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Autore: Shinsey    17/04/2013    1 recensioni
Monologo Shinichi :)
Non so che scrivere nell'introduzione! Perdonatemi!
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Shinichi Kudo/Conan Edogawa
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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*Ansia. Curiosita'. Dubbio. 
Questi sono i tre termini che meglio definiscono il nostro futuro, quello che ci aspetta una volta svoltato l'angolo.
Sono l'unica certezza durante un'attesa, l'avvenire del cambiamento.
Che lo vogliamo o no, siamo presi da sensazioni ed emozioni che ci sottomettono e ci influenzano. Ogni giorno, ogni volta.
Quando non sai dove guardare, perché il tuo futuro lo vedi nero e buio, sai di aver passato e dato le spalle al passato, non girarti, ma affronta il presente.
Se non sai dove porre lo sguardo, se non sai cosa vedere, sofferma i tuoi occhi su te stesso, sul tuo corpo, sui tuoi pensieri, su tutto ciò che fa di te quello che sei. 
E se non capisci la realtà e quello che succede attorno a te, fermati a guardare la tua immagine. 
Rallenta il tempo, prendi una pausa per distrarti dal resto. 
Concentrati su ogni particolare dettaglio che ti rende la persona che credi di essere.
Ascolta il tuo ritmo e ballalo, comprendilo.
Afferra al volo ogni più lieve respiro e assaporalo, cogli ogni più impercettibile brivido che ti sfiora la pelle. 
Tocca ogni tua piccola imperfezione e trasformala nell'emblema dell'assoluta perfezione.
Immagina, puoi. 
E questa non e' la pubblicità di Fastweb o che so io, e' la verità'.
Cerca di comprendere ogni tuo pensiero, anche il sogno più nascosto e remoto, decifra ogni emozione e sensazione, scopri ogni ricordo.
Troverai sempre una lacrima, sia essa di gioia, dolore, paura, sfogo.
Ma qualunque scopo avesse avuto o abbia tuttora, analizzala.
Nessuna emozione e' scontata, perché vedi, dietro quella lacrima, c'e' sempre la felicità.
E quella lacrima non e' che una delle tante sfumature della vita.

Ma io, io non mi ricordavo quale fosse l’ultima volta che avevo pianto, versato lacrime per qualcosa o per qualcuno. 
Se la gente mi avesse domandato chi l’avesse fatto per me almeno una volta, avrei saputo rispondere, e l’avrei fatto senza pensarci. 
Ma per quanto mi sforzassi di riflettere e di tormentare la mia coscienza, non trovavo alcunché che soddisfacesse la sensazione di imperfezione e manchevolezza che pesava sul mio corpo, un aspetto ormai deformato, da bambino. 
Dentro di me covavo solo rabbia, disperazione che riuscivo a sfogare certe volte semplicemente dando la caccia alla verità, soluzioni di casi che all’ inizio avrei detto mi avrebbe avvicinato alla mia vera natura, a quel ritornare me stesso che tanto mi sembrava sempre più lontano.
Mi ero ripromesso di non dire nulla a Ran: lei non poteva sapere, non DOVEVA sapere!
Tuttavia questa si era rivelata un’impresa difficile da compiere, e mantenere un segreto più grande di me, dalle dimensione notevolmente ampie rispetto al mio esile corpicino, non era affatto alla mia portata, e ne ero a conoscenza.

Cosa fare? Come agire? 
Quando? 
Cosa e' meglio? Cosa e' peggio?
In realtà non sapevo nemmeno il ben che minimo perché di tutto questo.
Se mi avessero detto che la strada da seguire fosse una sola e soltanto quella, allora l'avrei intrapresa, forse avrei sentito venir meno il mio concetto di libertà, ma avrei risposto, mi sarei incamminato verso quello che era il nostro destino comune.
Se, sempre e solo se.
Due lettere che, analizzate una per una non significano niente, se non strani versi privi di alcunché. 
S + E non corrispondono a due lettere o ad una parola, nonostante vengano spesso e volentieri fuse insieme.
La matematica insegna, o meglio, inculca nelle nostre teste, che 1 + 1 = 2.
Ma in realtà il calcolo e' sbagliato. Se uniamo queste due lettere dell'alfabeto, otteniamo "SE", e questa parola manda all'aria ogni affermato concetto matematico. Ecco perché detestavo tanto quella materia.
Il se comporta mille e ancora infiniti dubbi, illusioni: un numero ben lontano dal timido e sicuro due che ci eravamo proposti.
Un se cambia tutto: allontana tutto ciò che è vero e avvicina ciò che ne è privo, trascinandoti in un sogno, in una pura apparenza. 
Oppure ti fa ripiombare nel mondo come solo un meteorite sulla terra può fare. E quando ti schianti al suolo, il dolore e' peggiore di quello fisico.
Quando cadi ci sono due possibilità, o se vogliamo ben vedere, tre:
O ti alzi e fingi che vada tutto bene, magari accennando sorrisi qua e là, o ti ferisci e vieni portato all'ospedale con tutte le varie conseguenze, o semplicemente, muori.
Quando invece ti schianti in un mondo che sembra rigettarti al di fuori, o ancora a cui credi di non appartenere o senti cosi lontano dalla tua mente, quella lontananza si triplica, a dieci, cento, mille. A seconda delle situazioni e degli zeri che vuoi aggiungere.
In ogni caso, scontrarsi con una coltre sempre meno rarefatta di disillusioni, respirare dell'aria che non senti tua, questo fa la differenza.
La barriera che ti separa dal tuo mondo a quello reale può essere spessa e resistente quando vivi o sei vissuta in una diversa convinzione, oppure sottile come una lastra di vetro se tutto ciò a cui credi sai che ha un limite e continui a pensarlo, con la consapevolezza della differenza tra l'uno e l'altro e l'ammissione dell'esistenza di entrambi.
Ora, i casi sono due: se fai parte della prima categoria, non esisti, se invece appartieni alla seconda, beh, mi dispiace per te.
Quel muro e' sottile e spesso si infrange, ma come il vetro, quando si rompe fa male, male davvero. Senti le ferite e i graffi, e in qualche modo le guarisci e o ti ci abitui. Ti abitui al dolore, ai segni, ma non alla frustrazione di caderci di nuovo.
Se ti va bene, il colpo che ricevi, e che provi sempre, ruba la tua fermezza e concentrazione, e ti destabilizza.
Se invece ti ritrovi immerso in una situazione ben peggiore, affoghi nell'istinto di trovare un senso a quello che ti sei perso mentre eri lontano e vedevi altro. Comunque sia la storia, a te le redini del gioco.

Ecco cosa avevo imparato in anni e anni di esperienza e osservazione, ed ecco come era andata a finire: nell’incertezza più assoluta.
“Andrà tutto bene, basta avere fiducia,” mi ero sentito dire.
Facile. Certo.
Queste erano solo parole. Io come facevo a metterle in pratica?
Ansia. Curiosità. Dubbi.
Si, era proprio ciò che provavo in quel momento.
Tormenti che mi perseguitavano da giorni, o forse, da anni.
Beh, qualunque cosa fosse, l'avevo sempre ritenuta lontana, parte di un futuro che immaginavo si allontanasse con una forza direttamente proporzionale al trascorrere del tempo: una costante.
E invece questo si era rivelato, come tutto del resto, un passaggio determinato da una forza inversamente proporzionale. In poche parole, man mano crescevo, oltre ai capelli e al corpo, aumentava l'agitazione dentro di me, ma c'era una cosa che si avvicinava sempre di più: quel momento.
Era tutto passato cosi in fretta, mentre quello aspettava di venire e condizionarmi o meglio stravolgermi l'esistenza.
Era solo questione di volontà, e io non ne ero privo; ma era la convinzione a frenarmi: per una volta, Shinichi Kudo non era in grado di risolvere un problema.
Mi trovavo in trappola, precisamente nell’occhio di un ciclone.
Stavo davvero dormendo? O piuttosto stavo mandando in rassegna ogni mia minima affermazione? 

Ad un certo punto, da quell’universo di parole, mi ritrovai in un mondo di immagini colorate che comunemente fa parte dei ricordi, e così mi rividi, un Shinichi ringiovanito, ma non di certo Conan: stavolta con me c’era Ran, e avevamo la stessa età, anni che si potevano contare con l’ausilio delle 10 dita delle mani.
Sospiravo debolmente, intento ad ammirare la coltre tersa che aleggiava sopra di noi.
Ero stanco e, sebbene cercassi il più possibile di non darlo a vedere, ogni tanto non riuscivo a fare a meno di sbuffare. Era sempre stato un mio vizio, quello di eclissarmi in un mondo tutto mio, e spesso ero talmente concentrato da dimenticare tutto il resto intorno a me.
Stavo giocherellando con la matita, fingendo ogni tanto di prendere appunti, mentre in realtà fissavo l’universo oltre la lastra di vetro della finestra dell’aula di matematica.
Ero così immerso nei miei pensieri -o forse ci stavo affogando dentro- che non sentii subito la voce della mia insegnante, o meglio, la percepii, ma solo come un sussurro lontano.
Forse stavo davvero rischiando di annegare nel mare della mia fantasia, perché quando finalmente la mia mente si decise a smettere di divagare, la professoressa era evidentemente un po’ spazientita dalla mia mancata risposta simultanea.
Ripiombai in una sorta di realtà, che altro non era se non la mia, fatta di obblighi e doveri, nella quale si stava svolgendo una lezione di algebra. 
Per un attimo, lo scontro fu talmente violento che mi mancò il respiro, o forse lo trattenni, come per tentare di destarmi una volta per tutte.
Quando ripresi il controllo delle mie emozioni, risposi educatamente alla sua richiesta che consisteva nel risolvere un’equazione.

A quel punto, un rumore penetrante mi fece aprire gli occhi e, come sempre, scattai in piedi: erano le 9 di una calda domenica di luglio. Andai allo specchio prima di svegliare Kogoro
Era tutto normale, una normalità che nella sua stranezza aveva preso il sopravvento nella vita quotidiana. 
Conan Edogawa si ergeva nel pieno delle sue facoltà mentali e, per quanto si potesse dire, fisiche.*
  
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