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Autore: MariBelliMaRibelli    19/04/2013    1 recensioni
Vecchie strade lasciate, nuove vie intraprese.
Amori finiti, amori ancora nascosti.
Lentiggini e ribellione, è così Ginger.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Gennaio 2004.
 
Sto pensando davvero di andarmene da qui. Dovrei cercare quella valigia grande che l’anno scorso portai con me al mare. Per carità, il posto era bellissimo, ma non ho mai passato una vacanza così triste come quella. Forse perché ci andai con la persona sbagliata. In teoria, però, se ti sposi un uomo, dovrebbe essere quello giusto. Nel mio caso non è stato così.  Questo letto è troppo freddo ormai. Anche se ci dormiamo in due. Decido finalmente di alzarmi. Non mi volto nemmeno a guardarlo. Mi siedo sul bordo del letto e il gelo del pavimento mi sale su per le caviglie.
Non vedo niente.
Fisso il pavimento scuro per qualche secondo e l’unica luce che rompe il buio qui dentro, è di quei tre raggi che trapassano la tapparella. Vorrei tanto che qualcuno rompesse anche il buio che c’è dentro di me.
Mi avvio pigramente verso il bagno.
Ecco. Non va la luce.
Alzo un po’ la tapparella e sposto le tende, un po’ di luce. La sveglia lampeggia a numeri giganti rossi le cinque e trenta. Nello specchio vedo il riflesso di un viso di porcellana bianca, spruzzato di lentiggini. Qualche ricciolo rosso scompigliato che scivola sulle spalle e due occhi verdi assonnati. Non sono poi così male, penso. Ventiquattro anni fa, mia madre, ha avuto l’irritante ironia di chiamarmi Ginger. Tutti mi hanno sempre detto che sembro molto più piccola dell’età che ho realmente. “Quanti anni hai?” – “Ventiquattro” -  “Accidenti sembri una diciottenne!”.
In effetti, ora che mi osservo meglio, credo sia piuttosto vero. Ho sempre curato il mio aspetto perché mi sono quasi sempre vista come una ragazza carina. Mi facevo bella per il ragazzo che ho sposato, per tutte le volte che veniva a prendermi in vespa e mi portava al lago. Ora, ogni volta che mi guarda, mi sento brutta. Ogni volta che mi guarda penso che abbiamo sbagliato a sposarci così presto, avevamo vent’anni. Eravamo e siamo troppo giovani. Io sono italiana, lui è americano. Abitiamo a Milano. Ha lasciato la sua famiglia a Boston, per me. Ha lasciato tutto per me. E la cosa triste è che io non lo amo. Ha abbandonato quello che aveva in America, per una che non lo ama. Quando ci penso mi sento incredibilmente in colpa. Che schifo di persona sono? Eravamo ragazzini di sedici anni quando ci siamo conosciuti, ero in vacanza con la mia famiglia nella sua città ed è nato tutto. Merita di meglio, per questo devo andarmene. Merita di ricominciare a vivere e soprattutto, merita amore. Quello sincero però.
Penso tutto questo e mi accorgo che sono ancora davanti allo specchio.  Prendo la saponetta e mi sciacquo il viso. Mi butto l’acqua calda in faccia e alzo la testa verso lo specchio. I ricci bagnati appiccicati alla fronte. Le gocce che mi scorrono sulle guance danno l’illusione di un pianto. Solo che proprio non mi viene, non riesco a piangere. In una situazione come la mia, ad un’altra persona, sarebbe venuto spontaneo forse.
 
Mi asciugo il viso e non mi trucco. Nemmeno mi pettino. Mi lascio alle spalle la porta del bagno e aumento un po’ i passi per andare in cucina. Non ho fame, ma cerco lo stesso qualcosa da mandar giù. Apro il frigo e mi sale un conato di vomito. Vedo carne ovunque e tanti vasetti di salse schifose. Latte e della frutta. L’aria fredda mi avvolge e la luce che esce dal frigorifero mi infastidisce. Non avevo molta fame prima figuriamoci adesso, quindi chiudo lo sportello un po’ nauseata. Abbasso lo sguardo e appare sotto la sedia la gatta rossiccia di Joshua. Mi ha sempre detto che gli ricorda me, perché è rossa come i miei capelli. Ci penso e mi dispiace per lui. Me ne andrò ed avrà qui la gatta a ricordarglielo.
Ritorno lentamente in camera e cammino guardandomi in giro come se non fossi mai stata in questa casa. Apro senza rumore la porta e la stanza è ancora come prima. Scura e zitta.
Josh con il lenzuolo chiaro tirato fino alla testa ed un piede che sporge dal letto.  Mi avvicino silenziosa e sento il suo respiro pesante. Gli scosto il lenzuolo dalla chioma biondo cenere. Lo guardo. Non mi da alcuna sensazione. Ha sempre avuto una carnagione olivastra, con le braccia costellate da nei e le dita delle mani sottili. Lo guardo di nuovo. Non mi viene neanche da accarezzarlo. Mi sento quasi cattiva. Non provo nulla.
Mi sposto e apro l’armadio cercando di non svegliarlo. La gatta è saltata sul letto. La vedo seguire ogni mio gesto. Sembra quasi abbia capito tutto, anche quello che ho dentro. O meglio, quello che non ho dentro. Io non riesco a trovare quella stramaledetta valigia. Metto nervosamente le mani tra i capelli sbuffando e guardandomi attorno. La cerco sotto il letto. Trovata!  La apro e ci infilo dentro tutti i miei vestiti, non ne ho mai avuti molti. Non sono una maniaca dello shopping diciamo. Piego intimo e calzini e la chiudo con la cerniera. La sollevo e considerando il contenuto, non è per nulla pesante. Esco zitta dalla camera da letto e poso la valigia in corridoio addosso al muro. Mi infilo un abitino leggero che avevo lasciato ieri sulla poltrona e i sandali. Lascio  un biglietto di addio sul frigo, do una carezza sotto al muso alla gatta e cammino verso la porta di casa.
Sul foglietto attaccato con la calamita ho scritto pochissimo. Sinceramente non avevo parole. Ho stupidamente scritto di non chiamarmi, ma so che lo farà lo stesso. Per fortuna, in banca, ho il mio conto personale separato dal suo e devo dire che ho un bel gruzzoletto. Non so ancora dove andare a dire il vero. Non so se in aereo o in treno o cosa. Non so niente. Per poco non so nemmeno chi sono io
  
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