe andato. Presi a torturare con le mani il bordo della mia camicia, senza staccare neppure per un attimo lo sguardo dal pavimento.
«Hey, andiamo…» sussurrò ancora lui, insistendo, con voce dolce.
Perché deve insistere?, mi chiesi, sentendo un peso sullo stomaco.
Perché non solo stavo piangendo e mi stavo mettendo volontariamente in imbarazzo sembrando un idiota, no! Come se non bastasse, quel ragazzo così gentile era anche bellissimo. No, non bellissimo: era bellissimissimo! Con quelle labbra carnose e la carnagione scura e le ciglia nere lunghissime e il viso spigoloso e quell’espressione preoccupata sul viso, che gli rendeva lo sguardo ancora più dolce. E non era ancora finita, naturalmente. Le mie guance, infatti, non stavano ribollendo perché mi stavo mettendo in ridicolo né tanto meno perché quel ragazzo bellissimo; piuttosto ero certo che da un momento all’altro sarei andato a fuoco perché mi sentivo irrimediabilmente attratto da lui.
Quando ci pensai, sentii una stretta allo stomaco. Avevo sospettato di essere…uhm, interessato ai ragazzi più che alle ragazze solo qualche mese prima ma fino a quel giorno non ne avevo mai avuto la conferma. E invece ora, quel ragazzo perfetto era venuto fuori dal nulla e si comportava in modo carino e gentile con me, come se davvero gli importasse, e io mi sentivo morire. No, quella situazione non andava affatto bene, dovevo rimediare, dovevo fare in modo che se ne andasse e mi lasciasse solo a piangere su me stesso e sulla mia triste vita.
«Succede che sono uno sfigato» sussurrai, cercando di prendere abbastanza coraggio da fargli sentire la mia voce. Mi schiarii la gola, tossicchiando appena, e sollevai lo sguardo. I suoi occhi nocciola erano ancora fissi su di me e ora sembravano anche confusi, oltre che preoccupati.
«Cosa?» mi chiese, aggrottando la fronte.
«Sono uno sfigato» singhiozzai, non riuscendo a trattenermi. «E’ il mio sedicesimo compleanno e avevo invitato delle persone…ma nessuno di loro è venuto perché sono uno sfigato» spiegai, asciugandomi l’occhio con il dorso della mano. Lui fece per dire «Sono sicuro che ti sbagl-», ma lo interruppi immediatamente.
«No, credimi, è così.» La voce mi venne fuori quasi strozzata, mi detti dell’idiota per la millesima volta e, dopo aver preso un altro respiro, continuai. «Nessuno mi vuole bene, se ne fregano tutti di me e sinceramente non capisco proprio perché tu stia sprecando il tuo temp-»
«Ti va di andare a fare un giro?» mi bloccò allora lui. «Cosa?» domandai, certo di aver capito male. Non era assolutamente possibile che io gli stessi raccontando quanto fossi sfigato e lui mi chiedesse di uscire.
«Sì, ehm…» blaterò, passandosi una mano nel ciuffo corvino, un po’ in imbarazzo. Si morse il labbro con un’espressione insicura, il che lo rese ancora più bello. «Visto che non arriva nessuno, ti va di fare due passi insieme? E’ pur sempre il tuo compleanno, non puoi passarlo chiuso qui dentro!» esclamò poi più convinto. A non essere convinto, però, ero io.
«Non prendermi in giro…» mormorai, mentre le lacrime tornavano a spingere, impazienti di venir fuori.
«Non lo sto facendo, infatti» replicò lui, aprendosi in un sorriso che fece perdere un battito al mio cuore. «Allora, ti va, sì o no?» insistette, continuando a sorridere.
E cos’altro avrei potuto fare se non dirgli di sì?
 

***


Zayn
«Zio» dissi, entrando nella sala bar. Javadd era dietro il bancone a servire due ragazze e, quando mi avvicinai, mi fece appena un cenno.
«Dimmi, Zayn»
«Ti dispiace se stacco per un’oretta? Dovrei fare una cosa…è importante» aggiunsi mordendomi il labbro. Mio zio, percependo quell’insicurezza nella mia voce, sollevò lo sguardo per osservarmi e inarcò un sopracciglio.
«Mh…okay» accettò infine, evitando di fare domande. Tirai un sospiro di sollievo e lo ringraziai, per poi tornare al tavolo dal biondino che mi stava aspettando.
«Andiamo?» gli chiesi. Ero felice che avesse accettato, non meritava di passare in quel modo il proprio sedicesimo compleanno e forse non avevo chissà cosa da offrirgli, ma avevo la presunzione di potergli strappare almeno un sorriso e quello sarebbe stato sempre meglio di niente. Lui annuì ed uscimmo dal locale.
«Fa caldo» borbottò, grattandosi la nuca, in imbarazzo.
«Uhm…forse è meglio se andiamo con la moto, che ne dici?» gli proposi. Effettivamente, faceva un gran caldo nonostante fosse già sera. Lui staccò gli occhi dal marciapiede per guardarmi, e li sgranò.
«Okay. Però non correre!» mi minacciò, facendomi ridacchiare. Le sue labbra si tesero in una linea dritta, preoccupata.
«Giuro che non corro» promisi, salendo sulla moto e facendogli segno di salire dietro di me. Il biondino ci si arrampicò un po’ goffamente e, una volta in sella, notai che fece bene attenzione affinché i nostri corpi si sfiorassero nel  minor numero di punti possibile. Mi voltai verso di lui, porgendogli il casco.
«Tieni…ehm, non so come ti chiami» ammisi, rendendomene conto solo in quel momento.
«Liam» disse semplicemente, con le guance rosse, bellissimo.
«Io sono Zayn» mi presentai a mia volta. «Ora andiamo!» lo avvertii, dandogli un colpetto sulla coscia che mi stringeva sulla destra.
 
Dieci minuti più tardi eravamo sulla New Hampton Road e Liam era stretto contro la mia schiena, le mani avvinghiate ai miei fianchi; dallo specchietto notai che teneva gli occhi chiusi. Rallentai per parcheggiare e «Liam?» lo chiamai. «Tutto okay? Siamo arrivati»
Il biondino si riscosse tutto d’un tratto, come se avesse appena notato che fossimo fermi, e si allontanò di botto da me.
«Hai corso…» mormorò, riprendendo a fissare il marciapiede, dopo essere sceso dalla mia moto. La legai con la catena e lo guardai, sperando di incrociare i suoi occhi color cioccolato.
«Mi faccio perdonare» giurai, sorridendo e lui si morse il labbro.
Quel ragazzo era di una timidezza infinita e dubitavo che sarei riuscito a strappargli una frase composta da più di dieci parole entro la fine della nostra uscita. In silenzio ci incamminammo verso il cancello di Park Road West, ognuno perso nei propri pensieri. L’avevo portato lì perché amavo quel posto: era un parchetto tranquillo, bellissimo e speravo gli sarebbe piaciuto. La distesa di verde che ci si stagliò di fronte una volta entrati lasciò entrambi quasi senza fiato. L’erba e gli alberi erano rischiarati da alcuni lampioni disseminati qua e là per tutto il parco e rendevano l’atmosfera quasi surreale.
Mentre camminavamo sentii il biondo sospirare.
«Qualcosa non va?» mi voltai a chiedergli. Lui scosse la testa, mordendosi il labbro inferiore.
«No, solo…non venivo qui da tanto tempo, mi mancava un po’» mi spiegò, muovendo qualche passo verso il laghetto. Si fermò a pochi centimetri dal bordo, raccolse un sassolino e lo lanciò al suo interno, facendo spostare un paio di anatre, infastidite. Poi, quasi come riscuotendosi dal filo dei propri pensieri, «Come mai siamo venuti proprio qui?» mi chiese.
«Non lo so...perché è bello» “come te” avrei voluto aggiungere, ma non lo feci per paura di sembrare troppo sfacciato o spaventarlo. Liam si girò verso di me e annuì, regalandomi un piccolo sorriso.
«Hai ragione, è proprio bello»
Gli sorrisi di rimando e «Ti va di prendere un gelato?» gli domandai.
Il biondo abbandonò per terra i sassolini che aveva raccolto e «Okay» annuì, riaccostandosi a me, che ero rimasto un po’ lontano dal laghetto, avevo sempre avuto paura dell’acqua.
«Allora, Liam. Dimmi un po’…studi?»
Volevo sapere tutto di lui, volevo scoprire il suo piatto preferito e lo show televisivo che guardava la domenica sera, e mi sembrò assurdo sentirmi così interessato ad una persona appena conosciuta, ma quel ragazzino dagli occhi dolci mi incuriosiva così tanto che avrei trascorso ore ed ore a fargli domande e ad ascoltarne le risposte, facendomi cullare dal suono della sua voce, ma naturalmente cercai di controllarmi.
«Sì, fra due settimane inizierò l’ultimo anno di superiori, non vedo l’ora di andare all’università!» esclamò, preso da un improvviso entusiasmo.
«Oh, davvero? Che facoltà hai intenzione di scegliere?» gli domandai, mentre ci avvicinavamo ad un chioschetto e finalmente la tensione iniziale cominciava a sciogliersi.
«Veterinaria!»
«Quindi ami gli animali, mh? Io ho un cane!» gli dissi, senza un apparente motivo, volevo che sapesse di me, della mia vita, volevo raccontargli tutto, anche le cose più stupide o banali, e volevo dirgli che non avevo mai visto degli occhi più belli dei suoi in vita mia e che avrei voluto perdermici dentro per sempre, ma restai zitto.
«Anche io ne ho uno! Come si chiama il tuo?» chiese, sorridendo e – Dio! – che sorriso meraviglioso aveva.
«Boris! Il tuo?»
«E’ una lei, si chiama Brit» mi informò, con una punta di orgoglio nella voce. «Se vuoi ti faccio vedere una sua foto» aggiunse poi.
Annuii e lui tirò il cellulare fuori dalla tasca posteriore dei jeans. Scorse le immagini per qualche secondo, fino a trovare la foto giusta e voltò lo schermò verso di me. Mi avvicinai a lui, la mia spalla avrebbe sfiorato la sua se solo mi fossi mosso, e guardai lo schermo. Nella foto, vi era un Liam felice con un sorriso enorme che stringeva fra le braccia un cucciolo bianco e con le zampe enormi.
«Ora ha sei mesi, ma qui aveva appena due settimane» mi spiegò, mentre io mi perdevo a respirare il suo profumo, come a volermelo stampare nella testa, preoccupato del fatto che probabilmente non l’avrei sentito mai più. Era dolce, forse zucchero filato?, ed era perfetto per lui.
Quando mi accorsi che mi stava fissando con le guance rosse, mi allontanai da lui ed esclamai «Allora, questo gelato?»
«Andiamo a prenderlo!»
Così ci avvicinammo al chiosco; quando fummo distanti solo pochi metri, lo vidi bloccarsi. Mi voltai per guardarlo, un’espressione interrogativa sul volto.
«Mi sono ricordato di non avere soldi» mormorò, in imbarazzo.
«Oh, non importa, offro io» lo rassicurai, regalandogli un sorriso.
«No, dai…non mi sembra il caso…» borbottò.
«Liam, niente scuse. Che gusti ti piacciono?» insistetti.
«Caffè e yogurt…però non prenderli, non li voglio!» aggiunse un attimo dopo; scoppiai a ridere.
«Avanti, è solo un gelato, non ti sto offrendo una cena in un ristorante di lusso!» lo rassicurai, prendendolo per mano e trascinandolo verso il chioschetto. Solo dopo, notando le sue guance ancora più rosse di alcuni minuti prima, mi resi conto di quello che avevo appena fatto.
“Sei un idiota, Zayn” mi dissi, schiaffeggiandomi mentalmente, mentre mollavo la sua mano, per grattarmi la nuca, e il sangue defluiva verso le mie guance.
«S-salve!» salutai –  balbettando – il gelataio; dovevo decisamente darmi una calmata.
«Ciao, ragazzi! Che vi do?»
«Due coni gelato…uno caffè e yogurt» dissi, voltandomi per sorridere a Liam. «E uno cioccolato e nutella!»
Stranamente sentii Liam ridacchiare e, non appena ebbi pagato e ci fummo allontanati, «Perché ridi?!» gli chiesi, curioso.
«Nulla» disse lui, scuotendo la testa, continuando a ridere.
«E dai!» insistetti, dandogli una spintarella sulla spalla.
Quando rideva era ancora più bello.
I suoi occhi color cioccolato, come il mio gelato, si accendevano di una luce nuova e le sue labbra sembravano fatte a posta per assumere quella forma un po’ incurvata, la piccola fossetta che gli spuntava sulla guancia  sinistra lo faceva sembrare ancora più dolce. “Puoi continuare a  ridere per sempre, per favore?” mi ritrovai a pensare, arrossendo violentemente nel momento in cui mi resi conto di stare letteralmente morendo dalla voglia di baciarlo.
«Non capisco come tu possa scegliere sia il cioccolato che la nutella» mi spiegò, rassettandosi i capelli color caramello, mentre raggiungevano una panchina. «Voglio dire…hanno lo stesso sapore!» esclamò, divertito. Sgranai gli occhi.
«Ma non è vero! Sono completamente diversi!» dichiarai, convinto.
«Certo, certo» mi assecondò, ridacchiando, mentre assaggiava il suo cono e io cercavo – senza grandi risultati – di impedirmi di formulare pensieri poco casti su quelle labbra bellissime.
Distolsi lo sguardo, certo che se non l’avessi fatto l’avrei certamente baciato, e mi maledissi: insomma, era ancora un ragazzino e io avevo quasi vent’anni e non potevo sentirmi così attratto da lui, era sbagliato…no? Decisi che ci avrei pensato in un altro momento e «Scommettiamo?» proposi, sfidandolo. Lui annuì, convintissimo.
«Assaggia» ordinai, porgendogli il mio gelato. Lui mi guardò confuso.
«Devo…? P-posso?» chiese insicuro, indicando il cono.
«Certo» lo spronai, sorridendo.
Liam appoggiò le labbra prima sulla nutella e poi sulla cioccolata, dando delle piccole leccate veloci, trattenendo le palpebre chiuse per qualche secondo più del normale.
«Avevi ragione» mormorò dopo poco, riaprendo gli occhi e fissandomi con la fronte aggrottata. «Mi dispiace ammetterlo, ma non hanno lo stesso sapore» Per tutta risposta, sollevai le sopracciglia come per dirgli “te l’avevo detto”, ostentando un sorriso sghembo, finché non iniziai a ridacchiare e «C-cosa? Perché ridi?!» mi domandò il biondo, allarmato. Scossi la testa.
«Ti sei sporcato di cioccolata» lo avvertii, guardandolo divertito.
«Dove?!» esclamò, iniziando a passarsi la lingua sulle labbra. «Zayn, dai! Sono ancora sporco?!»
«Aspetta, aspetta» dissi, ancora ridendo. «Faccio io»
Così tirai un fazzolettino fuori dalla tasca della mia tuta e mi avvinai a lui, scivolando sulla panchina. Lo vidi chiudere spontaneamente gli occhi e provai l’impulso di baciarlo. Quelle labbra erano troppo invitanti per riuscire a resistere, ma no, mi dissi, non potevo rovinare tutto così, magari l’avrei infastidito, o peggio ancora si sarebbe ritratto disgustato e sarebbe andato via. No, no, non potevo permettermelo.
Perciò provai ad ignorare quel desiderio e posai delicatamente il fazzoletto sul suo naso, per pulire via la macchietta di cioccolata. Liam aprì gli occhi, che visti da così vicino erano ancora più belli, e ridacchiò mentre le sue guance tornavano ad imporporarsi per la millesima volta in così poco tempo, rendendolo ancora più carino.
 

***


Liam
Avevamo continuato a ridere e scherzare, parlando del più e del meno, della nostra vita e di cose di poca importanza, per un bel po’, valutai, mentre mi stringevo forte a lui, seduto sul sedile posteriore della sua moto nera. Stare con lui era stato semplicemente perfetto, a parte un po’ di imbarazzo iniziale, e ancora non riuscivo a spiegarmi perché un ragazzo bello e attraente come lui avesse deciso di trascorrere la serata con uno sfigato come me. Sapevo solo che presto avevo dimenticato la mia “festa” disastrosa, alla quale nessuno dei miei amici si era presentato, e persino mia sorella, pensai sospirando soddisfatto contro il tessuto della maglia scura del moro. Mi sentivo bene, per una volta in vita mia, e, seppure non capissi cosa avessi fatto di buono per meritarmelo, ne ero davvero felice.
«Ora dove devo girare?» mi domandò Zayn, interrompendo i miei pensieri, mentre eravamo fermi ad un semaforo. Mi stava riaccompagnando a casa.
«A destra» mormorai, stringendomi più forte a lui quando ripartì. Di cosa mi preoccupavo? Probabilmente – purtroppo – non l’avrei mai più rivisto, quindi avevo deciso che non importava che pensasse che io fossi gay o che fossi un po’ troppo avvinghiato a lui. Sarei rimasto così per sempre, se solo avessi potuto, nonostante la paura della moto e della velocità.
«E’ qui?» mi chiese ancora, svoltando in una stradina piena di ville.
«Sì, la mia casa è quella» spiegai, indicando un’abitazione a due piani sulla sinistra.
 
«Okay, eccoci qui» mormorò Zayn, spostandosi in avanti per permettermi di scendere dalla moto e seguendomi subito dopo. «Ti accompagno»
Percorremmo in silenzio quei pochi metri che separavano il cortile dalla porta d’ingresso e, una volta arrivati, mi fermai, non sapendo bene cosa dire.
«Allora…mmh» farfugliò il moro, mentre io mi fissavo la punta delle scarpe. «Spero che tu sia stato bene stasera. So che magari non è stato proprio il massimo, voglio dire, era il tuo sedicesimo compleanno e meritavi sicuramente qualcosa di meglio di uno stupido gelato, ma io-» iniziò a straparlare prima che lo interrompessi con uno «Zayn. Sono stato benissimo, davvero. E’ stato perfetto. Se non fosse stato per te, starei ancora piangendo» gli dissi serio, sollevando lo sguardo per incatenarlo al suo color nocciola.
Lui mi sorrise, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Oh, d’accordo…ne sono contento» ammise, sfiorandomi piano un braccio e facendomi rabbrividire nonostante il caldo e l’umidità di quella serata di fine agosto.
«Anche io» sussurrai, senza riuscire a staccare gli occhi dalle sue labbra carnose, aperte in un sorrisetto dolcissimo. Dio, quanto avrei voluto sfiorarle! Quando sollevai lo sguardo per cercare quello di Zayn, pensando ad un modo per salutarlo che non fosse troppo imbarazzante, notai che lui mi stava fissando…con quello sguardo.
Non che ne fossi certo, non mi era mai capitato, l’avevo visto fare solo nei film, ma sentii ugualmente il mio cuore fare una capriola nella cassa toracica. E Zayn non era molto d’aiuto, perché continuava a guardarmi così e ora mi stava sfiorando di nuovo lentamente il braccio e io mi sentii sul punto di impazzire, finché…finché le sue labbra non si posarono sulle mie.
Ed erano morbide e sapevano ancora di cioccolato ed erano in assoluto la cosa più dolce che avessi mai assaggiato. Il moro indugiò un attimo, restando semplicemente così, con le labbra premute contro le mie, forse attendendo un cenno di assenso. Ma io non avevo mai baciato nessuno prima! Cosa avrei dovuto fare? Così, in un impeto di coraggio e sperando che fossi la cosa giusta da fare, afferrai la sua mano e feci incastrare le nostre dita, facendolo sorridere a un soffio dalle mie labbra. Allora, più sicuro, le premette ancora una volta, soffermandosi poi sul mio labbro inferiore. Lo prese dolcemente fra le sue e lo succhiò appena; vi passò piano la lingua sopra, mentre il mio cuore eseguiva il triplo salto mortale. Quando quella iniziò ad esplorare l’interno della mia bocca, con gentilezza, giocando a rincorrere la mia, di lingua, di tanto fermandosi ad assaggiarla con calma, sentii qualcosa di strano nel petto.
Come una sensazione mai provata prima…mi sentivo giusto.
Per una volta in vita, non mi sentivo uno “sfigato, nato sbagliato”; ero solo felice.
Mi sentivo bene ed era così bello!
La mano libera di Zayn corse al mio viso, accarezzandolo dolcemente, mentre staccava le sue labbra dalle mie. Mi fissò con quei suoi occhi profondi, i nostri nasi ancora si sfioravano.
«Perdonami, era da tutta la sera che sognavo di farlo» sussurrò sulle mie labbra, facendomi rabbrividire per la seconda volta.
Sentivo le guance bollenti e mi chiedevo se da un momento all’altro avrei preso fuoco. Quel ragazzo perfetto, bellissimo e gentile, non solo non mi considerava uno sfigato, ora mi stava dicendo che aveva voluto baciarmi per tutta la sera!
Che quello fosse un sogno, lo sospettavo, ma era il sogno più bello di sempre e non volevo svegliarmi. Il moro si distaccò definitivamente da me, fatta eccezione per le nostre mani che ancora si stringevano, e guardò l’orologio che aveva al posto, con un’espressione dispiaciuta.
«Devo andare…» mormorò, strofinando il suo pollice contro il dorso della mia mano. Non volevo che se ne andasse. Cosa sarebbe successo se non l’avessi più rivisto? Io volevo rivederlo! Quasi leggendomi nel pensiero, Zayn disse «Aspetta» e slacciò le nostre dita, per cercare qualcosa nella tasca del pantalone. Qualche secondo dopo ne tirò fuori un foglietto e una matita minuscola. Appoggiò il pezzo di carta sulla propria mano e ci scribacchiò su qualcosa, poi me lo porse.
«Voglio rivederti…anche fra una settimana, un mese, un anno, posso aspettare! Ma chiamami, ti prego» sussurrò dolcemente.
Strinsi il foglietto nel mio palmo per paura di perderlo.
“Non te ne sei ancora andato e già mi manchi, non credo che potrei aspettare nemmeno una settimana prima di farlo” pensai, ma non lo dissi, troppo timido.
Mi limitai ad annuire e gli sorrisi. Il suo volto si aprì di rimando in un sorriso e mi si avvicinò. Posò dolcemente le labbra sulla mia guancia, soffermandocisi per qualche secondo. Poi si voltò e fece per tornare verso la sua moto.
«Ci vediamo LeeLee!» disse ad alta voce, rimettendosi in sella, per sovrastare il suono del motore che si accendeva.
«Ci vediamo» sussurrai, mentre lui si allontanava. Lo vedi sparire dopo pochi secondi, quando svoltò nella via adiacente. Già mi mancava, pensai, mentre restavo a fissare la strada con un sorrisetto ebete stampato sulle labbra.
Quello era stato senza dubbio il compleanno migliore che potessi desiderare e mi appuntai mentalmente di ringraziare i miei compagni di classe di non essere venuti alla festa.
Inconsciamente, mi avevano fatto il regalo più bello di sempre.

 

***




ohrisensun's corner:

Faccio pensa nello scrivere fluff, oh sì, faccio decisamente pena. Hey, aspettate! Faccio schifo anche nell'angst e alLORA PERCHE' MI OSTINO A SCRIVERE!?

Salve, gente! *sbatte le ciglia*
Sono tornata con l'ennesima one shot inutile e senza senso, fra l'altra scritta col culo e con una trama oscena, ma oh, c'è di peggio su questo sito, quindi sopportate anche me HAHAHAHAHA
No, non era divertente.
Basta, mi ricompongo. (((((lol))))

Dunque. Questa one shot ziam volevo scriverla da un po' ma per un motivo o per un altro stavo continuando a rimandare; poi è successo che la Fabia (ciao, cuore<3333) mi ha detto che il 15 aprile sarebbe stato il suo compleanno e quindi mi son detta "Perché non approfittarne?" ed è così che è nata Be the cherry to my cake.
Che non sarà il massimo, affatto!, ma giuro che nella mia testa era davvero una cosa carinissima e fluffissima, mi dispiace non essere riuscita a renderla al massimo.

Basta blaterare!
Spero che, se siete arrivati a leggere fin qui e non avete già chiuso tutto, dato fuoco al pc e scappati in Canada, almeno un poco poco poco pochino una briciola minuscola questa one shot vi sia piaciuta e se ne aveste voglia, mi farebbe davvero tanto tanto tanto tantissimo un mondo piacere se spendeste altri due minuti della vostra vita per recensirla e dirmi cosa ne pensate!
(se non lo farete vi amerò comunque, giuro<3)

Ora vado.
Per chi mi ha chiesto della long Ziam...sono ancora ferma al quinto capitolo, quindi non so quando inizierò (se inizierò, ha!) a pubblicarla, suppongo che forse succederà quest'estate, dato che con la fine della scuola avrò più tempo da dedicarle, mentre VI AVVISO (no, in realtà, vi minaccio!) che fra un paio di settimane pubblicherò una os Larry molto angst, p0rn e anche un poco poco fluff....che *tadaaaan* conterrà anche degli accenni di HarryxMichael (quello dei 5sos, quello a cui Harry ha fatto un succhiotto per intenderci *fulmini e saette*). 

E nulla, ho finito! Per ogni eventualità, >QUI< trovate tutti i miei contatti!
Ciaaaao,
Lu


ALTRI LAVORI SLASH:

Träume ich? (ziam)
Beds, books and jealousy. (ziam)
Stormy night. (ziam)
Why let your voice be tamed? (larry)
The Invincibles. (larry)
Some nights. [shellett (per chi non lo sapesse, georgexjj degli unionj)]
  
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