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Autore: Meow    16/04/2013    1 recensioni
Ufficialmente, Annie era solo la ragazza mezza pazza del Distretto 4.
Ormai non ci faceva nemmeno più caso, a ciò che dicevano su di lei, ai sussurri impercettibili e alle occhiate compassionevoli. Dopotutto, quando la tua mente è affollata da urla strazianti e sguardi vuoti, ignorare le dicerie della gente è una cosa da nulla.
It takes ten times as long to put yourself back together as it does to fall apart.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Finnick Odair
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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                                                        Take this sinking boat and point it home









"Mentre siamo in volo con l'hovercraft, però, concludo che, più che pazza, Annie è instabile. Ride in momenti strani della conversazione o se ne estrania con aria assente. Quegli occhi verdi si fissano su un punto con una tale intensità che ti ritrovi a cercare di capire cosa veda nel vuoto. A volte, senza alcun motivo, si preme le mani sulle orecchie come per tenere fuori un suono che le provoca dolore. E' strana, d'accordo, ma se Finnick la ama, per me va bene così".

{Il canto della rivolta}



 
 
 

Annie non sa da quanto tempo si trova lì, ma sembra già così incredibilmente lungo da sembrare insopportabile.
E’ stesa su un pavimento lurido e sporco che probabilmente non ha mai visto una goccia di sapone durante la sua lunga esistenza e, pur tastandolo con le mani tremanti, a stento riconosce gli oggetti che le sue lunghe dita incontrano sul loro cammino. Nonostante ciò, una parte della sua mente le suggerisce che saperlo non migliorerebbe di molto la situazione.
Tutto ciò che riesce a scorgere attorno a sé, oltre alle doppie sbarre arrugginite della sua cella, è la più totale e completa oscurità.
Non è estranea al buio, Annie.

Durante gli anni che hanno seguito l'edizione degli Hunger Games alla quale lei ha partecipato, l’ha reso suo amico e confidente, suo custode e protettore, l’unico che fosse capace di farla sfuggire dalle violente e sanguinose immagini che continuavano a ripetersi a rallentatore nella sua testa.
Annie preferiva rifugiarsi nel totale oblio dei sensi e nella completa inconsapevolezza piuttosto che confrontarsi con la realtà. Perché, ogni volta che li apriva, riusciva ancora a sentire con assoluta precisione il suono della lama roteare e fendere l’aria e seguire il suo percorso con gli occhi sgranati, scontrarsi con la carne viva e reciderla totalmente, il sangue zampillare sugli alberi attorno a loro e sui suoi stessi vestiti sgualciti. Sentiva il leggero tonfo del corpo esanime e sanguinolento di Delmas che crollava a terra, la bocca spalancata in un urlo muto. E poi il definitivo, decisivo, colpo di cannone, quello che aveva segnato i suoi peggiori incubi.
Ed era in questi che rivedeva Delmas. E lui la chiamava, le urlava contro, la pregava di salvarlo, di scorgere quel dannato pugnale arrivare in tempo verso di lui e tentare di deviare il suo percorso. E lei ci provava e ci riprovava, ma non ci riusciva mai. Perché era troppo debole, troppo piccola, troppo fragile.
Allora Annie strizzava gli occhi e si premeva le mani contro le orecchie, perché udire la voce di Delmas che la incolpava della sua morte era peggiore di qualsiasi tortura.
Sapeva cosa dicevano su di lei. Ne aveva sentite di parecchie, sul suo conto. C’era chi parlava di lei con una nota di compassione nella voce, come se fossero loro i colpevoli del casino che c’era nella sua testa. Altri si limitavano ad esprimersi con qualche leggero cenno di incredulo sbigottimento, quasi come se fossero convinti che su ventiquattro tributi, lei sarebbe stata l’ultima su cui avrebbero scommesso di tornare vincitrice.
Ma ufficialmente, lei era solo la ragazza mezza pazza del Distretto 4.
Ormai non ci faceva nemmeno più caso. Dopotutto, quando la tua mente è affollata da urla strazianti e sguardi vuoti, ignorare le dicerie della gente è una cosa da nulla.
Allora si era rifugiata in se stessa e nel buio, perché per quanto dolci potessero essere le parole dei suoi familiari, queste non potevano impedire ai fantasmi di ventitré ragazzini entrarle in testa e scombussolarla, guardarla con quei loro occhi spenti ed accusatori, biasciando frasi d’accusa tra le labbra rosso sangue.

Poi, quando le braccia di sua madre e le sue parole di conforto non erano state abbastanza a lenire il suo dolore e stordimento, erano arrivate quelle di Finnick.
Colui che era stato prima suo amico d’infanzia, poi tributo e suo mentore, che era stato straordinariamente in grado di riacciuffare maldestramente i pezzi di se stessa prima che svanissero nel nulla. Era riuscito a raccogliere i cocci e tentato di assestarli al loro posto nella speranza di ridare vita alla pallida imitazione della ragazza che era stata.
Non sarebbe stata più la stessa, lo sapeva lei come lo sapeva lui, ma non sembrava importare a nessuno dei due.
E forse era stato il fatto che erano praticamente cresciuti a stretto contatto e che avevano passato così tanto tempo assieme da conoscersi più di quanto credessero, forse era stato che prima di entrare nell’arena, gli aveva letteralmente affidato la sua vita, ma quando lei gli aveva sussurrato con voce spezzata che lo amava, con le onde del mare che si riflettevano nei suoi occhi cristallini, lui le aveva creduto e l’aveva baciata.
E da allora, non c’era stato giorno in cui lui non fosse rimasto al suo fianco, tentando di scacciare via i mostri che la perseguitavano. E anche quando non c’era, impegnato a fare chissà cosa a Capitol City, lei rimaneva lì ad aspettare il suo ritorno, con le mani costantemente occupate a pulire il pesce che suo padre aveva pescato e gli occhi fissi sulla porta.  

Ma quando i Pacificatori fanno irruzione a casa sua, ammanettandola e trascinandola su un hovercraft diretto alla capitale, sa che Finnick non verrà a salvarla. E per quanto possa sperarci, sa anche che non irromperà nella cella in cui è stata rinchiusa e le sorriderà, con quella smorfia sghemba un po’ scanzonata e un po’ infantile, i folti capelli biondi e scompigliati, gli occhi di un bambino strappato dalla sua infanzia troppo presto e troppo bruscamente.
Eppure lei continua a fissare ostinatamente la serratura, aspettando che si apra improvvisamente, anche quando le urla di dolore di Peeta e Johanna sono così forti che sente il bisogno di rinchiudersi nell’oscurità ancora, di premersi le mani sulle orecchie, di strapparle se necessario, perché quei versi sono così lancinanti che non vuole neanche immaginare cosa possa provocarli.
E’ quasi diventata una routine, ormai. E’ quasi abituata a svegliarsi e sentire il suono rauco ed ansimante del respiro di Johanna dopo una notte di torture. Lo è quasi anche il pesante fruscio di manette e catene trascinate sul pavimento, mentre altri prigionieri vengono portati nelle celle per essere puniti e giustiziati senza un motivo apparente.
Il tempo sembra prolungarsi all’infinito mentre ascolta Peeta ululare di dolore. Crede di sentire il nome di Katniss, ad un certo punto, ma i suoni che sta emettendo sono così innaturali e quasi inumani che crede di esserselo immaginato.

Lei ci prova pure, ad essere forte. Prova ad ignorarle, anche se è impossibile.
Ma ci sono momenti in cui le loro urla si sovrappongono a quelle dei tributi che aveva visto morire, di Delmas, dei ragazzini di appena tredici anni strappati dalle loro famiglie e dalla loro vita, e pare impensabile sopravvivere un minuto di più.
E’ in quei momenti che spera che qualcuno spalanchi la porta della cella e la faccia fuori, per placare quella tortura.

“Uccidetemi!”, urla nella sua testa, ma nessuno risponde alla sua silenziosa richiesta.
Sa anche che non farebbero mai qualcosa di simile se li pregasse, li implorasse o si inginocchiasse di fronte a loro. Non a Capitol City. Il loro modus operandi non prevede di concedere una grazia ad una povera ragazzina considerata fuori di senno. Non è da loro elargire una morte così rapida e indolore. Solo nel momento in cui soffri e vieni privata di tutto ciò che hai e sei, allora possono ritenersi soddisfatti. E’ quello il momento in cui ti ammazzano.
Anche se non c’è più niente da uccidere, anche se sei ormai ridotta ad un guscio vuoto ed impassibile.
Perché è così che funziona, in quel luogo dove un gioco che uccide persone ogni anno è considerato un intrattenimento. Dove ci si riempie di cibo a tal punto da essere costretti a rigettarlo, mentre a qualche kilometro di distanza centinaia di persone muoiono per la fame e il freddo.
Sacrificabili, li chiamano. Sono tutti pedine del loro sporco gioco, un gioco dove è impossibile tentare di combattere, perché sono sempre loro ad avere in pugno la partita. Perché sono loro a deciderne le regole, scritte a regola per fare in modo che nessuno sia capace di ribaltare le carte in tavola e prendere in mano le redini della situazione.
A volte Annie ci pensa pure, di reagire. Di sollevarsi, liberarsi dalle catene che la tengono stretta ai ricordi e fare qualcosa degno del suo nome. Una vincitrice.
Ci riesce quasi, a volte. Ma è in quel momento che Peeta ricomincia ad urlare, Johanna a singhiozzare e Delmas a protestare nella sua testa.
E allora Annie non ha neanche la forza di alzarsi, di scuotere le sbarre, di urlare, di pregarli di lasciarli stare. Ci prova, ma non ci riesce. Rimane rannicchiata contro il muro sudicio della sua cella mentre un ragazzino che non può avere più di diciassette anni e una giovane donna muoiono un pezzo alla volta, lentamente. Non può fare niente. Troppo debole, troppo piccola, troppo fragile.
Allora Annie fa l’unica cosa che sa fare. Chiude gli occhi e si preme le mani sulle orecchie.

E aspetta.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

   
 
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