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Autore: IoNarrante    15/04/2013    16 recensioni
Ven, aspirante avvocato, ragazza determinata, ligia al dovere, trasferitasi a Londra con un unico obiettivo: diventare socia di uno dei più grandi studi legali della capitale.
Il sogno per cui ha lasciato la sua famiglia a Tivoli, salutato tutti i suoi amici, riducendosi a vivere in un piccolo monolocale vicino a Regent Park.
La fortuna però gira dalla parte di Ven, perché le verrà affidato un caso importante e allo stesso tempo spinoso, che la costringerà a collaborare con un avvocato brillante e terribilmente sexy ma che allo stesso tempo rispolvererà alcune sue vecchie conoscenze.
Non è necessario aver letto Come in un Sogno
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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CAPITOLO 18

betato da quella Tonna paziente di nes_sie
 
Mi svegliai di soprassalto con la strana sensazione di essermi persa qualcosa. Avevo ancora la mente annebbiata e confusa dagli avvenimenti del giorno prima, soprattutto riguardo a quelle pratiche che ancora dovevo mettere in ordine.
Sentivo attraverso le ossa la spiacevole sensazione di aver tralasciato qualcosa di importante. Ma cosa?
Fatti una cura di fosforo!
Già, come nonna Gelsomina mi raccomandava sempre.
Ripiombai con la testa sul cuscino, voltandomi e ritrovando i contorni del tiepido salotto dell’appartamento. Non ricordavo nemmeno di esserci arrivata la sera prima, l’unico flash che la mia mente ancora assonnata mi permetteva di metabolizzare era un sonoro e piacevole ceffone che avevo rifilato a Simone.
Mi crogiolai nel suono echeggiante dello schiocco sulla sua pelle e delle sue successive lamentele su quanto fosse poco adatto per una ragazza essere così violenta. La prossima volta ci avrebbe pensato bene prima di stuprarmi sulla scrivania di James.
Io non mi appellerei a quel capo d’accusa…
Arrossii violentemente e nascosi il volto tra le pieghe del divano. Dannazione al mio Cervello e al suo essere così maledettamente realistico. C’era stato forse un momento, un nano-secondo, una particella di tempo infinitesimale in cui avrei anche accettato la proposta del calciatore.
Insomma… ero pur sempre un essere umano con le sue debolezze!
Per fortuna la mia parte razionale aveva avuto il sopravvento, anche perché tra me e Simone non ci sarebbe stato più nulla. Lo avevamo chiarito in quella camera d’hotel e mi sentivo sempre più sicura di quella mia decisione.
Era stata un’avventura, una scopata e via.
Più di una…
Non essere puntiglioso!
Sbuffai e guardai l’orologio. Erano appena le sette del mattino, ma non avevo alcuna voglia di alzarmi. Era come se quella coperta costituisse una specie di bozzolo protettivo che mi isolava dal resto del mondo, dalla festa di Capodanno a casa degli Abbott, alle promesse fatte a Sofia.
«Stiamo poltrendo?»
Una voce mi sorprese e mi fece sobbalzare, poi incrociai il mio sguardo con quello di Leonardo. Aveva un’espressione proprio buffa, sembrava quasi quella di Simone appena sveglio. Riflettei che i due cugini, anche se non lo avrebbero mai ammesso, si somigliavano molto.
I capelli di Leo, per quanto corti e ricci, erano sparati in ogni direzione, mentre con una mano chiusa a pugno si stropicciava l’occhio sinistro.
«Com’è, in piedi a quest’ora?» chiesi, notevolmente stupita.
Era raro vedere un ragazzo di vent’anni e passa in piedi alle sette spaccate del mattino, fatta eccezione per la sottoscritta che voleva passare in ufficio a prendere in prestito le pratiche da riordinare in modo da poterle esaminare meglio nella tranquillità di casa propria.
Leonardo sbadigliò sonoramente, lasciandomi osservare bene le sue fauci e le tonsille. Aveva un bel colorito gengivale.
«Celeste russa come un trombone, non la sopporto.» Si sedette sul primo sgabello disponibile e posò la testa scarmigliata sul braccio. «Credo che oggi mi sparerò un litro di caffè via endovena.»
Sorrisi. In effetti, dovevo ammettere che nelle poche occasioni in cui io e la mia migliore amica avevamo condiviso la stanza, la maggior parte delle volte l’avevo passata in bianco – magari in compagnia di un bel libro.
«Non è colpa sua, lo sai…» dissi in sua difesa. «Ha il setto nasale deviato.»
Leonardo sbadigliò una seconda volta. «Se continua così, glielo raddrizzo con un pugno…» piagnucolò.
«Non fare l’esagerato!» lo redarguii e mi decisi finalmente ad alzarmi.
Lo raggiunsi e cominciai a tirare fuori gli utensili per preparare un’abbondante colazione. Di sicuro avrei messo su ben due macchinette del caffè. Sapevo alla perfezione che quella serata l’avrei passata in bianco, a scartabellare ogni appunto pur di trovare qualcosa di simile nelle passate deposizioni.
«Insomma ieri avete fatto tardi tu e Microcefalo,» mi domandò il calciatore.
Mi spuntò subito un sorrisetto. «Microcefalo non l’avevo mai sentita…» ridacchiai.
Leonardo sorrise di rimando, gonfiando il petto come il proverbiale galletto. «Devo ammettere di avere fantasia quando si tratta di offendere Simone. È uno dei miei passatempi preferiti.»
«Ti capisco benissimo.» Cominciai a preparare la moka.
Seguì un silenzio intervallato unicamente dai rumori del metallo che veniva chiuso e del fornello acceso. Non mi ero mai trovata da sola col ragazzo della mia migliore amica, personaggio famoso oltretutto, perciò ero davvero in crisi. Non sapevo né cosa dire, né cosa fare.
Alla fine, l’unico argomento in comune era quel bamboccio di Simone. Di sicuro non avevo alcuna intenzione di parlare ancora di lui.
«Credo che tu gli piaccia,» commentò d’improvviso, facendomi voltare di scatto.
«Eh?!» sbottai, incapace di aggiungere altro. «Non prendermi in giro, per piacere. A quello già ci pensa tuo cugino tutti i santi giorni.»
Sentii Leonardo ridacchiare. «Sai, Ven…» sospirò e si alzò per prendere una delle tazze che erano riposte vicino al lavello. «Conosco Simone da quando è nato e, per un certo verso, posso dire che siamo cresciuti insieme, che ci hanno influenzato le stesse cose e che – in fin dei conti – io e lui ci assomigliamo più di quanto io voglia ammettere,» confessò.
«Pensavo non lo avresti mai ammesso,» gli dissi sincera.
Leonardo sorrise sghembo. In quella frazione di secondo si notò quanto i due cugini si somigliassero, sia nei tratti giovanili del viso, sia in quella strana luce magnetica che avevano negli occhi, proprio vicino all’iride, talvolta nascosta dalle lunghe ciglia socchiuse.
«So che è difficile da dire, soprattutto per me che ho avuto contrasti con Simone da tutta una vita. È da sempre che ci facciamo la guerra, che cerchiamo di primeggiare l’uno sull’altro, ma lo facciamo da quando ne ho memoria e francamente ho anche dimenticato il perché.»
Sentii l’acqua del caffè cominciare a bollire, coprendo un poco il silenzio che a mano a mano si era creato tra me e di Celeste. Mi accorsi che c’era un abisso tra lui e Simone e quei tre o quattro anni di differenza tra i due cugini si vedevano proprio in questi momenti di confessioni.
Leonardo, per quanto avesse fatto una valanga di cazzate in tutta la sua vita, era molto più maturo e soprattutto riusciva ad ammettere i propri sbagli, anche se ancora non avevo capito dove volesse andare a parare.
«È pronto,» dissi, afferrando con la presina la moka e cominciando a dividere il caffè in due tazze.
Almeno avevo interrotto un possibile argomento pericoloso. Non era la prima volta che un membro della famiglia Sogno mi dicesse che Simone nutriva qualcosa di più che semplice attrazione fisica per me, ma ancora non volevo crederci.
Ad Aton si era incredibilmente aperto con me, lasciandomi vedere una parte del suo carattere che non sapevo nemmeno potesse esistere, però poi gli avevo raccontato del Capodanno con James e lui non aveva fatto una piega.
Aveva silenziosamente accettato di farsi da parte.
Afferrai la tazza con dita tremanti e cominciai a sorseggiare il caffè bollente, senza sapere cosa dire. Avrei dovuto dimenticare tutta quella storia e prendere la palla al balzo con l’offerta pacifica del giovane Abbott di passare la sera del 31 tutti assieme, eppure mi ritrovavo sempre a girare attorno a Simone, volente o nolente.
Mi era venuto a prendere la sera precedente e se non avessi avuto sufficiente autocontrollo, di sicuro sarei finita con il fare l’amore con lui un’altra volta.
L’ennesima, aggiungerei.
Taci.
«Buongiorno, ragazzi…» bofonchiò una Celeste assonnata e scarmigliata, mentre avanzava in cucina vestita di un enorme pigiamone con le nuvolette e i capelli perennemente in disordine.
«’Giorno, amo’» Leonardo la raggiunse e si chinò per cercare le sue labbra.
Distolsi lo sguardo quasi senza pensarci, eppure non avrebbe dovuto darmi fastidio. L’idea che la mia migliore amica fosse felice, mi avrebbe dovuta far sentire contenta a mia volta.
«Sei stato mattiniero, com’è possibile?» s’informò sospettosa. Raggiunse il lavello e preparò nuovamente la macchinetta dopo averla sciacquata accuratamente.
Leonardo scrollò le spalle. «Avevo troppi pensieri per la testa, e poi si avvicina la notte di Capodanno e, con essa, il rientro a casa. È finita la pacchia!»
Io e Celeste ridemmo all’unisono. Di certo, Leonardo era un tipo divertente e scherzoso, non antipatico e musone come il cugino.
«Simone dorme?» s’informò la mia migliore amica, guardandomi con un sorrisetto poco rassicurante.
«E che ne so, io? Per me potrebbe anche essersi gettato dalla finestra,» sentenziai e finii di fare colazione.
«No, ho pensato che visto ieri sera…» e lasciò che i puntini di sospensione completassero il suo pensiero allusivo.
Ridussi gli occhi a due fessure sottilissime, da cui scaturirono dei lampi assassini. «Ieri sera non è successo assolutamente nulla, è inutile che insistete a farmi l’interrogatorio!»
Celeste e Leonardo si cercarono. «Anche tu glielo hai chiesto?» sbottò lei.
«Ho pensato che poteva aprirsi con uno che condivideva lo stesso suo odio per Simone, scusa!» si giustificò.
La mia migliore amica puntò il famoso indice pungolatore contro il suo ragazzo. «E tu pensi che verrebbe a dire una cosa così privata a te – sconosciuto calciatore e parente di Simone – piuttosto che alla sua migliore amica dalla nascita?» sbottò.
«Chi deve dire cosa?»
D’improvviso la voce semi-assonnata di Simone ci fece gelare a tutti quanti.
Rimanemmo immobili e in silenzio per qualche minuto, voltandoci solamente quando Simone cominciò a ciabattare per il soggiorno.
Con le ciabatte a forma di ippopotamo.
Ovviamente.
Si sedette sullo sgabello accanto a Cel, lanciandole un sorriso mellifluo che nemmeno il più viscido abitante del sottosuolo sarebbe stato capace di emulare. «Giorno, cuginetta,» ridacchiò.
«Lasciala in pace, cretino,» sibilò Leonardo, monitorandolo da lontano quasi come una leonessa controllava i suoi cuccioli che giocavano troppo vicino ad uno stagno pieno di alligatori.
«Taci, babbeo.» rispose per le rime Simone, poi si guardò intorno notando l’assenza della sua colazione. «Ehi, pinguino in smoking, dove sono i miei CocoPops?» ordinò, neanche fosse stato il principe del Galles.
«Dove sono da quando li abbiamo comprati, Genio. Nella dispensa!» gli risposi, innervosita.
Avrei dovuto già essere pronta, lavata e vestita nel mio completo da lavoro, invece mi ritrovavo lì a litigare con Simone di prima mattina.
Per fortuna questa volta avevo due testimoni che mi avrebbero impedito di ucciderlo. Cioè, Celeste me lo avrebbe impedito, Leonardo sarebbe stato mio complice.
«Sì, ma perché non si trovano a galleggiare nel mio latte, all’interno della tazza a forma di Grande Puffo?» specificò, fissandomi con quegli occhi neri e imperiosi.
Di sicuro, in una vita precedente, Simone era stato un qualche imperatore oppure re medievale, talmente viziato da finire alla ghigliottina prima di emanare il suo primo proclama come sovrano.
«Ma fa sempre così?» chiese Leonardo stupito.
Scossi la testa e cercai di afferrare la scatola di cereali posta in alto. «Di solito è anche peggio,» risposi, allungandomi il più possibile.
Nel frattempo sentivo gli occhi di Simone addosso. Mi bruciavano dietro la schiena quasi come avesse dei laser al posto delle iridi.
Finalmente riuscii ad afferrare la scatola con la punta delle dita e la tirai giù, sbuffando e aggiustandomi il pigiama che si era tutto aggrovigliato. Mi voltai trovandomi Simone con un sorriso beffardo in volto.
«Ecco i tuoi stupidi cereali,» ringhiai, posandoglieli davanti agli occhi. «Ed ecco la tua stupida tazza da poppante. Il latte vallo a prendere da solo.»
«Devi prepararmi la colazione, Ven. Sennò come potresti ricambiare il fatto che ti ho ospitato in casa mia senza chiederti nulla in cambio?»
Celeste lo fissava inorridita.
«Dai Simo’, dacci un taglio,» lo ammonì Leonardo.
Loro non erano abituati a vedere il lato peggiore di Simone, mentre io ormai ci avevo fatto il callo. Poco m’importava se mi trattava da schiava, ma quella mattina avevo ben altro a cui pensare.
«Va bene,» dissi e mi diressi verso il frigorifero per prendere il cartone del latte.
Lo posai sul bancone, misi la tazza al centro della tovaglietta e afferrai la busta con i cereali che scrocchiavano al suo interno. Dopodiché feci cenno a Simone di avvicinarsi.
«Guarda come si prepara una colazione, perché è la prima ed ultima volta che lo faccio,» gli spiegai.
Simone, allora, pensando di aver vinto con facilità quella battaglia, mi sorrise sornione e si avvicinò quel tanto da sporgersi sul bancone.
«Devi prendere il latte e versarlo nel recipiente, poi aggiungerci i cereali e mescolare il tutto,» dissi, concentrandomi nel suo sguardo e tentando di distrarlo. Riuscii ad avvicinarmi quanto bastava per sfruttare il suo momentaneo intorpidimento post-sonno, così gli rovesciai mezzo cartone di latte gelido nel pigiama e lui subito scattò in piedi imprecando.
«Ma che cazz-…?» ringhiò.
Afferrai una manciata di cereali avvicinandomi.
«Sei uscita fuori di testa, porca miseria?» urlò ancora.
A quel punto gli posai una mano sul petto, lasciando cadere i cereali nel pigiama ormai completamente zuppo. «Te lo ripeto per l’ultima volta: io non sono una delle tue servette.»
E mi diressi in bagno per prepararmi.
Prima di svoltare l’angolo, udii un grido di trionfo da parte di Leonardo.
«Cugì, mi dispiace ma la tappetta ti tiene per le palle!» e continuò a sganasciarsi fino a quando fui troppo lontana per sentirlo tessere le mie lodi.
 
Riuscii ad arrivare in ufficio prima che piovesse a dirotto. Erano un po’ di giorni che la temperatura si era alzata di qualche grado e impediva alla neve di scendere ancora, rendendo le strade di Londra completamente inagibili.
«Sei venuta anche oggi?» chiese la voce di Yuki alle mie spalle.
Roteai gli occhi al cielo e mi liberai del cappotto umido delle prime gocce di pioggia. «Devo soltanto prendere dei documenti, poi levo le tende e non mi rivedrai fino al 6 Gennaio,» tagliai corto.
La giapponese mi sorrise. «Ti hanno dato parecchi giorni di ferie…» insinuò.
Mi sentii presa in giro. «Cosa vorresti dire?»
Yuki fece spallucce. «Nulla, è solo che noi tirocinanti torniamo tutti il 2 Gennaio, non so perché te debba tornare il 6. Evidentemente la tua presenza qui non è poi tanto necessaria…»
Rimasi di stucco a quella notizia. Possibile che dovevo essere sempre l’ultima a sapere le cose?
«Ci sarà una spiegazione, e ora scusami,» tagliai corto, raggiungendo l’archivio per procurarmi finalmente quei documenti da esaminare.
A metà del corridoio, però, come in un perfetto film americano di serie B, andai a sbattere contro James.
«Oh, scusa!» dissi mortificata.
Il sorriso dell’avvocato mi avvolse come una calda coperta in un giorno d’inverno. «Andiamo di fretta, eh? Indaffarata per i preparativi di domani?»
Scossi la testa. «No, è che volevo subito controllare alcune cose. Credo che mi porterò un po’ di lavoro a casa, visto che ci dovrò rimanere fino al 6 di Gennaio,» sbuffai.
James non mutò espressione.
A quel punto mi sentii in dovere di confessargli la mia paura. Alla fine, Yuki era riuscita a mettermi la pulce nell’orecchio e adesso non facevo che pensare a Mr. Abbott che si rendeva conto della mia inutilità come tirocinante.
«Cosa ti preoccupa?» mi chiese lui, afferrandomi per le spalle e conducendo entrambi nell’archivio.
«Nulla, ho saputo che sono l’unica che tornerà il 6, mentre gli altri tirocinanti riattaccano il turno il 2. Credo di non aver fatto poi una così buona impressione a tuo zio,» confessai amareggiata.
James a quel punto scoppiò a ridere.
Mi sentii profondamente offesa da quella sua reazione. «La mia vita da sfigata ti fa divertire?» gli chiesi, inarcando un sopracciglio.
«No, no, non è nulla del genere.» Ammorbidì la sua espressione con un altro di quei sorrisi splendidi. «Diciamo che sono un po’ responsabile di questa tua “vacanza prolungata”,» mormorò enigmatico.
Rimasi completamente esterrefatta da quella confessione.
«Prima prendi i documenti, poi andiamo nel mio ufficio e ti spiego tutto,» sussurrò misterioso. «Ti aspetto lì.»
Con perplessità crescente, mi adoperai per recuperare le pratiche dagli anni ’90 fino all’inizio del 2012. Ero sicura che tra uno di quei fascicoli avrei trovato qualche riscontro su una caso abbastanza simile a quello di Cloverfield contro Sogno. Ci doveva essere per forza qualcosa tra gli archivi che mi aiutasse a venirne a capo.
Tra poco ci sarebbe stato il test del DNA, e per quanto credessi alla parola di Simone, viste le nostre recenti attività, ero parecchio in dubbio sulla riuscita di quel test.
E se fosse risultato positivo? Se davvero il bambino della Cloverfield era di Simo?
Non avevo idee in merito, ma più di tutto non avevo alcuna intenzione di perdere la causa e di giocarmi il praticantato.
Infilai i documenti nella valigetta che mi ero portata da casa – e che ora pesava peggio di un macigno –, poi mi diressi verso l’ufficio di James e bussai.
Chissà quale fosse il motivo che si celava dietro il mio rientro ritardato in ufficio.
«Posso?» chiesi intimorita.
«Entra, entra!» mi fece James. Quando fui dentro il suo ufficio, rimasi allibita fissando il giovane avvocato che tentava di rimettere in ordine le penne e i fogli sparsi sul pavimento.
I suoi occhi azzurri mi bloccarono. «Scusa il disordine, ma credo che la donna delle pulizie abbia urtato la scrivania senza accorgersene. Stamattina ho trovato tutto messo a soqquadro.»
Il colore di un pomodoro maturo non si avvicinava nemmeno lontanamente al rossore che ora si era dipinto sul mio viso. Sentivo le guance in fiamme e rimanere ferma in quelle quattro mura, non faceva altro che farmi rimbombare nella testa le parole di Simo.
È una vita che sogno di farlo qui sopra.
Rabbrividii.
Possibile che ogni mio ricordo più imbarazzante doveva essere inspiegabilmente legato a quel marmocchio? Volente o nolente era la fonte inesauribile di tutti i miei problemi, partendo con il caso giudiziario che mi aveva costretta a dividere l’appartamento con lui e finendo con i nostri “incontri” al di là del rapporto puramente professionale.
«B-Bene… di cosa volevi parlarmi riguardo il mio rientro?» cercai di chiedergli, evadendo la scrivania del giovane Abbott come se fosse stata fabbricata dal diavolo in persona.
James finì di riordinare i fogli, poi mi sorrise. «È una cosa piuttosto imbarazzante, a dire la verità…» cominciò.
Oh, questo non sa davvero cosa sia l’imbarazzo. Vogliamo dirgli che sta posando le mani dove tu e il tuo cliente avete quasi trombato ieri sera?
Tu non esisti. La tua voce è frutto solo della mia immaginazione. Non devo ascoltarti.
«Dimmi pure,» sorrisi.
Ero sempre più preoccupata da cosa James trovasse “imbarazzante”. Quel termine non gli si addiceva, anche perché era un uomo per bene e non un ragazzino talentuoso e immaturo che non perdeva occasione di farsi paparazzare e ridicolizzare sui tabloid.
«Beh, diciamo che ho chiesto io a zio August di prolungare la tua vacanza,» sospirò. «Da quando hai accettato di passare il Capodanno con me, non ho resistito. Ho pensato che dovevo fare qualcosa per ricambiare, per farti capire quanto io tenga a te nonostante ci sia di mezzo questo caso che mi impedisce di trattarti come meriteresti.»
Mi stavano tremando le gambe. Non sapevo cosa aspettarmi da James perché era capace di sorprenderti con questi gesti d’affetto incondizionato, senza ricevere null’altro in cambio.
«C-Cosa stai cercando di dirmi?» soffiai.
James allora si avvicinò e mi posò entrambe le mani sulle spalle. «Ho pensato che sarebbe stato bello tornare con i tuoi amici a Roma, prenderti qualche giorno per andare a trovare la tua famiglia,» disse.
Non appena realizzai cosa aveva fatto, sentii le lacrime pungermi agli angoli degli occhi.
«Dimmi che stai scherzando…» gli feci, senza sembrare scortese.
L’idea di tornare a casa l’avevo scartata dapprincipio, proprio perché ero invischiata in questo caso che mi succhiava via tutte le energie.
«Ti ho comprato un biglietto per tornare con lo stesso volo dei tuoi amici. Non preoccuparti, anche zio August era d’accordo. Per cinque giorni posso sopravvivere anche da solo. Riposati, vai a trovare la tua famiglia e goditi questo periodo accanto ai tuoi cari,» mormorò.
Ecco, in quel preciso istante mi innamorai di nuovo di lui.
James Abbott era forse la persona più gentile e altruista che avevo mai conosciuto. Non solo c’era sempre per me, ma nonostante avessimo deciso di prenderci una pausa, almeno fino alla fine dell’udienza, lui si era sempre preoccupato per me.
«Grazie ma non posso accettare…» dissi, allontanandomi.
«Insisto,» continuò lui. «Ti serve una vacanza, Ven, lo sai anche tu. Non so se si tratta di Mr. Sogno o del caso che stai seguendo, ma ti vedo molto più distratta. Non vorrei che questo influisse sul tuo lavoro. Perciò meglio prevenire, non pensi?»
Il suo ragionamento non faceva una piega.
«S-Sì ma… come potrò mai ripagarti?» gli chiesi.
Il giovane Abbott sorrise. «Mi ripagherai quando vinceremo questa maledetta causa e finalmente potrò chiedere il trasferimento ad un altro ufficio,» disse, poi si abbassò raggiungendo il mio orecchio. «Mi ripagherai quando finalmente potremmo stare insieme alla luce del giorno.»
 
***
 
Non avrei mai creduto che il giorno di San Silvestro fosse addirittura più caotico del famoso Venerdì Nero. I supermercati erano stati presi d’assalto, quasi fosse stato previsto l’arrivo di un uragano che avrebbe reso inagibile l’isola per le successive due settimane.
«Credi che riusciremmo a comprare qualcosa per domani?» domandò scettica Celeste.
Leonardo fissava basito due vecchiette che litigavano per la stessa passata di pomodoro. «Magari ordiniamo una pizza?»
«No, ho appurato che gli inglesi saranno pure bravi a fare il the, ma la pizza lasciamola agli italiani, così come la pasta,» dissentii.
Quella volta con Simone mi era bastata. Per digerire la pasta di quella pizza mi ci erano volute due settimane e un blister di compresse analgesiche.
«E allora che si fa? Qui non è rimasto praticamente niente!» domandò la mia amica allarmata.
«Non disperate, mi sono trovata in situazioni peggiori,» dissi, con il tono che avrebbe utilizzato un sergente veterano dei Marines.
«Sì, forse al mercato ortofrutticolo di Vattelappesca, in provincia di Burinocity,» disse Simone.
Lo fulminai. «Mi ricordi il motivo per cui sei venuto? Visto che tu non vai mai, e sottolineo MAI a fare la spesa?»
Simone sbuffò e si aggiustò un ciuffo ribelle di capelli con una mano. «Mi assicuro che tu non rovesci addosso a poveri malcapitati un’intera colazione soltanto perché è il tuo periodo del mese,» rispose. «Se ti girano le ovaie, prenditela con madre natura!»
«Punto primo: non ho il ciclo; punto secondo: non starnazzare come un maledetto gallo del pollaio! È pieno di gente, vuoi attirare altra cattiva pubblicità su di te?» ringhiai.
«Altra?» chiesero all’unisono Leo e Cel.
Non mi ero affatto resa conto che loro due non sapessero ancora nulla del caso giudiziario di cui mi stavo occupando per conto di quel mammalucco di Simone.
Me lo ritrovai vicino, con lo sguardo da “l’hai fatta grossa, eheheheheh”.
Gli rifilai una gomitata nel costato giusto per prendermi una qualche specie di rivincita. «Sì, sapete com’è fatto. L’altra volta si è ritrovato a flirtare con un trans e non se n’è nemmeno reso conto,» ghignai, mentre Leonardo non faceva che ridacchiare.
«Ma non è vero!» protestò lui.
«T’oh, vedo una passata di pomodoro non ancora presa d’assalto!» urlai, distraendoli tutti da Simone che continuava a lagnarsi su quanto fosse abile nel riconoscere una donna quando ne incontrava una.
 
«Stasera cosa hai intenzione di metterti?» mi domandò Sofia, mentre giocherellava con quei riccioli biondi.
Io ero alle prese con i documenti che mi ero portata a casa. Stavo rivedendo un vecchio caso del ’98, precisamente McAvery contro Spencer in cui il test del DNA era risultato positivo nonostante il padre continuasse a portare avanti la sua innocenza.
Leggendo le deposizioni e rifacendomi al processo, alla fine si venne a scoprire che il bambino era effettivamente di Mr. Spencer, solo che dopo l’abuso di sostanze stupefacenti aveva completamente rimosso di essere andato a letto con Miss McAvery. Infatti, anche il test della macchina della verità era risultato positivo, confermando che il signor Spencer era innocente, o almeno non ricordava nulla di ciò che aveva fatto.
Simone usa droghe pesanti?
Credo che sniffi pure la colla per la carta da parati, cretino com’è.
«Mi ascolti, Ven?» continuò Sofia, vedendomi assorta nel lavoro.
Scossi la testa. «Scusami, mi ero persa in queste deposizioni,» e le sorrisi.
Gli occhi azzurri di Sofia mi squadrarono. Aveva gli occhi di un felino, e come essi, avevo sempre la sensazione che riuscissero a scavare molto più a fondo di quanto permettessi loro.
«Stai lavorando troppo, avresti bisogno di una vacanza,» disse dolcemente.
Era la seconda persona che me lo diceva nel giro di quarantotto ore.
«Beh, credo di poter rimediare,» dissi, tanto valeva vuotare il sacco. Lo avevo detto unicamente a Celeste e Leonardo. Simone ancora non ne sapeva nulla.
«Dimmi tutto!» disse eccitata.
«Nulla, James mi ha comprato un biglietto aereo per Roma. Starò dai miei fino al 6 di Gennaio, quando tornerò a lavoro,» sospirai.
Gli occhi di Sofia s’illuminarono. «Ma è fantastico! Ti farebbe bene staccare un po’ la spina da tutto questo.»
«Già,» asserii.
Strinsi con forza le dita attorno a quei documenti. Di sicuro avrei fatto delle copie per portarmeli dietro fino a Tivoli. Non avevo alcuna intenzione di staccare completamente dal lavoro.
«E Simone cosa ha detto?» mi chiese lei, d’improvviso.
Mi morsi a sangue il labbro inferiore. Avrei dovuto aspettarmelo, anche perché Sofia era sua sorella – tanto per cambiare. Mi ritrovavo circondata dalla famiglia Sogno, e non potevo fare altro che mentire.
«Non lo sa,» affermai sicura, senza che la voce mi tremasse.
«Capisco,» soffiò Sofia, torturandosi le mani in grembo. «In fondo non sei tenuta a dirgli niente, visto che non c’è nulla tra di voi…»
Non sapevo se quello fosse un patetico tentativo di farmi ammettere che, dopo tutto, qualcosa c’era stato – e forse anche di più –, oppure fosse davvero sincera.
Sofia era un enigma ed io mi sentivo sempre più strana a parlare con lei. Alle volte la sua sincerità sembrava finta, quasi fittizia e volta unicamente ad ottenere qualcosa di molto più radicato. Avevo quasi la sensazione di essere solamente un burattino nelle sue abile mani.
Una Mangiafuoco dai capelli biondi e gli occhi chiarissimi.
«Diciamo che non è esatto,» ammisi, con riluttanza.
Gli occhi di Sofia s’illuminarono. «Vuoi dire che...?»
Alzai le mani per tranquillizzarla. Per fortuna Simone era uscito con Leonardo e Celeste si stava facendo una doccia in previsione della serata.
«Calma i bollenti spiriti. Questa cosa è morta prima ancora di cominciare e non ho intenzione di parlarne. Inoltre, credo che questa vacanza mi farà bene anche per staccare da… sì, ehm… per allontanarmi da lui,» ammisi.
Sofia annuì e si fece più vicina. «Tranquilla, non lo difendo. So com’è fatto mio fratello e so che può raggiungere dei livelli di idiozia incredibili. Non ti chiedo di spiegarmi tutto, lo farai quando sarai pronta e se lo vorrai. Solo che…» e s’interruppe.
«Solo che?» la incalzai.
Sbuffò e si spostò i capelli biondi dalla fronte. «Niente, fai finta che non abbia detto nulla.» E sorrise.
Cercai di non crucciarmi sulla strana reazione avuta da Sofia. Per fortuna, qualche minuto dopo i ragazzi rientrarono, accompagnati da Ruben. Subito la biondina gli gettò le braccia al collo, cercando le sue labbra sotto lo sguardo schifato di Simone.
Mi alzai e andai a tirargli platealmente un orecchio perché non si meritava di giudicare le persone con cui sua sorella desiderasse stare.
«Ahi, ahi, ahi!» si lamentò.
«Te lo meriti, antipatico!»
Il pomeriggio trascorse organizzando cosa avremmo dovuto preparare per pranzo il giorno dopo con quelle quattro cose contate che eravamo riusciti a saccheggiare al supermarket. Alla fine fummo costretti a telefonare a casa di Rose, dove si era trasferita nonna Annunziata, e invocare il suo sommo aiuto culinario.
Una volta terminato, noi ragazze ci chiudemmo nella mia stanza, barra quella di Cel e Leo, per svuotare i nostri armadi metaforici e cercare qualcosa di decente da indossare per Capodanno. Sofia optò per un bel vestito color verde acqua, di chiffon, abbastanza corto da lasciarle scoperta la caviglia e quel meraviglioso sandalo che aveva trovato scontato su e-bay.
«Mi sono innamorata di queste scarpe!» trillò estasiata.
L’oro del sandalo riprendeva meravigliosamente il colore dei suoi capelli, così da renderla quasi una sacerdotessa del passato.
«Sono stupende, davvero. Ti sta tutto benissimo,» le disse Cel sorridendo.
«Anche tu sei stupenda,» rispose la piccola Sogno.
In effetti, persino la mia migliore amica era lungi da come la ricordavo. Aveva finalmente dismesso i jeans sdruciti da studentessa universitaria e aveva optato per un paio di pantaloni neri a vita alta, con la gamba larga, quasi a palazzo.
Le stavano divinamente con la camicia di pizzo, da cui uscivano dei merletti.
Entrambe parevano delle modelle ed io mi sentii particolarmente fuori luogo. Ci sarebbe mancata solo la fidanzata puzza-sotto-al-naso di quel cretino di Robbeo per completare il quadretto di Ven la sfigata.
Quella sera a Cambridge non eri male…
Caso fortuito.
«Ora dobbiamo occuparci di te,» ridacchiò Sofia.
Alzai le mani in segno di resa. «La mia idea era quella di riciclare il vestito della sera a Cambridge, visto che non posso permettermene altri,» ridacchiai.
Sofia sorrise. No, non sorrise, ghignò. «E a cosa ti servo io? Per fortuna ho dei negozi che mi mandano sempre dei “campioni” gratuiti affinché li indossi a qualche festa famosa, al fine di pubblicizzarli,» spiegò, andando verso uno degli armadi di quella stanza che non avevo mai aperto. «Li lascio qui da Simo perché altrimenti io e Ruben non avremmo tanto spazio.»
Aprì quella specie di tempio dell’alta moda e rimasi completamente intorpidita.
«Devi solamente scegliere,» disse sorridente.
«I-Io…» soffiai, allungando le dita verso della stoffa rossa che aveva particolarmente attirato la mia attenzione.
Celeste si avvicinò e mi posò le mani sulle spalle. «È l’ultima notte dell’anno. Per una volta potresti lasciarti andare.»
 
Lasciarmi andare.
Quelle due parole erano di troppo per me. Ci pensai per il resto del pomeriggio, mentre mi ero provata decine di vestiti e di scarpe, senza mai smettere di credere che la mia occasione l’avevo già avuta.
Mi ero già lasciata andare. Fin troppo.
Prima con James, nonostante il rapporto inter-ufficio fosse proibito, poi con Simone, il che era ancora più grave perché era mio cliente. Entrai in bagno solo per sciacquarmi il viso. C’erano ancora troppi interrogativi cui avrei dovuto rispondere.
James mi aveva appena mandato un text:
sto arrivando. ti aspetto al portone.
L’idea di passare la prima parte di Capodanno nella grande villa degli Abbott non aveva allettato nessuno, soprattutto Sofia che aveva creduto sino in ultimo di avermi tutta per sé.
Purtroppo, o per fortuna, non aveva detto nulla riguardo alla mia imminente partenza per Roma.
Nemmeno Ruben sembrava sapesse.
Avevo passato quasi tutta la notte in bianco a chiedermi se fosse giusto farlo sapere a Simone oppure comunicarglielo il giorno stesso. Cosa doveva importargli in fondo? Non sarei nemmeno partica con James, lui mi aveva comprato solo un biglietto e non mi avrebbe accompagnata.
Era stato altruista. Un gesto che sicuramente uno come Simone non avrebbe compreso.
Il suono del citofono mi riscosse dai miei pensieri.
«Veeeen! James ti aspetta di sotto con la macchina.»
Finii di truccarmi, se quell’affare che avevo sul viso si poteva definire “trucco”, poi uscii dalla porta del bagno, trovandomi davanti Simone.
Rimasi totalmente pietrificata, con tanto di pochette in mano.
«Devo andare,» tagliai corto.
Lo sguardo di Simone mi sondò da capo a piedi. «Non sentirai freddo vestita così?» sibilò.
Dalla piega che aveva preso il suo tono di voce, credetti fosse infastidito. Mi osservai. «Staremo al chiuso, grazie per esserti interessato alla mia salute.»
Lui ghignò. «L’ho fatto solo perché voglio evitare che mi smoccioli per tutta casa.»
Lo fissai come a volerlo incenerire. Possibile che dovesse farmi incazzare pure la sera di Capodanno? Sarebbe passato un giorno senza che riuscissimo ad evitare di litigare?
«Non preoccuparti, non ci sarà questo problema. Si dia il caso che domani pomeriggio parto insieme a Leo e Cel, vado a trovare i miei per qualche giorno. James mi ha fatto un regalo davvero gradito.»
Forse quello non era stato né il luogo né il momento adatto per confessargli tutto quanto, eppure quel suo sguardo mi aveva infastidita. Come si permetteva di giudicarmi in quel modo?
Simone arricciò le labbra quasi in un ringhio. «Divertiti pure con Mr. Scopa-nel-culo a Roma.»
Cominciai a ridere. «Ci andrò da sola! James mi ha pagato soltanto UN biglietto. Non tutti hanno secondi fini come te, testone!» e me ne andai indignata, spingendolo da una parte.
Sofia si affacciò alla porta e mi fissò esterrefatta.
«Scusami, è che non lo sopporto,» mi giustificai, indossando il cappotto e salutando tutti il più velocemente possibile.
Volevo andarmene da quella casa, da quella famiglia, da quella persona che stava infrangendo ogni mia difesa. Riusciva sempre a strappare ogni briciolo di buon senso e raziocinio che avevo, frantumava la persona che ero sempre stata e mi trasformava in qualcosa che odiavo dal più profondo del cuore.
Voglio andarmene via da qui.
Voglio andarmene via da lui.
Aprii il portone, augurando buon anno al portiere del palazzo che mi sorrise, poi vidi James e tutte le preoccupazioni volarono via.
«Sei bellissima,» mi disse, facendomi arrossire e accompagnandomi alla macchina.
Per tutto il viaggio, sino alle brughiere attorno Londra, pensai allo sguardo di Simone. Era furioso e non ci voleva un genio per capirlo. Questa volta l’avevo fatta grossa e non sapevo se fosse mai stato in grado di perdonarmi quell’affronto.
In fondo era meglio così, avevamo tagliato i ponti anche se lui continuava a farsi sotto, probabilmente solo per gioco.
Era tutto un immenso parco giochi per Simone Sogno. Io ero soltanto una di quelle fantastiche giostre su cui, almeno una volta nella vita, chiunque avrebbe voluto farsi un giro. Ma appena il Luna Park avesse inaugurato una nuova giostra, ecco che sarei subito passata in secondo piano.
Ero la novità, nient’altro.
Per uno abituato a frequentare soltanto modelle, non poi tanto sveglie, tentare un approccio con una donna con un po’ di spessore, e una laurea in legge, doveva essere stato stuzzicante per lui.
«Sei nervosa?» mi chiese James, cercando la mia mano senza timore.
La strinsi nella mia e sospirai. Come potevo dirgli che il mio nervosismo non era causato affatto dall’imminente incontro con tutto il parentato Abbott, bensì da un calciatore da strapazzo che non avrei nemmeno mai dovuto considerare.
«Un po’,» ammisi, senza sapere cosa dire.
Rimanemmo in silenzio per il resto del viaggio, mano nella mano. Ci sarebbero state troppe cose da dire, eppure non riuscivo a scollarmi quelle parole dal palato. Avrei potuto iniziare con un semplice “Grazie” per quel biglietto d’aereo e per quelle ferie concesse soltanto perché James aveva detto di amarmi. Ed io cosa avevo fatto per lui?
Lo avevo tradito con Simone e avevo messo a rischio il caso andando a letto con il nostro cliente. Ero solo una persona orribile, niente di più, niente di meno.
Arrivammo proprio quando i miei pensieri stavano lentamente logorando le pareti della mia testa, grattandone via la superficie e scavando fino a quando non mi avrebbero svuotata del tutto.
James mi tese la mano per aiutarmi ad uscire dall’auto ed io l’accettai sorridendo.
Non si accorse di quanto quel mio gesto fosse stato sforzato. Ormai ero costretta persino a sorridere pur di nascondere l’amarezza che serbavo dentro. Ero solo una doppiogiochista, una persona infima che approfittava della sua benevolenza e si aggrappava, con gli artigli degni di una chimera, con forza alle sue braccia pur di non sprofondare verso quella verità che altrimenti mi avrebbe annientata.
Mentre salivo le scalinate di una vecchia casa in stile vittoriano, rimanendo rapita dagli alti finestroni e dall’immensità di quella struttura, finalmente capii di non essere più la Venera che era arrivata lì a Londra con il primo volo, dopo aver vinto la borsa di studio per Cambridge.
No, non ero più lei. Mi ero lentamente trasformata in una di quelle donne che avevo sempre disprezzato, che anteponevano il loro guadagno a tutto e in questo caso mi riferivo alla bellezza e all’affabilità di Simone.
Dopo tutto quello che avevo studiato e visto nella mia carriera di avvocato, nonostante tutte le liti a cui avevo assistito durante le simulazioni in tribunale, a dispetto di tutto quello che mi ero ripromessa dopo la mia ultima “relazione”, se così si poteva chiamare, avevo finito per comportarmi come una qualsiasi adolescente in piena crisi ormonale.
Neanche avessi quindici anni.
«Sei pronta?» mi domandò l’avvocato, stringendomi a sé.
Il freddo pungente di quella serata mi fece rabbrividire, perciò pensai di avvicinarmi ancor più a lui e comunicargli silenziosamente che apprezzavo quel suo gesto. James pensava fossi nervosa a causa dell’incontro con la sua famiglia, e se non avessi avuto altri problemi per la testa, sicuramente sarebbe stata la principale causa di una mia nevrosi, eppure pensavo solamente allo sguardo furioso di Simone quando lo avevo lasciato a casa.
Di sicuro non si sarebbe fatto vedere al locale.
Ero più che certa che avrebbe aspettato un’ora al massimo, poi se ne sarebbe tornato a casa, probabilmente a ubriacarsi fino a quando non si fosse addormentato.
«Sono pronta,» gli comunicai.
La porta ci venne aperta dal classico maggiordomo in smoking, sulla cinquantina e di bell’aspetto, che con un sorriso bonario ci chiese se potevamo dargli i cappotti. Era evidente che quell’uomo conoscesse Jamie, perché i due si scambiarono uno sguardo di muta complicità.
«Sono felice di rivedere il signore,» disse sorridendo.
«Alfred, ne è passato di tempo dall’ultima volta che sono stato qui,» rispose tranquillamente James.
Dedussi da quella breve conversazione che l’avvocato, come Simone, non frequentasse spesso la propria famiglia. Ma che avevano tutti? Soltanto la sottoscritta non vedeva l’ora di montare sul primo aereo per tornare a Tivoli?
Ti ricordo che anche tu sei scappata da lì.
Ne ero conscia, non avevo certo bisogno che la mia coscienza me lo ricordasse. Per quanto odiassi quel paese, quel piccolo buco di mondo che mi aveva sempre tarpato le ali, impedendomi di volare alto, sentivo innegabilmente la mancanza della mia famiglia, delle persone che mi avevano cresciuta rendendomi la persona che ero oggi.
«Non ti piace molto stare qui,» dissi a James, sorridendo.
Lui mi guardò con comprensione, poi sorrise. «Diciamo che i miei genitori sono un po’ all’antica e hanno un modo di pensare che io non condivido. Zio August è diverso, e nonostante sia il fratello di mio padre, mi ha sempre trattato come un suo pari,» mormorò.
Compresi subito il suo punto di vista e lo condivisi. Non appena lasciai che Alfred prendesse il mio cappotto, rimasi piacevolmente colpita dai soffitti a volta che aveva quella villa, mentre un piccolo corridoio ci conduceva verso la sala principale dove si sarebbe svolta la festa.
James era rapito da tutt’altro.
Trovai il suo sguardo azzurro, lievemente scurito dalle iridi che si erano piacevolmente allargate quasi come quelle di un gatto immerso nell’oscurità, che mi fissavano.
«Che c’è?» chiesi imbarazzata.
L’avvocato si mordicchiò il labbro quasi inconsapevolmente. «Questo vestito ti sta divinamente,» soffiò, con un filo di voce.
Arrossii d’istinto e per un nanosecondo la mia mente mi giocò il brutto scherzo di rivivere per un attimo il ricordo di Simone ed io che uscivo dal bagno. Lo stesso identico sguardo, solo che gli occhi del calciatore erano da sempre stati due pozzi neri in cui annegare e non avevo potuto distinguere il desiderio.
«G-Grazie…» risposi, sentendomi lusingata.
Non ero abituata ai complimenti, soprattutto perché ero cresciuta insieme a quella testa di zucchina che era Robbeo. I nostri battibecchi sul mio aspetto esteriore mi avevano portata ad essere cinica e acida, e le mie aspettative avevano sempre rasentato il fondo.
Diciamo che non mi ero mai soffermata davanti allo specchio dicendo “sono carina”.
Ci era voluto James a ricordarlo.
«Dovrei conoscere la tua stilista,» sorrise, strizzandomi l’occhiolino.
«Se te lo dicessi, dopo dovrei ucciderti,» ridacchiai.
James si chinò e mi sfiorò la fronte con le labbra. Il cuore fece una capriola nel mio petto e rabbrividii. Anche se il mio corpo si protendeva sempre più verso Simone, incapace di resistere al suo fascino magnetico, James era capace di farmi rimanere senza respiro.
Un perfetto principe moderno.
Mi prese sottobraccio e insieme ci avviammo verso l’ingresso della sala addobbata con decorazioni rosso e oro. C’era un immenso lampadario di cristallo che troneggiava al centro del soffitto a cassettoni, affrescato probabilmente durante l’età della regina Vittoria.
Ai lati della sala erano disposte delle grandi tavolate con sopra ogni tipo di vettovaglia. Ad un angolo, era disposta l’orchestra che suonava musica classica dal vivo mentre gli invitati erano sparsi ogni dove e chiacchieravano senza curarsi del nostro arrivo.
Soltanto una signora molto elegante, fasciata in un lungo abito nero di pizzo, ci si avvicinò e posò una mano sull’avambraccio di James.
«Sono contenta di vederti, Jamie,» sorrise, poi spostò gli occhi azzurrissimi su di me.
Quelle erano le iridi degli Abbott.
«Mamma, ti presento Venera, una mia collega,» disse James, facendo le classiche presentazioni.
Tesi la mano allarmata. Il panico era arrivato tutto insieme, anche perché durante il viaggio ero stata rapita da ben altri pensieri.
Ero sempre stata accolta a braccia aperte dal parentato dei miei precedenti ragazzi, ma in questo caso non sapevo come comportarmi. Punto primo, James non era il mio fidanzato, anche se ci eravamo andati molto vicino; Punto secondo, quella donna apparteneva ad una classe sociale elevata ed io mi sentivo parecchio fuori luogo.
«Molto piacere, Mrs. Abbott,» mormorai, nervosa.
Lei mi sorrise e si avvicinò per salutarmi alla classica maniera italiana, ovvero con baci schioccanti sulle guance.
Anche James rimase piacevolmente sorpreso.
«Non sei inglese, vero?» mi chiese la donna benevola.
Scossi la testa. «No, vengo da Tivoli,» risposi.
Mrs. Abbott spalancò quegli zaffiri che aveva al posto degli occhi. «Dove ci sono le terme! Ma è meraviglioso!» cinguettò.
«Già,» sorrisi anche io.
Sinceramente era la prima persona che conoscesse il mio paese così bene. C’era Viterbo che aveva molta più popolarità visto che era stata da sempre la città dei Papi. Mrs. Abbott mi parve immediatamente una donna molto socievole e gentile, pensai subito che James avesse preso da lei quel suo meraviglioso carattere.
«Credo che Venera abbia sete, ci puoi scusare mamma?» tagliò corto lui.
La donna lo guardò intensamente. «Non dimenticare di salutare tuo padre,» gli ricordò.
Jamie mi strappò quasi letteralmente da quella conversazione, avvicinandosi al tavolo dove un altro cameriere ci servì due flute di champagne.
Sulle prime non riuscii a capire il perché James fosse così nervoso e riluttante a frequentare quel luogo così meraviglioso.
«Tua madre è molto simpatica,» dissi, per rompere quel silenzio che stava diventando asfissiante.
James cercò il mio sguardo e lo incatenò al suo. «Non diresti così se la conoscessi bene,» sibilò.
Feci un’espressione piuttosto perplessa, ma non riuscii ad indagare oltre perché un uomo barbuto ci si avvicinò sorridente.
«Il figliol prodigo è tornato!» ridacchiò, colpendo forte la schiena di James con delle pacche energiche.
Per poco non si strozzò con lo champagne. «P-Papà!» tossì, infatti, cercando di respirare di nuovo.
«Oh scusa, caro,» sghignazzò, rivolgendomi un sorriso genuino. «Non sei più abituato a ricevere le patte dal tuo vecchio, eh?»
«Patte?» chiesi allibita. Ero più che sicura di sapere qualsiasi termine inglese, anche perché avevo fatto un corso preparatorio con una madrelingua pur di acquisirne anche l’accento. Ma quella parola mi era sfuggita.
James intervenne. «Diciamo che il termine “patta” è di invenzione di papà, significa quando dai delle pacche sulle spalle energicamente, mozzandomi quasi il respiro,» ridacchiò.
«Eh, ma quanto siamo esagerati, Jamie!» lo ammonì bonariamente.
Rimasi sorpresa dal conoscere finalmente l’altro Abbott socio dello studio. Sinceramente me lo ero sempre immaginato come il signor August: gentile ma tutto d’un pezzo. Il papà di James, invece, sembrava quasi italiano, per quanto il suo carattere allegro e mattacchione mostrasse.
«Lei è la ragazza di cui Gugu parla tanto, vero?» chiese al figlio.
Gugu?
James annuì. «Sì, lei è la mia collega Venera, direttamente dall’Italia. Zio August dice sempre che ha un grande potenziale.»
«Piacere di conoscerla,» dissi, allungando la mano.
Gli occhi azzurri di Mr. Abbott mi sondarono, con una luce negli occhi che feci fatica a riconoscere. Sembrava che mi stesse analizzando, quasi come se fossi su un letto d’ospedale, sottoposta alla macchina dei raggi X.
«Credo proprio che prenderò in parola August e ti terrò d’occhio, signorina,» sorrise, stringendomi energicamente la mano. «Beh, divertitevi ragazzi!» e ci lasciò al nostro champagne mentre andava a salutare gli altri ospiti distribuendo “patte” energiche sulle schiene di tutti i poveri malcapitati.
James sospirò. «Mio padre è un po’ strano,» ridacchiò.
«Perché non hai conosciuto il mio…» smozzicai, quasi senza pensare.
Il livello d’imbarazzo che riusciva a farmi raggiungere Alberto, il mio caro e vecchio papà, non aveva limiti. Celeste ne sapeva qualcosa quel giorno che era entrata in bagno senza bussare. Le si era bloccata la crescita.
«Mi piacerebbe incontrare la tua famiglia,» soffiò, quasi in un sussurro.
Spostai lo sguardo verso di lui e lo trovai tremendamente sincero. Alla fine io ero stata ospite dei suoi genitori, avevo conosciuto gran parte della sua famiglia – così come quella di Simone – invece la mia vita rimaneva ben sigillata all’interno del mio cuore.
Soltanto Celeste era riuscita a connettere il resto del mondo con il mio passato.
Non che mi vergognassi della famiglia Donati, anzi. Mio padre era stato un uomo che si era fatto da solo, che aveva tirato su un’azienda tutto da solo, iniziando col seminare, arare e innaffiare fin da quando aveva quindici anni.
D’accordo, forse i miei genitori non avevano nessuna laurea, non possedevano una villa come questa e non organizzavano feste memorabili per la notte di San Silvestro, ma erano riusciti a crescermi nonostante tutte le difficoltà.
«Sicuro che non vuoi venire anche tu domani?» chiesi, quasi senza riflettere.
James rimase sorpreso da quella proposta, poi sorrise. «Ne sarei davvero onorato, ma per adesso devo pensare al nostro caro Mr. Sogno,» ridacchiò.
Avrei voluto scomparire in quel preciso istante. Non solo avevo chiesto ad uno sconosciuto, o quasi, di prendere il primo aereo con me per andare a conoscere i miei genitori dall’altra parte d’Europa, ma addirittura mi ero totalmente dimenticata che Simone non ne sapeva ancora assolutamente nulla.
«Vado un secondo alla toilette,» dissi, sentendo le gambe tremare.
«Certo, è in fondo a destra,» mi disse, indicando un piccolo corridoio.
Camminai instabilmente su quelle scarpe che non ero abituata a portare, però riuscii a raggiungere il bagno senza cadere rovinosamente per terra.
Mi chiusi la porta alle spalle e cominciai a respirare affannosamente. Avrei voluto vomitare. Sentivo chiaramente il conato crescere, la pancia ribollire e mi sentivo profondamente debole. Non sapevo da cosa fosse causato tutto quello, ma non riuscivo ad evitarlo.
Calmati Ven, sei soltanto ansiosa.
Ansia. Paura. Mi sentivo in colpa.
In colpa verso Simone.
Perché? Per quale assurdo motivo continuavo a struggermi per una persona che non aveva mostrato il minimo interesse, che alla prima richiesta di interrompere tutto, aveva accettato senza combattere. Senza nemmeno lottare.
Tutto questo quando avevo James al mio fianco, quando avevo di fronte un’opportunità irripetibile che chiunque avrebbe preso al volo. Cosa me ne facevo di un ragazzino, per giunta più piccolo di me, famoso e arrogante, con una causa per dubbia paternità che gli pendeva tra capo e collo quando potevo avere un famoso avvocato trentenne, affascinante e ricco?
Il cellulare vibrò rumorosamente nella mia borsetta.
Lo afferrai sperando si trattasse di Celeste che richiedeva immediatamente la mia presenza alla festa, in modo da poter lasciare quel bagno senza che la paura si prendesse ancora gioco di me.
Si trattava di un tweet.
@TermoSifone: @SourLawyer: Ti si è gelato il polo sud?
Rimasi a fissare allibita quel tweet. Possibile che di tutti quanti i follower che avevo al mondo (non fare la melodrammatica che hai 35 follower e 30 sono tuoi parenti), doveva capitarmi proprio Simone che rompeva, tanto per cambiare?
Mi sedetti sulla tavoletta del water e risposi. Tanto non sarei uscita di lì tanto presto.
@SourLawyer: @TermoSifone: Pensa al tuo di Polo. Ho conosciuto la famiglia di James. Gente molto educata, inglese.
Certo, su twitter, per quanto fosse comodo e tutto quanto, non si poteva sforare.
@TermoSifone: @SourLawyer: Il mio Polo sta benissimo, anzi, è da quando sei uscita dal bagno che sta aspettando di scongelarsi.
Arrossii.
Possibile che riuscisse ad essere così estremamente volgare e maniaco anche scrivendo dei semplici tweet ambigui su un social network?
Dio quanto lo odiavo.
Eppure vorresti essere lì, adesso.
@SourLaywer: @TermoSifone: Vedi di rimetterlo nel freezer, perché non ci sarà nessun scongelamento, tranne forse a causa dell’effetto serra.
Lapidaria e geniale. Dovevo ammettere che il mio sarcasmo riusciva ad essere trasmesso perfettamente anche via chat. Mi sentii molto soddisfatta di me stessa.
A quel punto non giunsero più tweet e rimasi a fissare il telefono con il cuore in gola. Non che mi importasse se Simone aveva di meglio da fare piuttosto che rimanere incollato al cellulare. Sbuffai e chiusi gli occhi.
Prima o poi sarei dovuta uscire da quel bagno, altrimenti James avrebbe pensato che mi sentivo male. In effetti, il capogiro mi era passato ma la nausea rimaneva. Non avevo toccato cibo, solo un po’ di champagne.
Possibile che fossi già andata fuori di testa?
D’improvviso il mio BlackBerry cominciò a vibrare nelle mie mani e sul display notai il nome di Leonardo che lampeggiava insistente. Da quando il ragazzo della mia migliore amica mi chiamava? D’accordo, c’eravamo scambiati i numeri nel caso servisse, ma quello mi pareva troppo.
Decisi di rispondere.
«Pronto?»
«Ce l’hai fatta, dannazione! Qua non si sente un cazzo!» ringhiò una voce ovattata dal rumore della musica tecno in sottofondo.
Ovviamente era Simone.
«Vai in bagno, tonto,» gli urlai, quasi.
«Non c’è bisogno che tu me lo dica, ci arrivavo da solo. Cretina!»
Dopo un po’ sentii la musica farsi meno forte e dedussi che il calciatore era riuscito a rinchiudersi da qualche parte in modo da poter parlare.
«Ho fregato il telefono a quel demente di mio cugino,» ridacchiò. «Il mio si era scaricato. Quei cazzo di cellulari non valgono niente.»
«L’avevo intuito quando mi è comparso il nome di Leonardo,» bofonchiai.
Seguì un attimo di silenzio in cui nessuno dei due seppe cosa dire. Per quale motivo mi aveva chiamato? Perché io gli avevo risposto? Per quale assurda ragione ce ne stavamo rinchiusi nel bagno, quando tutti gli altri si divertivano la notte di Capodanno?
Perché siete due anime separate che sperano soltanto di incontrarsi.
«Perché mi hai chiamato?»
Fui io a rompere il ghiaccio. Tanto valeva fare un tentativo.
«Mi annoiavo,» rispose lui. Sincero.
«E il fatto di annoiarti ti autorizza ad interrompere la mia serata con James?» chiesi, senza puntualizzare il fatto di essermi isolata da un bel po’.
«Se ti stessi divertendo con l’avvocatuncolo, non avresti risposto,» sentenziò.
Cazzo.
Quello stupido ragazzino era più furbo di quanto pensassi e un moto di rabbia e fastidio cominciò ad aggrovigliarmi le viscere.
«Pensavo fosse urgente,» mentii, pur di non dargli alcuna soddisfazione.
Lo sentii ridere dall’altro capo del telefono. «Sappiamo entrambi che non è vero, anzi. Se ti conosco bene ora sei in bagno, seduta sul copri-water, con i piedi doloranti e un forte mal di testa. Ovviamente non vedi l’ora di tornartene a casa,» disse, analizzando la situazione.
Odiavo quando aveva ragione. Anzi, lo odiavo e basta.
«Ti sbagli, caro,» sibilai. Mi alzai ad aprire la finestra, in modo che i suoni della notte confondessero le idee che si era fatto su di me. «Sono nell’enorme giardino della tenuta, avvolta dalle stelle che questa notte si vedono benissimo e aspetto James che è andato a prendermi da bene. Come un vero gentleman.»
«Stai mentendo.»
«Credi quello che ti pare, ti ho risposto solo perché pensavo fosse Leonardo.»
Il silenzio intervallò quella conversazione che si stava trasformando in una lite via aere. Riuscivo ad incazzarmi con lui pure tramite cellulare, era incredibile.
«Vieni qui,» disse dopo un po’, dopo che quasi credetti avesse abbandonato la conversazione.
Lo sentii respirare forte.
«Cosa?» chiesi, credendo di aver capito male.
Simone sospirò spazientito. «Ti sto chiedendo di venire qui, di raggiungermi,» ripeté.
«Tra un po’. L’ho detto a Sofia, nella seconda parte della serata vi raggiungiamo. Non ti preoccupare,» sbuffai.
Continuò ad esserci solo silenzio all’altro capo del telefono. «Io ti voglio qui. Adesso.»
Un brivido rotolò giù lungo tutta la colonna vertebrale e s’infranse nella pancia. Quella dannata voce mi avrebbe mandato al manicomio, ne ero più che certa.
La cosa più sconvolgente, poi, era il fatto che avessi davvero preso in considerazione l’idea di lasciare il party per raggiungerlo. Quasi come un pifferaio che mi aveva incantato col dolce suono della sua voce.
«Cresci, Dio santo!» sbuffai. «Non sono una delle tue sciacquette che risponde ai tuoi ordini come un cane ben addestrato. Hai capito che abbiamo chiuso? Anche tu c’eri quando l’ho detto e hai subito accettato. Cos’altro vuoi da me?»
Dovevo sottolineare il fatto che aveva rinunciato a quel “noi” malato e ingiusto troppo presto. Anche se non avrei mai aggiunto che mi aveva fatto soffrire, e tanto.
«Ho mentito.» disse infine, quasi sussurrandolo.
Il cuore mi salì fino in gola e se non avessi deglutito in quel preciso istante, ero più che sicura che avrebbe fatto capolino.
Subito si corresse. «Scusami, devo andare. Fai come ti pare. Ciao.» eMi chiuse il telefono in faccia.
Rimasi a fissare lo schermo del BlackBerry con uno sguardo assorto, quasi sperando che squillasse di nuovo. Non sapevo se la mia mente mi stesse giocando dei brutti scherzi, se quello che aveva detto Simone corrispondeva alla realtà o meno.
Avevo soltanto un forte desiderio di vederlo. Ora.
Non riuscivo a resistere. Mi faceva male il cuore ad immaginarlo chiuso in uno degli stanzini di quel locale, magari seduto sul pavimento, con le mani nei capelli a maledirsi per essere stato così debole.
Come facevo a saperlo? Perché lui era come me ed io avrei reagito allo stesso modo.
«Tutto bene lì dentro?» domandò la voce di Mrs. Abbott.
Mi riscossi dai miei pensieri e corsi alla porta. Chissà da quanto tempo ero rimasta lì dentro, probabilmente James si era preoccupato.
«Mi scusi tanto,» dissi, uscendo dal bagno.
Gli occhi della signora mi squadrarono. C’era qualcosa nascosto dentro quello sguardo, avevo una strana sensazione riguardo a quella donna, anche se mi era sembrata molto socievole a primo avviso.
«Ero preoccupata, cara. Non uscivi più di lì. Ti senti bene?» mi chiese benevola.
Annuii. «Ho avuto solo un giramento di testa,» dissi.
In parte era vero, togliendo la nausea e la conversazione terribile che avevo avuto con Simone al telefono. Ero scossa, dovevo ammetterlo.
Non sapevo se quel “Ho mentito” che aveva detto, si riferiva al fatto che mi volesse lì con lui o all’ammissione da parte sua di interrompere quella nostra specie di relazione malsana.
Perché era dannatamente ambiguo?
«Torno di là, mi scusi.» Cercai di raggiungere James.
La donna, però, mi afferrò un polso. Cercai il suo sguardo e compresi che quel sospetto che avevo avuto su di lei fosse reale.
«Senti, ho capito qual è il tuo piano e fin da subito ti avverto: stai lontana da James,» intimò.
«Come, scusi?» domandai allibita.
Mrs. Abbott si avvicinò, stringendomi il polso in una morsa. «Le conosco bene le ragazzine come te. Lascia in pace mio figlio, da lui non otterrai né una carriera né tantomeno il permesso di soggiorno. Sei soltanto un’immigrata. Tornatene da dove sei venuta e lascia in pace James!» minacciò.
Quella donna era completamente fuori di testa!
«Se non mi lascia immediatamente, la denuncio,» sibilai.
Poteva trattarsi pure della Regina Elisabetta in persona. Nessuno mi si sarebbe rivolto in questi termini, soprattutto se mi si accusava di essere solo un’opportunista.
Mrs. Abbott mi lasciò subito andare, senza mai smettere di linciarmi. «Ti avverto…»
«No, l’avverto io,» la interruppi. «Ci sono gli estremi per far scattare una denuncia, ma lascerò correre. Per sua informazione, ho la carta verde come studentessa e presto richiederò di avere la doppia cittadinanza. Non ho certo bisogno di suo figlio per rimanere in Inghilterra, signora. Né tantomeno per avanzare di carriera,» le risposi, lasciandola senza fiato.
Mi diressi verso il salone principale, cercando di rimuovere la rabbia che quella donna mi aveva fatto montare senza riuscire poi a placarla. Ma che razza di persona pensava che fossi? Ma soprattutto, quali tipi di ragazza aveva frequentato James per indurre la propria madre a comportarsi così?
Desideravo andarmene. Al più presto.
Trovai James che conversava con un altro signore, riguardo ad un vecchio caso di sfratto nelle campagne Londinesi, e attirai la sua attenzione sfiorandogli il braccio.
«Dov’eri finita?» si preoccupò.
Gli sorrisi. «Non mi sento molto bene, vorrei andare dai miei amici,» dissi sincera, senza mezzi termini.
James comprese subito che qualcosa non andava. Si scusò con il suo interlocutore e mi accompagnò a prendere i cappotti. La macchina era ancora fuori e ci sarebbe stata per tutto il resto della notte. La premura con cui l’avvocato mi posò il giaccone sulle spalle, la apprezzai molto.
Non mi chiese la fonte di quel mio strano comportamento, ma lo sentivo che si stava comportando in modo cauto. Forse aveva effettivamente immaginato che mi fosse accaduto qualcosa, che mi sentissi male, ma non aveva insistito per sapere.
Anche questo era ciò che più amavo di lui.
Ci sedemmo nell’auto e James gli comunicò il nome del locale dove il resto della famiglia Sogno ci avrebbe aspettati.
Rimanemmo in silenzio per il resto del viaggio, io che ancora stringevo nervosamente in BlackBerry tra le dita tremanti. Non sapevo se essere più scossa per il comportamento di Mrs. Abbott, oppure per ciò che mi aveva detto Simone.
James non c’entrava nulla con quella famiglia, e adesso intuivo il motivo per cui gli faceva visita di rado. Magari un giorno gli avrei parlato di quello spiacevole incontro con la madre, ma per ora non me la sentivo.
Era stato un episodio poco rilevante, almeno per la sottoscritta.
Strinsi ancora più forte le dita attorno al telefono, sentendolo scricchiolare. James se ne accorse e afferrò una delle mie mani e la cullò tra le sue.
«Mi dispiace,» disse, senza sapere veramente di cosa scusarsi.
«Non devi dire così,» sussurrai. Non sapeva il vero motivo per cui mi sentivo così frustrata. La ragione che mi aveva ridotto uno straccio.
«Sì, invece!» insistette. «L’idea di portarti qui è stata pessima. Avremmo dovuto raggiungere i tuoi amici direttamente, senza venire in questa specie di casa degli orrori
Lasciai andare il BlackBerry nella borsetta e mi voltai verso di lui. Cercai il suo viso e lo accarezzai con il palmo della mano.
«James, non devi scusarti di nulla. Mi ha fatto piacere conoscere la tua famiglia, vedere la casa in cui sei cresciuto. Davvero…» mormorai. «È solo che non sono ancora pronta, tutto questo non fa per me.»
L’avvocato mi sorrise. «Ecco perché sono innamorato di te, Spaghetti Girl.»
Quella confessione mi colpì al cuore come un mazzo di pugnalate. Avrei dovuto dirgli la reale ragione per cui me n’ero andata di corsa da quella casa, il vero motivo per il quale sentivo un bisogno quasi morboso di vedere Simone.
La verità è che rimanere separata da lui per più di un’ora mi faceva star male. Era dura ammetterlo, soprattutto dopo avergli chiesto di chiudere tutto, ma era la verità.
C’era qualcosa che mi teneva incatenata a lui, che rendeva le nostre due essenze legate in un modo indissolubile.
«Non dire così, ti prego,» lo implorai e mi scostai da lui.
Lui mi spostò un ciuffo di capelli davanti al viso. «È la verità, non posso farci nulla. Per quanto questo lavoro mi divida da te, ormai è troppo difficile offuscare i miei sentimenti, Ven,» continuò.
Doveva smetterla. Finirla di essere così tremendamente dolce e perfetto. Sarebbe stato tutto più semplice se, come in una commedia americana, si fosse rivelato lo stronzo di turno, se nella realtà dei fatti avesse frequentato altre mille donne oltre la sottoscritta.
Invece sapevo che diceva la verità, che il suo sguardo era puro.
La badass di questa storia ero solamente io, Venera Donati. L’unica che il pubblico avrebbe dovuto odiare perché prendevo in giro una persona meravigliosa come quella.
Ma con una madre adoratrice del Diavolo.
Sono d’accordo.
«Vorrei che questo caso fosse già concluso, così avrei una scusa più che valida per baciarti,» mi disse, imbarazzato.
Ed io mi sentii ancora più male. «Nessuno verrà mai a saperlo,» soffiai, quasi senza pensarci.
Mi avvicinai a lui e così fece James. I nostri volti si cercarono e si trovarono quasi subito, come se avessero stampato nella mente una mappa.
Lo baciai nel sedile posteriore di quella macchina, viaggiando a tutta velocità per raggiungere il disco-pub dove mi aspettava Simone. Schiusi le labbra e accolsi la sua lingua curiosa, il sapore di James era come un Earl-Green sorseggiato in un giorno di pioggia, davanti ad un camino scoppiettante.
Sapeva di campagne verdeggianti, di pascoli e di vite d’altri tempi. James aveva racchiusa in sé l’essenza dell’Inghilterra e assaporando quella sua bocca era come tuffarmi in un mondo che ancora non mi apparteneva.
«Scusami,» disse lui, scostandosi. «Forse dovrei smetterla di sostenere di rimanere solo colleghi, e poi saltarti addosso,» ridacchiò.
«Non è solo colpa tua,» arrossii.
Guardai d’istinto l’orologio e mi accorsi che erano già le 23.30. Mancava soltanto mezz’ora all’inizio del nuovo anno ed io temetti di passare lo scoccare della mezzanotte in quella macchina.
«Arriveremo in tempo,» mi tranquillizzò James.
Sorrisi riconoscente. Sapeva sempre quando e cosa dire per rendermi serena. Con lui non riuscivo ad arrabbiarmi, anzi. Era rarissimo che litigassimo noi due.
L’avvocato era sempre pronto a spalleggiarmi, a confortarmi e a rendere le mie giornate più rilassanti.
Tutto il contrario di Simone.
Fissai lo sguardo fuori dal finestrino, mentre l’Audi nera imboccava l’autostrada che ci avrebbe condotti di nuovo nella metropoli. Un senso d’ansia mi attanagliò lo stomaco, facendomi risorgere quel senso di nausea ma tentai di ignorarlo.
Ero nervosa, ma non sapevo il motivo.
Decisi di preoccuparmi in seguito di cosa avrei dovuto dire o fare una volta che avessi raggiunto Simone. Per adesso dovevo godermi il resto del viaggio senza vomitare alla prima occasione.
 
Arrivammo davanti all’Headen quando mancavano dieci minuti esatti alla mezzanotte.
«Scendiamo, cercare il parcheggio non è un problema,» mi disse James, facendomi cenno di uscire dalla vettura.
Scesi nel freddo di quella notte di Dicembre, anzi, quasi Gennaio ormai, e sentii i brividi scuotere il mio corpo intorpidito. Subito fui abbracciata dalle forti braccia dell’avvocato che mi condussero verso l’ingresso del locale.
Il bodyguard all’ingresso ci chiese i nostri nomi, poi controllò sulla lista.
Ci fece passare senza alcun problema non appena notò che eravamo associati al cognome “Sogno”. James si accigliò parecchio, ma non disse nulla.
Sapevo quanto fosse difficile per lui passare una nottata come quella in compagnia di uno dei suoi clienti, quando avremmo dovuto intrattenere un rapporto puramente professionale. Non era colpa mia se, però, la mia migliore amica Celeste era fidanzata con una di loro e se Sofia, mia nuova confidente, fosse la sorella del nostro assistito.
Di certo, i Sogno stavano lentamente conquistando il mondo.
«Finalmente ce l’avete fatta!» mi urlò quasi nell’orecchio Sofia, corsa ad abbracciarmi.
Era un po’ accaldata, lo dimostravano i lunghi capelli biondi scarmigliati e incollati al viso. Ruben non era in condizioni migliori.
«Abbiamo ballato fino adesso!» gridò, nel tentativo di sovrastare la musica assordante.
«Noi siamo andati via dalla festa poco fa,» le dissi all’orecchio, poi tentai di individuare la mia migliore amica in quel groviglio di corpi che si strusciavano l’uno con l’altro.
«Celeste è laggiù che balla con Leonardo, credo sia un po’ brilla,» ridacchiò Sofia.
Notai che anche lei non era in condizioni migliori, ma in fondo era la notte di Capodanno e ci si poteva lasciare andare almeno per una volta. «Venite qui al centro della pista, tra un po’ fanno il count-down.»
La seguimmo, cercando di farci spazio tra i corpi sudati di ballerini improvvisati per quella serata di festa. Con lo sguardo vagai per il locale dalle luci al neon, cercando qualcuno che ovviamente non voleva farsi trovare.
James di tanto in tanto mi osservava, senza però aggiungere nulla.
Non sapevo se avesse intuito chi stavo cercando così ossessivamente, oppure se fosse semplicemente preoccupato che potessi sentirmi male. La calca era quasi insopportabile, ma dopo qualche secondo la musica s’interruppe e lo speaker prese la parola.
«Gooooooodnight to everybody!» gridò, poi un urlo seguì quell’intro da discoteca.
«Are you ready for the count-down… for 2013 year?» urlò ancora.
Un boato si levò dalla sala. «YES!»
«I don’t hear you, guys. EVERYBODY SCREAM!»
«YEEEEEEEEES!»
Lo speaker sorrise divertito da quel giochetto, e sentii James avvolgere un braccio attorno alle mie spalle.
«And now…» cominciò, mentre si levò il rullo dei tamburi. «TEN… NINE…!» urlò ancora, imitato dal resto delle persone che affollavano il locale.
Notai Celeste poco più avanti, con lo sguardo rivolto verso di me. Mi sorrise. Era felice che fossimo tutti lì, come se il tempo non fosse passato per nulla.
Anche Sofia e Ruben sorridevano, stretti l’uno all’altra.
Eravamo tutti felici, accoppiati, uniti a coloro che ormai erano diventati una parte importante della nostra vita.
Non dire cazzate.
«EIGHT… SEVEN…!»
Sondai il locale per l’ennesima volta, senza riuscire a scorgere Simone. Come avevo sospettato, di sicuro aveva lasciato il locale per andare a sbronzarsi a casa, o magari rimorchiare qualcuna in un bar. In fondo, non ero lì con lui a controllare che non si mettesse ancor più nei guai.
Lo avevo lasciato solo per stare con James, il suo avvocato.
Mi sentii una stupida, una vera deficiente. Avrei dovuto capire dal suo tono di voce al telefono che aveva fatto il sacrificio di venire a quello stupido Capodanno soltanto perché glielo avevo chiesto, perché Sofia ci teneva.
Ed io gli avevo fatto la stupida promessa che sarei stata lì, almeno prima della mezzanotte.
E adesso, mentre aspettavo che i secondi passassero, mentre James mi stringeva ancora di più al suo petto, aspettando la mezzanotte per potermi baciare, per poter coronare quella specie di superstizione durante l’ultimo dell’anno, Simone non c’era.
«SIX… FIVE… FOUR…!»
Ed io mi sentivo completamente sola, nonostante fossi circondata da tutta quella gente. Facevo fatica a respirare lì dentro e il desiderio di tornare a casa era forte. Ma non potevo. Sarei rimasta almeno per Celeste e Sofia.
«Potrei baciarti di fronte a tutta questa gente? Tu che dici?» mi sussurrò James all’orecchio.
Arrossii, nonostante me l’aspettassi.
«D’accordo.»
Tanto di Simone non c’era traccia, per cui non avevo alcun motivo per sottrarmi a quel gesto che per un momento mi avrebbe fatto dimenticare lui. L’avvocato mi sorrise e continuò a stringermi, mentre dai maxischermi distribuiti nel locale il pubblico era rapito dall’immagine del Big Ben in attesa che scoccasse la mezzanotte per salutare il 2013 in arrivo.
«THREE… TWO… ONE…!»
E tra l’ultimo secondo, tra l’attesa di gridare al nuovo anno, tra lo sguardo di James che puntava le mie labbra, sentii una mano stringersi forte e cercare la mia. Non ebbi nemmeno il bisogno di voltarmi per capire a chi appartenesse.
Già lo sapevo.
Quel gesto fu sufficiente a farmi spostare quel tanto perché le labbra del giovane avvocato andassero a sfiorare la mia guancia, invece che infrangersi sulle mie labbra.
«HAPPY NEW YEAR!» gridarono tutti in coro, mentre strinsi ancor più la presa attorno alla mano di Simone che avevo paura sfuggisse via come un sogno.
La musica tecno ripartì ancora più assordante di prima, mentre la gente attorno a noi ricominciò a muoversi, separando me e James quasi senza volerlo.
L’avvocato cercò di raggiungermi, ma fu spinto verso un angolo del locale, così mi mimò con le labbra “ci sentiamo dopo” e venne inghiottito dal mare di gente che affollava l’Heaven.
Io fui trascinata invece dall’altra parte della struttura, ma non a causa della calca. La mano che stringeva la mia continuava a condurmi verso l’uscita, quasi come se le mie gambe si muovessero da sole sospinte da una flebile brezza.
Eppure faceva caldo in quel locale. Troppo.
D’improvviso mi trovai il muro davanti agli occhi e vi posai le mani con i palmi aperti, mentre il corpo di Simone si schiacciava contro il mio, alle mie spalle. Sentivo il suo odore dappertutto, mi soffocava.
Il suo petto caldo a contatto con la mia schiena seminuda e le sue mani che si erano strette con bramosia attorno alla mia vita. La sua presa era sinonimo di possesso ed io singhiozzai.
«Sei venuta…» mi soffiò contro l’orecchio.
Gemetti senza vergogna, tanto la musica era talmente assordante che non mi avrebbe sentito nessuno. I capelli mi si erano appiccicati al viso, così come la mia pelle… la sentivo scivolosa.
«H-Ho dovuto,» smozzicai, mentre mi voltai quel tanto da scorgere il viso di Simo attraverso i capelli talmente disordinati da coprirmi la visuale.
Simone ne approfittò per baciarmi e non ci fu nulla dell’amichevole gesto che James aveva fatto poco prima. C’era urgenza, bisogno, desiderio di rimediare a quell’assenza e a quell’odio che in quei giorni ci aveva allontanati.
Simone spinse violentemente la lingua nel mio palato, facendomi mugolare dal fastidio ma anche dal piacere. Ero ancora schiacciata contro il muro, con il volto quasi premuto su quelle fredde mattonelle ma non mi importava.
Potevo sentire tutto il suo corpo schiacciato su di me, potevo sentire il modo in cui mi desiderava.
«Non voglio nemmeno sapere cosa hai fatto con quell’avvocatucolo…» Portò le mani verso il basso e sollevò di poco il mio vestito. «Ucciderò mia sorella per averti fatto indossare una cosa del genere,» insistette, con la voce roca e frammezzata. «Lui ti ha visto con questo addosso. Ti hanno guardata e desiderata a causa di questo vestito…»
Gli scostai gentilmente le mani e mi voltai, per prendergli il viso. Tolsi i capelli sudati che gli nascondevano quegli occhi talmente scuri da sembrare quelli di un demonio. Lo accarezzai per tranquillizzarlo, per comunicargli silenziosamente che nonostante tutto ero tornata da lui.
Alla fine dovevo ammettere a me stessa di essere quel cane scodinzolante che tanto denigravo.
«Non dovevo dirti quelle cose… al telefono,» mi sussurrò all’orecchio. «Abbiamo fatto un accordo io e te,» aggiunse.
L’accordo cui si riferiva era ovviamente quella mia richiesta di interrompere quella specie di “relazione” clandestina che continuavamo a portare avanti nonostante tutto.
Cercai la sua mano e la strinsi. «Andiamo a casa,» dissi solamente, conducendolo verso l’uscita. La macchina di James ci aspettava dall’altro lato della strada e vedendomi arrivare con un altro uomo, l’autista s’indispettì.
«Si sente male, lo accompagno a casa,» mentii.
L’uomo sembrò credermi e mi sorpresi di quanto stesse diventando naturale per me dire le bugie. Certo, la mia professione spesso e volentieri mi obbligava, ma adesso stavo sfiorando l’incredibile.
Oramai mentivo a James, a Sofia, persino alla mia migliore amica Celeste con una naturalezza che mi spiazzava.
L’unico che ancora si salvava – o quasi, visto che ancora non sapeva che l’indomani sarei partita per Roma – era Simo.
L’autista ci accompagnò a casa e dopo averlo ringraziato, cominciai a rovistare nella pochette in cerca delle chiavi di casa. Entrammo nell’ascensore e non feci in tempo a sollevare lo sguardo che Simone mi fu addosso. Mi prese il mento tra pollice ed indice, inducendomi a schiudere le labbra.
Succhiò, morse, dilaniò le mie labbra come a rimarcare quanto fossimo stati lontani. Poi posò la fronte sulla mia, incatenando il mio sguardo.
«Cosa diremo agli altri?» soffiò.
«Ho mandato un SMS a Sofia,» risposi. «Credo che le ci voglia poco per fare due più due, ma sono sicura che sarà discreta,» dissi, poi cercai di nuovo le sue labbra.
L’ascensore si fermò con un ‘plin’ che sorprese entrambi e ci ritrovammo subito sul pianerottolo di casa Sogno. Mi avvicinai con le chiavi in mano mentre Simo mi seguiva come un’ombra, senza mai smetterla di fissarmi.
«Mi consumi a forza di squadrarmi in questo modo,» dissi maliziosa, aprendo il portone.
Feci per accendere la luce ma lui mi bloccò. «Devi indossarlo più spesso, mette in mostra delle doti che non sapevo avessi…» sussurrò malizioso.
Ridacchiai come una quindicenne.
«Anzi no, non lo indossare. Non voglio che Jacob ti veda ancora vestita così, non voglio abbia altri pretesti per desiderarti.»
«James, si chiama James.»
«Non m’importa.»
Fui guidata dalle sue mani attraverso il buio di quella stanza che evidentemente Simone conosceva a memoria. Ero felice che l’oscurità ci avvolgesse, non ero ancora pronta a vedere fino a quanto gli occhi di Simone sarebbero stati in grado di assuefarmi.
Non avevo nemmeno voglia di pensare a quante altre ragazze avesse riservato lo stesso trattamento, a quante scene di sesso avesse assistito quella casa. I muri impregnati dei gemiti delle ragazze che soleva portarsi a casa, gli specchi riempiti dell’immagine dei loro corpi uniti.
Ripresi a respirare.
Ero ancora in tempo per fermarmi, per recuperare quel poco di dignità che mi rimaneva.
L’odore di Simone era forte, mi annebbiava il pensiero. Ebbi l’egoistica idea che se avessi continuato a strusciarmi addosso a lui, forse un po’ di quell’odore si sarebbe trasferito anche su di me, così da renderci l’uno parte dell’altro.
Poi mi diedi della sciocca.
Sentii le mani di Simone stringersi attorno alle mie cosce e sollevarmi in un sol colpo per posarmi sopra il bancone della cucina, per rimediare alla differenza d’altezza.
«Altrimenti divento gobbo…» ridacchiò contro il mio collo, prendendo a mordicchiarlo.
«Scemo!» sorrisi.
Alla fine era riuscito a prendersi gioco di me rimanendo pur sempre gentile. La verità era che quella telefonata mi aveva sconvolta, mi aveva ridotta uno straccio e soltanto ora, dopo che il nuovo anno era arrivato ed ero stretta tra le sue braccia, potevo sentirmi bene.
Senza più un brutto pensiero ad attraversarmi la mente.
«D-Dicevi sul serio…» smozzicai, gemendo non appena sentii le sue mani sollevarmi d’impeto la gonna del vestito.
Ringrazia Sofia che ti ha costretta ad indossare un intimo decente, e non il pannolone di zia Argia.
Simone si staccò dal mio collo, per guardarmi serio, attraverso l’oscurità. I suoi occhi bruciavano forse ancora di più quando erano avvolti dal buio, il suo elemento naturale.
«Quando?» chiese, con voce strozzata dal piacere.
Nel frattempo mi sentii un po’ inutile mentre avvertivo le sue mani viaggiare bramose su tutto il corpo, così strinsi con forza le gambe attorno alla sua vita e presi ad armeggiare con la cintura dei suoi pantaloni.
Lo sentii sospirare forte.
«Al telefono… quando hai detto di aver mentito. Su cosa? Sul fatto che non mi volevi qui?» chiesi ingenuamente.
Sapevo di non avere alcun diritto di chiederglielo, non dopo aver sostenuto di chiuderla lì. Eppure sentivo lo strano bisogno di chiarire quella faccenda, almeno per non aver capito fischi per fiaschi.
Simone rimase in silenzio, con le mani immobili.
Io invece non mi fermai, anzi. Riuscii a togliergli la cintura e a sbottonare il jeans, facendo calare la zip con un rumore intenso che mi fece venire i brividi.
Lo desideravo con un’intensità mai provata prima.
«Dimmelo,» gli intimai, stringendo con forza la sua intimità ancora coperta dal sottile tessuto dei boxer.
Simone affondò il viso nell’incavo del mio collo.
Avevo come il bisogno di certezze, dovevo sapere se non mi ero immaginata tutto. Sentivo la necessità di ricevere conferme.
«Ven io…» tentò di dire, mentre la mia manco continuava a muoversi su di lui. I suoi occhi continuarono a sostenere il mio sguardo, anche se il suo labbro inferiore era intrappolato tra i denti per sopperire al piacere che dilagava lento dentro di lui.
«Devo sapere…» lo implorai, cominciando a solleticare la porzione di pelle vicino l’elastico dei boxer.
Simone gemette e inspirò forte. Strinse con forza le mani attorno alle mie cosce, spalancandole senza alcuna grazia. C’era soltanto il desiderio a fare da padrone in quella cucina, su quel bancone di marmo freddo, scaldato soltanto dall’unione dei nostri corpi accaldati.
Mentre in lontananza si udivano gli scoppi dei fuochi artificiali, io venivo rapita da quelli che il tocco esperto di Simone mi faceva scorgere dietro le palpebre chiuse e la testa reclinata all’indietro a cercare il piacere.
«Ho mentito, sì…» Strattonò con forza il mio intimo. Avevamo bisogno, entrambi, ed io mi sollevai quel poco per permettergli di togliermi l’ultimo indumento che ci separava. Simone si scosto quel tanto da sfilarlo, poi, senza alcuna vergogna, se lo infilò in tasca.
Cos’era? Una specie di premio?
«Te lo riconsegno dopo… non sia mai che quel coglione di mio cugino lo trovi sparso in giro,» soffiò contro il mio orecchio.
Fu il mio turno di abbassargli lievemente i boxer, prendendo a stimolare lentamente l’erezione che svettava fuori dai jeans semi-abbassati.
«Ven.. ah!» gemette forte ed io cercai di non arrossire.
Lo desideravo troppo. Misi a zittire persino il mio Cervello che continuava a ricordarmi che i miei amici sarebbero potuti tornare in qualsiasi momento e trovarci lì.
Strinsi ancora di più le cosce attorno alla sua vita, poi mi avvicinai strusciandomi.
I nostri sguardi si incrociarono proprio nel momento in cui la sua mano si unì alla mia, per condurre il gioco. Non mi persi nemmeno la minima mutazione del suo viso, quando da sofferente si trasformava in puro piacere intenso.
Dopodiché affondai il viso nella sua maglia soffocando un grido.
Simone attese qualche minuti che mi abituassi a quell’intrusione, poi lasciò che mi avvicinassi ancora di più a lui, spingendomi verso il bordo e allacciando le gambe attorno alla sua vita, in una muta richiesta di iniziare a spingere.
E lui spinse. Spinse forte.
«S-Simo… neAh!» gemetti, quando affondò con accuratezza in modo da mandarmi un brivido di piacere che mi spezzò in due.
«Ho mentito. Ho mentito. Ho mentito,» ripeteva lui, quasi come una filastrocca nel mio orecchio, a ritmo con quei movimenti mirati che mi spedivano sempre di più in orbita.
C’eravamo caduti ancora una volta e ormai non ero più sicura che sarebbe stata l’ultima. Lo desideravo. Per quanto ripetessi a me stessa che tutto quello fosse sbagliato, non riuscivo a resistergli.
Simone incarnava tutto ciò che mi era proibito, e appunto per quello lo desideravo.
Gli afferrai con forza i capelli, posando la fronte contro la sua e respirando affannosamente mentre i suoi movimenti intensi venivano proiettati dalle luci dei lampioni di fuori sulle pareti della cucina e del salotto. Era come se fossimo circondati da specchi ed io mi eccitai ancora di più.
Più del possibile.
Sentivo che ormai mancava pochissimo e dal modo in cui Simone si muoveva meccanicamente, senza un ritmo preciso, compresi che eravamo al limite. Eravamo durati poco entrambi, perché il desiderio ci aveva consumati.
Ma lui si fermò, si immobilizzò solo per un attimo. «Ho mentito,» sussurrò sulle mie labbra. «Non credo di poter smettere. Ci ho provato, ma ti voglio. Sei come una cazzo di droga ed io ormai sono fottuto,» poi imprecò, nascondendosi al mio sguardo.
Lo riportai verso di me, catturando la sua attenzione con un lungo bacio. «Fanculo il patto,» dissi, poi ricominciai a muovermi da sola su di lui e lo sentii sibilare forte perché non si aspettava questo tipo di disinibizione da parte mia.
Oh, ancora deve sapere di cosa sei capace.
Lo strinsi più forte e lui mi artigliò le natiche seppellendosi sempre di più dentro di me, aumentando il ritmo, conducendomi verso luoghi che nemmeno riuscivo ad immaginare.
La soglia del piacere era vicina.
Fu allora che affondai le unghie nella sua schiena, sotto la maglietta, graffiandola e raggiungendo il suo orecchio con disperato bisogno.
«Vieni con me…» gli urlai, quasi.
Simone si agitò sorpreso, così decisi di spiegarmi. Non ce la facevo più, non sapevo quanto avrei resistito ma sentivo soltanto che fosse giusto.
In un malsano e malato modo di vedere le cose, io e Simone eravamo destinati a stare insieme.
«Domani torno a casa… a Roma, fino al sei Gennaio,» sussurrai, mentre lui continuava a muoversi più lentamente dentro di me. Voleva sapere ed io ero stata codarda ad aspettare sino a quel momento prima di dirglielo.
«Devo essere sempre l’ultimo a… mh… sapere le cose…» sibilò, imponendosi di non accelerare.
Lo strinsi forte, lo avvicinai a me e lo accolsi tutto quanto. Accolsi tutto ciò che aveva da darmi.
«Vieni con me, ti prego,» lo implorai, ferendolo.
Lui gridò di dolore, di piacere. Gridò un’affermazione che non seppi se si riferiva alla mia proposta di condividere quella vacanza oppure al fatto che fosse venuto.
Che avessimo finalmente raggiunto il piacere, entrambi.
I respiri affannati riempirono le pareti di quella cucina ed entrambi ci prendemmo il nostro tempo per regolarizzare i battiti.
In seguito Simone mi sollevò dal bancone della cucina senza nessuno sforzo ed io mi aggrappai a lui come se fosse l’ultima speranza rimasta. La speranza di non precipitare verso un vuoto che mi avrebbe annientata.
Non insistetti. Non gli chiesi se sarebbe venuto con me a Roma, se mi avrebbe accompagnata in un viaggio che sentivo di dover fare da tempo.
Avevo fatto la stessa domanda a James, ma lui aveva rifiutato.
Sentii la forte voglia di piangere, perché come al solito avevo lasciato che Simone fosse solamente la ruota di scorta, fosse secondo all’avvocato che reputavo perfetto in tutto.
«D-Dove stiamo andando?» chiesi, accoccolandomi contro il suo corpo.
Simone mi accarezzò i capelli. «A scambiare i nostri sogni, soltanto per questa notte,» disse ed io non seppi mai se avesse detto o meno la verità.


Sorratemi (?) il ritardo di questa pubblicascìon ma ho avuto i miei perché (tra cui l'immancabile voglia di non fare un tubo).
Mi prendo un pochino di tempo per ringraziare quella povera (e santa) Tonna di Wife che si è dovuta betare 24 pagine di capitolo per 2 volte, perché nella prima occasione il file word si era volatilizzato dal suo piccì.
Credo che Simo gliel'abbia requisito. Cmq, che ne dite?
So che è il 15 Aprile e che Capodanno è passato da un pezzo, ma questo capitolo lo scrissi proprio a Gennaio e mi sentivo abbastanza ispirata e in tema. Dunque, come procede la storia tra questi due poracci? Gli lascerò mai un po' di pace?
La risposta è ovviamente NO.
Diciamo che questa storia, come l'avevo pensata all'inizio, già era abbastanza lunga e intricata e vi avverto che non siamo nemmeno entrati nel clou. Io che sono un tipo che si impegna poco, mi sono andata ad impelagare proprio bene! Siete fortunate/i che ho le mie Crudelie che mi spronano (col fucile) con i pon pon tutti i giorni, così da non lasciare che mi 'adagi' troppo :3

Bene, bene!
Ho pubblicato di Lunedì perché Mecoledì parto e vado a Londra a rapire Simone con i parents per cui sarò abbastanza impegnata per tutto il fine settimana! Ci volevo tornare da tanto tempo, la amo quella città!
Chissà che al mio ritorno non mi senta nuovamente ispirata per una carrellata di nuovi capitoli :3
Un bacione!
//marty
 
   
 
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