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Autore: yournirvana    17/04/2013    1 recensioni
"Guardai i suoi occhi, ciò che più bello ci fosse al mondo.
Quegli occhi non erano solo occhi, e se è vero che essi sono lo specchio dell'anima, l'anima che io vedevo era l'esempio perfetto di contemplazione.
Quegli occhi erano del color della rassegnazione con qualche richiamo di speranza."
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Guardai i suoi occhi, ciò che più bello ci fosse al mondo.
Quegli occhi non erano solo occhi, e se è vero che essi sono lo specchio dell'anima, l'anima che io vedevo era l'esempio perfetto di contemplazione.
Quegli occhi erano del color della rassegnazione con qualche richiamo di speranza.
Erano sofferenti, e rabbiosi.
Erano esausti seppur entusiasti, di cosa non so. Ma erano vivi, ardevano, bruciavano, fremevano.
E non so se tutto questo possa sembrare un eufemismo, ma io quegli occhi non li ho più dimenticati.
E ci ho vissuto, in virtù di quegli occhi.
E quando si chiusero, definitivamente, li cercai disperatamente in lungo e in largo senza mai più ritrovarli.


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"Hey Jonathan cosa ti prende?"
Alzò lo sguardo sorpreso nel sentire il suo nome; era assorto nei suoi pensieri. "Oh... no, nulla.."
"Come nulla? Sembra che ti sia morto qualcuno" sbiancò e io capii di aver fatto una battuta infelice, anche se non ne capii il motivo.
"Dai, forza su andiamo in classe che la lezione sta iniziando!" gli diedi una pacca sulla spalla e cercai di rallegrarlo per riparare, almeno, a quello che avevo fatto.
Era Maggio, faceva caldo, quel caldo che ti avverte dell'inizio dell'estate e la fine della scuola, il periodo più bello che ci sia in assoluto. Ci dirigemmo in classe, erano le otto di mattina e la campanella era appena suonata: era una scuola vecchia, una di quelle costruita chissà quanti anni prima ma mai ristrutturata, di cui le pareti erano di mille colori per gli inutili tentativi di dipingerle e di comprire le scritte,una di quelle in cui sentivi la puzza di vecchio, oltre che di fumo ogni volta che passavi davanti ai bagni.
Entrammo nella nostra classe: quarta A. Una classe non troppo grande e per questo a noi trenta alunni ci stava stretta. Io e Jonathan ci sedemmo al solito posto, ultimo banco, e io cercai di distrarlo.
"Allora stasera cosa vuoi fare?"
"Matt, sinceramente non mi va di uscire"
"Dai, Jo è venerdì! Domani non c'è scuola!"
"Non me la sento e basta"
"E che diamine dovrei fare io?"
"... se vuoi potresti venire a casa mia."
"Casa tua? Dovrei sorbirmi una cenetta in famiglia? No, grazie!"
"No, i miei genitori non ci saranno."
"Fantastico! Allora perché non organizziamo una festa?"
"No, niente festa."
Lo guardai e mi chiesi cosa potesse renderlo così noioso. "Eh va bene, verrò a casa tua"
Non sorrise, non accennò a nulla. Girò solo lo sguardo verso il professore che in quel momento cominciò a spiegare qualcosa.
Qualcosa che ovviamente non m'interessava.


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Parcheggiai di fronte una villetta, scesi dall'auto e mi diressi verso la porta, bussando. Mi apri un giovane ragazzo alto, slanciato, capelli e occhi marroni, con un'espressione dura che non ero abituato a vedere.
"Hey Jo, ricchi i tuoi, eh?"
Si scostò senza dire niente e mi fece entrare. Sentii immediatamente il distacco tra il caldo torrido esterno e il fresco grazie all'aria condizionata interno.
Il salone era grande e poco arredato, comunicava con la cucina, divisi solo da metà muro, che era altrettando grande.
Sembrava una di quelle cucine per chef.
Seguii Jonathan verso un lungo corridoio e lo ascoltai dire "Questi sono i due bagni, questa la stanza dei miei genitori, questa la stanza degli ospiti e quella di mia sorella" indicando a destra e a sinistra fino ad arrivare all'ultima stanza di cui aprì la porta e disse "E questa è la mia"
Non era troppo grande, ma particolarmente luminosa. Aveva un letto a due piazze, una scrivania e un grande armadio.
Nulla di eclatante.
"Jo, com'è possibile che ci conosciamo da quattro anni e non sono mai venuto a qui?"
"Beh, probabilmente perché siamo sempre andati in giro.."
"Uhm, sì hai ragione. Allora che si fa?"
"Non so tu che vuoi fa-"
E lì entrò lei aprendo la porta con forza. In una tuta aderente, i capelli raccolti, un corpo slanciato e un viso somigliante a quello di Jonathan, solo più bello, più femminile.
"Jonathan allora sei qui!" disse guardandolo.
"Sì..." rispose lui esasperato, poi si girò verso di me e disse "Matt questa è mia sorella Meredith "
E così lei si accorse di me, arrossendo.
E la fissai.
E lei fece lo stesso con me.
E fui catturato all'istante.
Non dicemmo una parola, non ci stringemmo la mano, ci guardammo e basta, per un lungo e apparentemente eterno momento.
Poi le sorrisi.
Lei avvampò ancora di più, inchiodandomi.
Probabilmente fu allora che tutte le mie vie di scampo furono sbarrate.


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Eravamo in un bar, era Giugno, la scuola era appena finita, e io mi ritrovavo di fronte a lei alle sette di mattina.
Perché lei amava svegliarsi presto, sentire la brezza mattutina.
Amava godersi il tempo.
E io non mi opponevo, come se il mio stato di eterno pigro fosse semplicemente mutato in mezzo secondo.
E lei parlava, con un'inspiegabile sorriso sul volto, gesticolando senza notare i miei occhi assonnati seppur attenti ad ogni sua piccola mossa.
"E così all'ultima interrogazione il professore mi ha fatto i complimenti per essere migliorata così tanto" disse fiera come se fosse una bambina.
"Secchiona" le risposi dandole un piccolo pizzico sulla guancia.
"Hey, non posso farci nulla se sono un genio"
"Un genio? Sì certo, solo perché hai avuto un bel voto alla fine non vuol dire che..." e mi accorsi che lei non mi stava per niente ascoltando, fissando qualcosa sul mio viso.
"Cosa stai facendo?" chiesi.
"Osservo i tuoi occhi. Sono cambiati, in genere sono azzurri ma ora sono grigi. Sono invidiosa, io ho solo dei comunissimi occhi marroni"
Inclinai la testa e sorrisi. "I tuoi occhi non sono comuni, resterei a guardarli per ore"
Avvampò e io allargai ancora di più il mio sorriso.


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In acqua, in una giornata afosa, con la miriade di persone intorno, chi sulla sabbia chi anche loro nel mare, la tenevo stretta a me baciandola.
Assaporandola e stringendo tra le dita i suoi bellissimi capelli castani bagnati.
E lei era delicata, così tanto che mi veniva voglia di stringerla ancora di più fra le mie braccia e proteggerla.
Le sue labbra erano morbide, io me le stavo godendo baciandole, leccandole, mordendole. Le possedevo in tutto e per tutto, e quello mi faceva sentire estremante bene.
Fu un attimo quello in cui ci distaccammo e ci guardammo negli occhi, trovandoci tutto ciò che mi mancava, tutto ciò che non possedevo.
Le accarezzai il naso con il mio e capii che c'era qualcosa che andava detta. Qualcosa che era troppo grande per essere custodita gelosamente, era come un peso dolce sullo stomaco.
Appoggiai, così, la mia fronte alla sua, chiusi gli occhi per un attimo e lo dissi tutto d'un fiato per paura di non riuscirci, di dimenticare come si facesse, di non saper più parlare.
"Ti amo" sussurai.


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Fine Luglio, pioveva stranamente.
Ero nel cinema ad aspettare.
L'appuntamente era alle otto ed erano già le otto e mezza. Il cellulare non era disponibile e al telefono di casa non rispondeva nessuno.
"Dove diavolo è?"
Il tempo passò: le nove, le dieci. Nessuna chiamata, nessun messaggio.
E così me ne andai, arrabbiato e preoccupato.


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La chiamai per l'ennesima volta.
Era una settimana che non si faceva sentire, che diavolo le prendeva?
Finalmente rispose e "Che diavolo ti prende? Perché non ti fai sentire da una settimana? Perché non sei venuta al cinema domenica scorsa? Sai quanto fossi preoccupato? Allora? Non meritavo almeno una spiegazione?"
Ci fu silenzio per un paio di secondi finché "Mi dispiace Matt, ma tra noi è finita" e attaccò.
Guardai il telefono sorpreso, poi lo scaraventai contro il muro.
Vaffanculo.


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E non me ne fregava un cazzo. Io pretendevo una spiegazione da quella ragazza.
Parcheggiai di fronte quella villetta che ormai conoscevo perfettamente, bussai e aspettai per una manciata di secondi.
Mi aprì un ragazzo che di Jonathan aveva ben poco, magrissimo, bianco, occhiaie e un espressione triste.
"Hey Jo, tutto bene?" chiesi preoccupato.
Lui scosse la testa, e mi bastò sentire una parola per capire probabilmente tutta la faccenda:
"Meredith."


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Metà Agosto. Lì era tutto bianco: mura bianche, immobili bianchi, camici bianchi.
Tutto bianco e disperazione.
Ero in sala d'attesa nell'ospedale, aspettando il mio turno per entrare a farle visita.
Dentro c'erano i genitori, lei non poteva ricevere troppe persone perché era debole.
E quelle mura mi ricordarono il giorno in cui la andai a trovare subito dopo che Jonathan mi disse quell'unica parola.
Appena mi vide si mise a piangere e l'abbracciai.
Lei gridò di andarmene, e io la strinsi ancora più.
Lei pianse, ancora e ancora, e ancora.
"Ho il cancro, ho il cancro, Matt ho il cancro, il cancro" e disse solo questo per tutto il tempo.
Il cancro.
Lei aveva il cancro.
Una parte di me aveva il cancro.


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"Abbiamo fatto il possibile." fece una pausa. " Le chemio non hanno funzionato e un'operazione è impossibile perché il cancro si è esteso troppo".
"Quanto le rimane?" disse la donna accanto a me, una versione più vecchia di Meredith.
"Se tutto va bene un mese"
Quella donna pianse abbracciata al marito.
Io guardai il dottore.
Un mese.
A lei piaceva godersi il tempo.
Un mese.
A lei piaceva la brezza mattutina.
Un mese.
A lei piaceva godersi tutto quello che aveva intorno.
Un mese.
A lei piaceva vivere.
Un mese.
Quant'è un mese?


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Le scostai la frangetta, lei ormai non ce la faceva più a muoversi troppo.
Le tenevo stretta la mano, cercando di non guardare tutti quei fili intorno a lei.
Mi indicò la radio con un cenno della testa.
L'accesi.
"E con le mani amore, con le mani ti prenderò. E senza dire parole nel mio cuore ti porterò. E non avrò paura se non sarò bella come dici tu, ma voleremo in cielo in carne ed ossa non torneremo più. E senza fame e senza sete, e senza aria e senza rete voleremo via."
Lei mi asciugò le lacrime con le dita di una mano, e con l'altra strinse ancora di più la mia.
E come sempre non c'era bisogno di parole.
Come sempre ci bastò solo guardarci.
E dopo poco lei chiuse gli occhi, stanca.
Perché non ce la faceva più a reggere quello sguardo.
Non ce la faceva più, e basta.


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E se ne andò. Era inizio Settembre e lei se ne andò.
E io non potei più rivedere il suo sguardo.
E non potei più stringerle la mano.
Non potei più abbracciarla.
Non potei più baciarla.
E il bianco divenne nero. Ma la disperazione rimaneva uguale.
Il funerale fu breve.
E lei mi mancava.
E capii che tre mesi per vivere erano troppo pochi. Io, avevo vissuto troppo poco, tre mesi non sono nulla.
Ormai tutto era solo dolore e solitudine.
Ormai non ero più nulla
.






Ciao a tutti! Spero che questa OS vi sia piaciuta. Devo dire che è la prima storia drammatica che scrivo, di solito preferisco i lieto fine...... E' ispirata alla canzone "La donna cannone di Francesco De Gregori" (
http://www.youtube.com/watch?v=m5ApBSSJbjg).
 Comunque, mi scuso per eventuali errori, in ogni caso spero in molte recinsioni, mi farebbe molto piacere conoscere la vostra opinione.
  
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