IL
LUPO
…Se
viene
la sera
Compagno
non avrai
Da
solo
farai la tua strada
Sarà
solo
allora che da te verrà il lupo
Verrà
per
portarti paura.
Se
non lo
fuggirai
Fratello
ti sarà…
(Angelo
Branduardi)
1
Gli
occhi che lo guardavano non senza fierezza
erano asciutti semplicemente perché le sue
lacrime doveva averle piante
tutte, fino all’ultima goccia. Lui era ancora in grado di
distinguere un
tessuto di qualità e una veste ben tagliate e cucita,
malgrado i pochi anni
trascorsi tra la vecchia vita e la nuova sembrassero ormai secoli, e
gli abiti
di monna Caterina degli Ubaldeschi spiegavano quanto le parole della
donna non
avrebbero voluto od osato rivelare. Per superbia,
orgoglio, vanagloria. Il taglio era
elegante ma sorpassato, le gale e gli
ornamenti avevano conosciuto giorni migliori, e la tonalità
di verde, che
doveva essere stato squillante chissà quanto tempo prima,
non si addiceva al lutto
recente e terribile che l’aveva appena colpita. Ma
evidentemente il denaro che
le sarebbero costate le gramaglie
andava
speso per necessità improcrastinabili. Piccola aristocrazia
di sangue e di
spada, non molto meno poveri dei loro bifolchi: non contavano
più nulla. Vanitas vanitatum et
omnia vanitas.
Il
Matto. Era così che lo chiamavano, dentro e fuori i
contrafforti della città
natale. Aveva gettato al vento una vita di agi per rincorrere un sogno
che
poteva portarlo dritto allo Spedale dei Pazzi, dove avrebbe finito i
suoi
giorni incatenato come una bestia, o addirittura tra le fiamme del
rogo, al
pari degli eretici in terra di Provenza. Eppure
il soffio della follia non pareva aver spento il lume
della ragione in
fondo agli occhi dell’uomo, che avevano il
colore delle foglie morte, ed erano dolci, e parlavano di speranza.
Nonostante
tutto. Iddio
è misericordioso, e la
Morte corporale è nostra sorella. La misericordia di Dio
è infinita, e Duccio
riposa in pace, nel seno di Abramo. Monna Caterina avrebbe voluto
urlare, come
quando Federigo Spadalonga, signore della città, le aveva
detto che non avrebbe
mandato gli armigeri nel bosco a stanare e a uccidere la belva. Era
stato il
figlio di Messer Pietro, il mercante di stoffe, a chiedergli di non
farlo. E
lui aveva dato ascolto allo straccione che perfino suo padre aveva
rinnegato e che la
gente chiamava il
Matto. Dentro e fuori i contrafforti della sua città natale,
in ogni contrada
dell’Umbria, fosse pure la più sperduta.
Francesco, di Pietro da Bernardone.
Che tu possa essere per sempre maledetto, frate.
Non
erano passati molti anni da quando, incontrandola, l’avrebbe
guardata con occhi
diversi. Era ancora in grado di riconoscere la bellezza di una donna, e
bella
lo era, Monna Caterina: esile e alta, il viso bianco tra i capelli neri
screziati d’argento, gli occhi scuri e inquieti, fieri e
disperati. Bella non
lo sarebbe stata più, tra non molto, consumata
da anni di vita difficile accanto all’ uomo
brutale e prepotente a cui i
suoi genitori l’avevano concessa in sposa tanto, troppo tempo
prima. Il tempo
di mettere al mondo quattro figlie femmine che Brando Ubaldeschi aveva
accolto
senza degnarsi di dissimulare tutto il suo disprezzo. Poi, a
quattordici anni
dall’ultima nata, era venuto al mondo l’erede.
Duccio Ubaldeschi. Colui che
sarebbe stato barone e cavaliere, avrebbe riscattato l’onore
del suo blasone
combattendo contro gli Infedeli in terra d’Oriente per liberare il Sepolcro
di Cristo…E che un
taglialegna aveva trovato morto nei boschi della Pietralunga, a dodici anni appena fatti.
2
Nella
verità che al nobile Federigo Spadalonga era stata raccontata di vero doveva esserci ben
poco. Quando la
tramontana spazzava i campi con le sue folate gelide, dicevano quelli
del
contado tremando per la paura, la
bestia
usciva dal bosco, e raspava le porte dei tuguri sperando, nella sua
intelligenza animale e diabolica, che qualcuno alzasse il catenaccio per entrare, strangolare e
divorare tutti
quanti, come aveva fatto con il giovane Ubaldeschi. Non era nemmeno
necessario
essere cacciatori e conoscere le bestie del bosco come le conosceva lui, per distinguere il
vero dalle fole,
anche se la paura, la superstizione e l’ignoranza spesso
ottenebrano la mente
delle persone, facendoti credere verità ciò che
verità non può essere, vagliandola
al lume della logica che è
virtù sublime
e mai sbaglia, come insegnano i saggi.
E
di certo solo gli stolti potevano provare i brividi della febbre,
mentre
ascoltava Cecco di mastro Giovanni della Pietralunga sciorinare la
storia per
l’ennesima volta. Il ragazzo giaceva ai piedi della Quercia
Vecchia in una
pozza di sangue e la bestia gli stava sopra. Era come se sapesse che
sovente
Duccio Ubaldeschi si recava da quelle parti
per esercitarsi con la sua piccola balestra e addestrare
il falcone.
Giovane com’era, godeva già fama d’abile
cacciatore, e suo padre andava fiero
di lui. Il mio cucciolo di lince, lo chiamava così. Era come
se sapesse, la
bestia, e lo aveva aspettato al varco. Dopo averlo ucciso,
l’avrebbe divorato e
sua madre non avrebbe avuto una tomba su cui piangerlo e pregare. Non
fosse
stato per lui. Gli
ho lanciato
contro la roncola e
quello è scappato a
nascondersi nel folto, gridando come un diavolo dell’inferno.
Devo averlo
preso, zoppicava il maledetto…
Favole da vecchie balie, buone
alla peggio per
spaventare un bambino capriccioso. O buone per quell’idiota
di Cecco il
legnaiolo che, facendo scappare la maledetta bestiaccia, era riuscito a
racimolare qualche scudo di rame con cui riempire la pancia alla moglie
e ai
figlioli un paio di giorni e a guadagnarsi presso i suoi consimili la fama immeritata
dell’eroe. Quante volte
l’aveva detta e ridetta, quella sua storia assurda, alla
bettola dello Zoppo,
dinanzi a quattro idioti e una caraffa di vino rancido?
In
realtà, era qualcun altro a raccontare storie da brividi veri alla bettola dello Zoppo e
questo il Signore
della città ben lo sapeva.
Era
entrato sulle sue
gambe, e ne era uscito
sorretto dai suoi scherani, ubriaco fradicio, il figliolo di ser Jacopo
Buonfante. Il vino, buono o cattivo, ti fa dire anche quello che non
vorresti,
si sa. A diciannove anni, Lupo Buonfante si portava appresso un
personale
allampanato, una faccia di gesso macchiata dalle lentiggini, una capigliatura color
paglierino e un’indole
rissosa che rendeva onore al nome impostogli dalla bonanima di suo
padre. Quel
padre che, alcuni anni prima, Brando Ubaldeschi aveva ammazzato in
duello. Non
era mai corso buon sangue, tra i Buonfante e gli Ubaldeschi, nobili
spiantati,
ricchi soltanto della
loro boria. Vanitas vanitatum et omnia
vanitas.
Il
Matto continuava a guardarlo con i suoi occhi color delle foglie morte.
Indossava un vecchio saio scolorito, stretto ai fianchi da una corda
logora,
aveva la barba incolta come un accattone e la testa rasata come un
penitente.
Era di complessione gracile e bassa statura. Giovane. Brutto, con
quella faccia
scavata, imbrattata di pelo e fuliggine. Eppure, in quella brutta
faccia
scintillavano due occhi dolci, che non avrebbero sfigurato sul volto
dipinto di
un Cristo. Il Matto. E già. Chi, se non un folle, getterebbe
al vento una vita
di agi e di ricchezza per campare come un mendicante?
Federigo
Spadalonga si accarezzò pensieroso il mento barbuto. Lupo
Buonfante. Lo avevano
sentito sproloquiare in parecchi, ubriaco fino alle ossa, la sera che
il
cadavere insanguinato del giovane Ubaldeschi era stato riportato dal
bosco al
fatiscente palazzo di famiglia. “Soffrirà, il
maledetto. Soffrirà più di
quanto abbia
sofferto io, perché
un figlio si rassegna alla morte del
padre, ma un padre a quella del figlio non si rassegnerà
mai… E poi quella
vecchia strega non
ha più l’età per
partorirgli un altro maschio e lui… Lui sarà
costretto a coprirsi di ridicolo e
di vergogna lasciando
il nome e il
titolo in eredità a qualcuno dei suoi
bastardi…” Erano
stati gli stessi suoi scherani a
trascinarlo via, spaventati dal peso che quelle parole potevano gettare
sulla
bilancia della giustizia o, più probabilmente, inorriditi
essi stessi dal suo
cinismo e dalle sue risate stridule e ubriache. E adesso era come se la sentisse
anche lui, l’eco di
quella risata capace di mettere i brividi addosso ben più
dei terrificanti e
inverosimili misfatti che i
boscaioli
attribuivano alla
Bestia della
Pietralunga.
“Non
permettete che lo uccidano, messere Federigo. Il lupo è
innocente delle colpe
che gli vengono attribuite.”
“
Probabilmente vedere la spoglia della Bestia di Pietralunga potrebbe
servire a
calmare qualche animo esagitato. La gente mormora, dopo
l’infelice sortita di
messer Buonfante alla bettola dello Zoppo, e da quella scintilla
potrebbe
scaturire un incendio. Non ho mai creduto neppure per un istante che
possa
essere stato il lupo
ad uccidere il
giovane Ubaldeschi, ma… La gente chiede la testa del mostro
e quello, colpevole
o no che sia, è solo un animale, frate Francesco. Meglio un
animale morto senza
colpa che un’interminabile catena di
vendette.”
“Con
la sua venuta e il suo sacrificio, Cristo
ha bandito
l’usanza degli
olocausti di sangue innocente, fosse d’uomo o fosse di
bestia. L’Altissimo ama
tutte le sue creature, e il lupo lo è, creatura di Dio ,
come me. E come voi.
Mi piacerebbe incontrarlo” .
Voleva
incontrarlo. Per parlargli? Eccola, la prova tangibile della sua follia. Non sono forse i pazzi a
parlare con gli
animali, con gli alberi, perfino con le cose, restando invano in attesa
di una
risposta? Qualcuno asseriva d’averlo sentito parlare della
bontà di Dio agli
uccelli del cielo e ai pesci del torrente. E adesso voleva parlare alla
Bestia
della Pietralunga, e non metteva in conto di poter essere aggredito o morso o addirittura ucciso.
Portate con voi almeno
un coltello, gli aveva detto; mi sentirei più tranquillo;
gli uomini di Dio non
possiedono armi, ma il coltello per tagliare il cibo, almeno quello,
frate
Francesco…Fatelo per me che vi voglio bene.
Lui
gli aveva sorriso, come faceva spesso. Non mangio niente che non possa
essere
spezzato con le sole mani, era stata la sua risposta.
“Quando
il Signore mi mostrò la Via, abbracciai senza timore un
povero lebbroso. Senza
timore affrontai l’ingiuria e lo scherno, quando abbandonai i
miei ricchi panni
cambiandoli con questi stracci. E senza timore affronto
le
brame e le lusinghe con cui il Nemico, giorno per giorno,
mi tenta. Come
potrei aver paura di un vecchio
lupo, se
l’Altissimo mi dà il coraggio di non temere la
malattia, la morte, il
disprezzo, il Tentatore?”
Gli
parlerete, come agli uccelli del cielo
e
ai pesci del torrente, Francesco di Messer Pietro, voi che avete
abbandonato
agi e ricchezze per abbracciare la povertà assoluta, voi
che, in ogni contrada
dell’Umbria, la gente segna a dito dicendovi matto? Al Signore della
Città sovvenne di un suo
vecchio precettore che, quando era bambino, gli raccontava le molte
storie che
conosceva. Una parlava di Salomone, il più saggio di tutti i
sovrani.
Possedeva, il grande re, un anello magico che gli consentiva di
comprendere il
linguaggio degli animali. Ma sulle
dita
scarne di
Francesco, il Matto di Dio,
non scintillavano gemme né oro.