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Autore: Akira_blood princess    21/04/2013    6 recensioni
" Si sarebbe ribellato, era stanco del dolore ".
Era questo che aveva pensato quando con una lametta aveva tentato di togliersi la vita.
Tuttavia il mondo non gira mai secondo i nostri piani e lui era stato salvato.
Prima materialmente dai vicini, poi moralmente e spiritualmente da un ragazzo eccentrico, un cantante rock in scalata verso il successo che lentamente era riuscito a sconvolgere il suo modo di pensare, portandolo alla ricerca della felicità che aveva sempre pensato di non meritare.
La crescita di un amore che non sembra mai troppo grande, attraverso un breve frammento della vita di due ragazzi che con i loro tatuaggi stanno cercando il coraggio di vivere l'uno per l'altro.
Genere: Fluff, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Avvertimento: Il personaggio di Miles mi appartiene totalmente, mentre quello di Andy si ispira ad un cantante, ma non ha la pretesa di assomigliargli in nessun modo.
Semplicemente mi sono ispirata ad Andy Biersack per l'aspetto fisico del mio personaggio, perciò non ho tentato di riprodurne né il carattere né nient'altro che lo riguardi. E' stato un caso: ho scritto su Google "Andy" e mi è venuto fuori questo tizio che era perfetto *.* per interpretare quello che avevo in mente!
Il mio Andy aveva già deciso di chiamarsi così e aveva già una sua storia ben definita( il testone ha fatto tutto da solo XD), totalmente indipendente da quella di Biersack che è anche l'autore della canzone contenuta nello scritto( lui e la sua band che merita davvero, I Black Veil Brides).
Spero di aver detto tutto...
La storia partecipa anche al contest " Lo Disse" di Efp del quale aspettiamo ancora i risultati, speriamo bene ;)
Per il resto spero che gradirete la fic per la quale ho sputato sangue. Ci ho messo molta fatica e impegno, ma soprattutto il cuore!
Buona Lettura!



Otto Parole Per Una Vita InteraI Believe That We All Fall Down, Sometimes.


 



[
I tatuaggi sono segni nuovi scelti da te. Metti qualcosa tra la tua pelle e il destino. Un sorso di coraggio.]
                     Margaret Mazzantini.
 
 
 
                                                              ********
 
 
Di notte la Join Street, il quartiere della gente benestante e onesta, si rivelava per quello che era; con il buio i volti erano irriconoscibili e le menzogne divenivano l’unica realtà.
 
La Join diventava marciume dietro i visi perfetti e i sorrisi ipocriti, dietro le vite immacolate e le famiglie impeccabili.
 
Tutti si nascondevano: di giorno fingevano fuori nel giardino, al lavoro, per le strade, ma quando poi rientravano in casa, celati agli sguardi di tutti e di tutta l’altra gente falsamente per bene, si mostravano per lo schifo che erano.
 
Chi picchiava moglie e figli, chi rubava soldi dalla cassaforte senza che il coniuge lo sapesse, chi portava a casa amanti e prostitute, chi si drogava e chi beveva fino allo sfinimento.
 
La Join era un inferno e lui c’era sempre stato dentro, intrappolato in quell’orrore.
 
E ne era sempre stato vittima.
 
Non credeva che sarebbe mai tornato in quella strada, dopo che aveva speso così tanto tempo e dolore per fuggire.
 
E non riusciva a credere neanche che le sue stesse gambe lo avessero trascinato lì, mentre camminava per inerzia, la mente vuota ed esanime.
 
Come se fosse ancora abitudine svoltare per quelle stradine al ritorno dal liceo per tornare a casa, come se il suo inconscio reputasse la sua vecchia dimora un luogo sicuro in cui rifugiarsi dopo quello che era accaduto.
 
Osservò le luci accese, la macchina parcheggiata nel vialetto, la fontanella spenta, i faretti che illuminavano l’erba curata.
 
Non era cambiato nulla; quel posto restava tutto meno che sicuro, tutto meno che suo.
 
Non era cambiato nulla e Miles si chiese perché quell’uomo non era ancora stato punito, perché non era in prigione per quanto aveva fatto, perché non era morto.
 
Si chiese perché non lo avesse ucciso lui stesso, quando ne aveva avuto la possibilità, in una delle tante notti in cui gli si era addormentato accanto dopo aver abusato di lui.
 
Le gambe gli tremarono e minacciarono di cedere, quelle bastarde che l’avevano tradito, portandolo dritto da un inferno ad un altro.
 
Si appoggiò contro il lampione lì accanto, lo stesso contro il quale si era accasciato tante volte, vomitando l’anima appena uscito di casa, o perché aveva bevuto troppo o per semplice ribrezzo e nausea verso se stesso.
 
La sentì riemergere, viva come in quei giorni, quella sensazione di odio e disgusto anche per il suo corpo che era di molti, ma non era suo. Sentì anche un conato, il quinto della sera e non riuscì a trattenerlo, troppo vulnerabile di fronte al passato vivido e doloroso che gli sfilava crudelmente davanti agli occhi violetti, innaturali come tutto ciò che aveva dovuto subire.
 
Vedeva sulle pareti immacolate di quella casa la proiezione evanescente del corpo del suo patrigno che sovrastava il suo, le sue mani crudeli e avide.
 
Udiva nelle orecchie le sue parole che lo umiliavano e le proprie grida soffocate, provava la sensazione della sua pelle contro la propria, delle sue dita che lo artigliavano.
 
E poi i ricordi si fondevano con il presente e la presa del suo patrigno, quella che gli disegnava trame fitte di lividi ovunque, diveniva reale. Sentiva fin nelle ossa il dolore che gli suscitava.
 
Tuttavia prese coscienza in modo del tutto distaccato di come non fossero le sue mani che sentiva stringerglisi addosso, bensì quelle dell’uomo, del mostro, che poche ore o forse pochi minuti prima lo aveva trascinato con la forza in un vicolo, all’uscita dal locale dove lavorava, per violentarlo senza pietà e abbandonarlo lì ancora semicosciente.
 
Assimilò a fondo quella consapevolezza e sbarrò gli occhi; questa volta non riuscì a reggersi sulle gambe esili.
 
Piombò con le ginocchia già ferite sull’asfalto e si raggomitolò reggendosi il ventre; si passò le mani sul viso e le ritirò bagnate.
 
E fu davvero come svegliarsi improvvisamente.
 
Gridò. Tentò di farlo, ma il pianto gli squassava il petto e lo privava della voce.
 
Chiese il perché guardando il cielo.
 
Chiese il perché accasciandosi su di un fianco.
 
Tentò di strapparsi via quella sensazione dalla pelle, tentò di graffiarsi via il dolore, ma riuscì solo a ferirsi.
 
Tentò di rialzarsi, ma in realtà non ci provò con l’intenzione di riuscirci.
 
Lo fece solo per sentirsi cadere ancora e ancora.
 
Perché?
 
Era solo colpa sua, era lui il problema, lo era sempre stato.
 
Si meritava tutto questo perché era sbagliato.
 
Lo era perché il suo patrigno aveva abusato di lui per tutta la sua adolescenza, lo era perché viveva prostituendosi, lo era perché quando aveva trovato l’amore aveva preferito gettarlo via insieme a tutta la propria dignità, perché non ne era meritevole.
 
Quell’uomo aveva fatto solo ciò che andava fatto, non era un mostro, bensì un castigatore che aveva agito realizzando il proprio dovere.
 
Avrebbe dovuto ammazzarlo, non lasciarlo mezzo nudo sulla strada come un verme.
Non meritava neanche quello.
 
Rimase adagiato contro il lampione per un tempo indefinito, gli occhi accecati dal dolore e dalle lacrime, la mente piena di commiserazioni e ragionamenti contraddittori.
 
Odio, tanto odio.
 
Prima solo verso di sé, poi contro il mondo, la vita e il destino, verso tutti quelli che l’avevano anche solo guardato.
 
E tanto dolore.
 
Che cosa avrebbe dovuto fare?
 
Denunciare l’accaduto? 
 
Un ragazzo che si prostituiva che denunciava una violenza. Avrebbe riso se piangere non gli avesse sottratto tutte le forze.
 
Si alzò barcollante.
 
Non ricordava la strada di casa.
 
Iniziò a camminare sperando di arrivarci comunque, i passi che pesavano come se il suo corpo avesse ricevuto solo ora il fardello di tutti i suoi peccati, di tutto il dolore e le angherie.
 
Dei fari lo illuminarono per un breve istante mentre le auto sfilavano in velocità e ogni sprazzo di luce era un caduta verso un gradino sottostante, verso la disperazione totale.
 
E a volte le cadute erano anche materiali: le gambe non lo reggevano e si schiantava sulle ginocchia.
 
Tuttavia si rialzava sempre, senza sapere grazie a quale forza fosse in grado di farlo.
 
E non sapeva neanche perché si tirava in piedi, facendosi violenza, poiché fosse stato per lui sarebbe rimasto a morire lì, su quel marciapiede; se solo i pensieri avessero smesso di fare rumore, di torturarlo, di farlo singhiozzare.
 
Si domandò se le lacrime potessero finire, un giorno.
 
Si augurò che quel giorno fosse arrivato perché piangere faceva così male.
 
Ricordò di aver pianto per l’incisione sulla pelle della prima parte del suo tatuaggio e l’aveva fatto perché era doloroso, ma soprattutto perché era liberatorio.
 
Non ricordò un’altra occasione per la quale piangere era stato gradevole.
 
Sentì l’inchiostro bruciare sulla schiena e forse fu solo quello che gli permise di svoltare verso l’isolato giusto.
 
Era stanco, così stanco.
 
Stanco di soffrire, stanco di pensare, di piangere, di sentire e respirare.
 
Stanco di esistere.
 
Era sempre stata una cosa complicata, per la quale aveva sempre impiegato una spaventosa forza interiore, l’unica emozione in grado di tenerlo vivo, in piedi, la sua spina dorsale.
 
Tuttavia quella forza era stata in parte consumata dal suo patrigno, in parte se l’era portata via Judas, insieme a tutto ciò che era stato loro; la restante era stata bruciata dall’uomo nel vicolo e dai suoi occhi di brace.
 
Non gli rimaneva più nulla, per questo cadeva così spesso.
 
Non gli rimaneva davvero più nulla.
 
Niente…
 
Nessuno scopo nella vita, nessuna persona per la quale sopravvivere, nessuna felicità.
 
Solo dolore e…
 
Nulla.
 
Fu così che pienamente consapevole di ciò che stava scegliendo, arrivò in vista del suo palazzo.
 
Era emotivamente instabile e forse lo era anche mentalmente, ma si sentiva pienamente consapevole di ciò che stava scegliendo di fare.
 
Si avvicinò inciampando più volte nel salire i gradini dell’ingresso e non tentò neanche di cercare le chiavi nelle tasche.
 
Si attaccò a tutti i campanelli della piccola griglia luminosa accanto al portone, suonandoli ripetutamente finché non sentì il meccanismo dell’entrata scattare.
 
Spinse sul legno dell’uscio e perse l’equilibrio.
 
Cadde all’interno del palazzo e strisciò nell’angolo verso le scale.
 
Vi si accucciò per quelle che sembrarono ore. E probabilmente lo furono.
 
Nella mente una sola intenzione e flash continui che gli facevano credere di star già salendo le scale, nonostante fosse immobile, confondendolo e impedendogli di prendere coscienza del fatto che stava delirando, totalmente sotto shock.
 
Poi la luce dei fari di un’auto si infiltrò attraverso la vetrata del portone e Miles la seguì con lo sguardo fino a vederla scomparire.
 
Si alzò in piedi al buio e sostenendosi al corrimano salì quattro rampe di scale, con una calma innaturale.
 
E con la stessa vuota ed impersonale calma estrasse le chiavi di riserva dal vaso della pianta dove le nascondeva, senza riuscire a capacitarsi di come fosse riuscito a ricordarsene.
 
Le mani tremarono mentre le inseriva nella serratura e le girava.
 
Quando la porta si aprì, sorse l’unico pensiero inevitabile.
 
Scattò fulmineo, con una fretta e una rabbia disperate e prese a cercare ovunque.
 
Apriva i cassetti, li strappava dai loro sostegni, svuotandoli sul pavimento e scagliandoli lontano, per poi gettarsi a frugare nel contenuto, apriva le credenze e sbatteva tutto a terra mentre rovistava freneticamente con le mani tra gli oggetti.
 
Cercò in ogni stanza, inciampando e barcollando, gli occhi mobili che vivisezionavano lo spazio in cerca di quel prezioso fermo immagine che ora gli affollava la mente, tanto ricorrente nei suoi ricordi.
 
Vedeva ogni giorno quell’oggetto, ma in quel momento non riusciva a trovarlo in quell’appartamento che aveva sempre definito di dimensioni discrete, mentre ora sembrava immenso e dispersivo per vent’anni stracciati, come se fosse in grado di fagocitarlo.
 
- Dove sei … - mugolò. - Dove sei, dove sei, dove sei, dove… - la voce gli si ruppe in gola, e un nodo gli attanagliò la trachea, impedendogli di respirare e anche di piangere. 
 
Non cercò neppure di calmarsi.
 
Cacciò un grido infuriato, scaraventando quanto si trovava  sul tavolo contro il pavimento.
 
Ricominciò a piangere, mettendosi le mani tra i folti capelli biondi, tirandoli e scuotendo la testa, ripetendo ancora la stessa nenia: - Dove sei -.
 
Poi si arrestò, come folgorato. Tremò.
 
Si voltò lentamente verso gli oggetti appena rovesciati dalla tavola.
 
Cadde sulle ginocchia che già annerivano per le escoriazioni ripetute e, tirandosi indietro con entrambe le mani i capelli finiti sul viso, prese tra le dita il piccolo fulcro della ricerca sorridendo leggermente in modo malato, le lacrime silenziose che gli rigavano il viso pallido.
 
La fretta e la rabbia si dissiparono come neve al sole; si tirò in piedi faticosamente e si avviò in bagno, più calmo, afferrando lungo il percorso una bottiglia di vodka dal ripostiglio.
 
Si avvicinò alla vasca, fece sgorgare l’acqua senza controllare se avesse ruotato il rubinetto verso quella calda o quella fredda e iniziò a spogliarsi.
 
La schiena martoriata si rifletté nella grande specchiera sulla quale Miles gettò incurante un asciugamano che la coprì in parte. Tuttavia il tatuaggio spiccava ancora in quel frammento di specchio: quell’albero un po’ secco che con le sue nere trame di carbone gli risaliva la parte sinistra del dorso, sembrava parlare con la voce remota del passato, riecheggiante di lamenti ribelli, di sogni infranti e sospiri di libertà. 
 
I rami di rovi gli artigliavano la pelle diafana per scalarla dal fianco fino ad erigersi alla clavicola; sembravano quasi vene pulsanti, sensuali spire, un intrico tormentato di spine dotate di anima e di una coscienza che le costringeva a vagare in cerca della luce, oltre la scapola.
 
Era incompleto. La piccola rosa in cima, come unico tocco di colore, non era ancora sbocciata.
 
Come una solitaria fanciulla in fuga dai lupi, arrampicata sull’albero, svettava nel suo mantello infuocato.
 
Era ancora un bocciolo, ma si sarebbe schiuso presto.
 
Il biondo osservò la vasca che si riempiva per tutto il tempo e quando reputò sufficiente la quantità dell’acqua si immerse, dimenticando di chiudere il flusso del rubinetto.
 
Stinse il segreto tra le dita e lo percepì ferirlo. Stappò la bottiglia lasciando cadere il tappo e osservandolo affondare, gli occhi vuoti. Bevve un lungo sorso che parve svegliarlo per pochi secondi da quella trance, permettendogli di spegnere l’acqua.
 
Si rannicchiò con le ginocchia al petto e aprì la mano, dito per dito, falange per falange. Era un oggetto così piccolo e innocuo a vederlo, luccicava e rifletteva i suoi occhi.
 
Quasi poteva guardarsi dentro attraverso quel minuto specchio mortale, tuttavia non scorse nulla, poiché ogni cosa si era inevitabilmente infranta tra le mani violente che l’avevano stretto in quel vicolo, in quel buio mentitore.
 
L’avevano graffiato, spezzato in tutti quegli anni, scarnificando pensieri, sogni e preziose parti di lui.
 
Mani che in quelle parti avevano affondato e artigliato le dita ossute, ruotandole nelle ferite per stillare più sangue e solitudine.
 
Mani che l’avevano portato lontano da se stesso mentre il suo corpo si sfaldava, si infrangeva sotto il peso delle violenze e della sofferenza.
 
Mani che così facendo non volevano salvarlo, ma permettergli di osservare la sua disfatta, impotente.
 
Mentre serrava il pugno e il sangue colava viscoso nell’acqua, tingendola, gli sembrava di sentire i propri lamenti, quelli di una lontana notte, le disperate grida d’aiuto perse nel passato.
 
E con esse anche i lamenti inespressi di quell’istante di oblio in cui si finiva con le proprie mani, completando l’opera che altri avevano iniziato per lui.
 
Ricordò come da tempo non chiedesse aiuto; lo aveva fatto solo le prime volte in cui il suo patrigno l’aveva sopraffatto, poi aveva capito che era del tutto inutile perché nessuno sarebbe venuto a salvarlo, a nessuno importava di lui.
 
Ognuno tirava sempre avanti per la propria strada e nonostante molti sapessero non si voltavano a soccorrerlo, ad allungargli un braccio, un appiglio; per tutta la vita aveva visto solo le spalle della gente, spalle dietro le quali le persone si nascondevano a bisbigliare di lui e aveva fatto così male.
 
Ma mai male come in quel momento, quando avrebbe di nuovo voluto gridare aiuto, per essere salvato da se stesso.
 
Le notti insonni tornavano; incubi oscuri, malati.
 
La disperazione che provava in quel momento era quasi antica, gemella distorta di quella che lo aveva attanagliato in ogni istante della sua infanzia, come se la sua mente sapesse già che cosa sarebbe capitato di lì a pochi anni.
 
Quando era piccolo era convinto che le ombre si sarebbero allungate da sotto il letto, dai mobili, attraverso la libreria per soffocarlo e credeva che l’unica protezione possibile fossero le coperte.
 
Perciò le tirava fin sul naso; il caldo era relativo d’estate poiché la paura era infida e s’infiltrava attraverso i sogni perciò niente al mondo gli avrebbe fatto abbassare le lenzuola.
 
Si attaccò alla bottiglia, tenendola per il collo e prendendo un lungo sorso.
 
La gola arse, ma ormai le ombre risalivano le sue gambe nude, gli estirpavano la carne dalle ossa, gli escoriavano le ginocchia ancora di più, rendendole simili a quelle di un bambino caduto troppe volte.
 
Ora non aveva nulla con cui coprirsi, difendersi, nascondersi agli occhi sibilanti di disprezzo.
 
E tutto ciò che sentiva nel cuore era uno stillicidio di attimi fuggenti, gocce di tormento che ritmicamente gli battevano le tempie, rendendo la sua testa sanguinante di dolore e angoscia.
 
Il battito del cuore sembrava quasi un orologio che scandiva in modo macabro quegli istanti di attesa, quel tentennare sul filo del rasoio.
 
Mugolò e strinse ancora di più, la lametta che si conficcava a fondo nel palmo.
 
La stanza era scura e a volte pareva restringersi ad imprigionarlo, in altre si espandeva fino a divenire esageratamente grande.
 
Bevve ancora e l’alcol gli andò di traverso, facendolo tossire.
 
Ingurgitò un altro sorso per soffocare i singulti, l’acqua ormai gelida che l’avvolgeva.
 
Aprì il palmo continuando a piangere silenziosamente: la mano sanguinava.
 
Miles la osservò a lungo, poi bevve ancora e poggiò la bottiglia tra le cosce snelle, estraendo la lama dalla ferita, lentamente; il dolore fu quasi purificatore.
 
Non era giusto, non era assolutamente giusto.
 
Sbagliato, sbagliato, sbagliato.
 
Il suo passato era sbagliato, il suo corpo era sbagliato, lui era sbagliato.
 
E la vita ce l’aveva con lui, così debole da non riuscire a sostenerla.
 
Ed era stanco di vivere nel dolore, perché faceva così male, così tremendamente male.
 
Più di qualsiasi violenza. Vivere era una continua violenza a se stesso.
 
Non poteva più dormire, non avrebbe più mangiato, non sarebbe più riuscito ad uscire di casa.
 
Perciò cosa avrebbe significato continuare? Una tortura maligna autoimposta, ma che non sarebbe servita a curarlo. Non poteva essere curato.
 
Non si curano i bambini dalle ombre, poiché saranno sempre convinti di vederle.
E a lui nessuno aveva mai detto che non esistevano.
 
Nessuno si era preoccupato di aiutarlo a capire e lui non era in grado di riuscirci da sé.
Aveva cercato molte risposte, soluzioni. Nel pianoforte che regnava solitario nella stanza accanto, nel suo candore, nella macchina fotografica con il suo grande obiettivo che sembrava poter scrutare il mondo e l’anima delle persone, tuttavia non aveva trovato mai nulla.
 
Ed ora sentiva nella testa la marcia funebre di Chopin come un monito, la colonna sonora dei suoi gesti disperati.
 
Tutto ciò che comprendeva era la propria ribellione, era stanco.
 
Stanco di essere il giocattolo distrutto che si crogiolava nella sofferenza senza riuscire a prendere una decisione definitiva da solo, l’oggetto che preferiva nascondersi dietro un obiettivo o dietro a dei tasti bianchi e neri.
 
Ma lui era solo, era sempre stato fottutamente solo. E questo era ciò che non sarebbe mai cambiato fintanto che le ombre graffiavano le sue gambe e i ricordi amari violentavano la sua mente e il suo cuore, per emergere e ferirlo ancora una volta.
 
Lui era forte. Si sarebbe ribellato.
 
Bevve ancora e ingoiò di nuovo.
 
Impugnò la sottile libertà già lucida di sangue e bevve.
 
Bevve e l’alcol gli annebbiò i sensi.
 
Pianse.
 
La rosa sarebbe fiorita, finalmente, anche se non come aveva previsto.
 
Si sarebbe liberato di sé e del dolore. Sorrise. Pianse.
E tagliò.
 
 
 
 
I petali caddero piano a terra, sul gelido marmo.
 
La vita scivolò indolente, intrecciata ai rami sulla pelle pallida, incatenata e guidata dalla musica del pianista evanescente che con tocco macabro accarezzava la morte con una triste litania.
 
E… Bip. Bip. Bip.
 
 
 
                                                             ********
 
 

Sentirsi le sue mani addosso gli scaraventò un lunghissimo brivido lungo la spina dorsale, così violento e improvviso che per un attimo credette di svenire. O peggio, di voltarsi e sbatterlo contro il muro, per non lasciarlo più andare. A puttane quello che stava facendo, la sua frustrazione e anche il suo contegno verso quel piccolo demonio. Il suo piccolo demonio.

Miles gli massaggiò le spalle lentamente, con una leggera pressione e poi  risalì il collo, fino ad accarezzare i capelli d’inchiostro.

Si abbassò su di lui e il moro poté percepire il suo odore di neve e lande desolate; voltò un po’ il viso per poterlo scorgere ai margini del suo campo visivo, assorto mentre  scrutava il foglio che stava scrivendo, un intrico fitto di parole su parole incatenate ad un pallido frammento di carta.

Corrugava le sopracciglia esili, cercando di districare i segni del suo tormento riflesso  in parole cancellate con furia e intere righe strappate via.

Il biondo si allontanò e si chinò a raccogliere le cartacce appallottolate sparse per la camera; sistemò le frange lunghe, gettandole un po’ all’indietro e un po’ oltre le orecchie e infine parlò, aprendo un foglio stropicciato, restando ancora piegato sulle ginocchia esili.

- Una nuova canzone? - domandò, la voce modulata per non infastidirlo.

Non rispose subito. Si mise le mani tra i capelli, sbuffò e afferrò il pacchetto di sigarette estraendo una Marlboro e mettendola tra le labbra, le mani già in cerca dell’accendino e le spalle rilassate contro lo schienale della sedia girevole. 

- Già - mormorò in replica, il bastoncino cancerogeno  sobbalzante tra le labbra carnose. Fece scattare l’accendino e pose la mano a coppa davanti al viso, aspirando. Poi girò sulla sedia, soffiando il fumo in direzione della porta finestra aperta sulla brezza primaverile.

Si abbandonò, gli occhi chiusi e la testa riversa all’indietro, la forte emicrania che gli martellava il cervello. Si morse le labbra, pentendosi della sua insolita ostilità nei confronti del biondo, data forse dallo stress e dalla frustrazione. Godette del fascio di luce che improvvisamente gli colpì il viso, inondando le palpebre socchiuse di bagliori rossastri.

Miles si risollevò piano, abbandonando l’analisi delle cartacce per avvicinarsi e sedersi sulla scrivania candida, fissando il moro, studiandolo.

Era sicuramente qualcosa che lo turbava, era indubbio, ma il tormento sembrava logorarlo dall’interno, rendendolo irascibile e pronto ad esplodere come una bomba ad orologeria.

Era sicuro che sarebbe bastato il più piccolo passo falso per finire nel litigio anche se entrambi non l’avrebbero voluto realmente, ma piuttosto che concedere la ragione all’altro avrebbero preferito picchiarsi. Miles era consapevole di quanto la sua persona fosse testarda e contraddittoria, e sapeva anche quanto fossero disastrose le loro discussioni. Ma soprattutto sapeva quanto facevano male ad entrambi.

Andy si voltò nuovamente verso la scrivania, chinandosi sul foglio, in stasi riflessiva.

Miles lo osservò ancora, lo sguardo che vagava dal suo bel viso corrucciato alla matita appuntita che aveva preso a battere ritmicamente sul piano, la mina che si sfaldava in una piccola pioggia di cristalli scuri ad ogni colpo.

Andy provò un improvviso fastidio sentendo lo sguardo inquisitorio addosso, sapeva che quel ragazzo era capace di leggergli dentro e il peso delle sue iridi lo deconcentrava, quasi come fossero calamite che attiravano la sua attenzione, distogliendolo da ciò che doveva fare.

Espirò il fumo con stizza, la sigaretta tremante tra le dita nervose. Lo fissò cercando di fargli intendere che così lo irritava, ma il biondo era evidentemente determinato a sapere perché non distolse lo sguardo, perciò fu il moro a farlo.  

- Quindi? - lo sentì domandare  con la voce velata di una preoccupazione mal dissimulata da uno schiarimento di gola, nonostante avesse sul viso la solita inconsapevole e strafottente aria saccente che avrebbe provveduto da sé a celare ogni forma di debolezza, come era nella sua indole.

Miles aveva svestito la sua maschera con lui da parecchio tempo ormai, ma gli era stata ferocemente aggrappata alla pelle per così tanto tempo che spesso si notavano dei rimasugli.

Andy non lo guardò, sapendo che altrimenti il suo malumore sarebbe venuto meno, mentre in quel momento tutto ciò che desiderava era rimanere arrabbiato con il mondo, perché imprecare contro tutti lo faceva sentire meglio, sfogava il suo fastidio.

Continuò a giocare con la matita, facendola ruotare tra le dita che Miles aveva sempre definito bellissime, prendendo un altro tiro: - Quindi cosa? -.

Il biondo fece un piccolo sorrisetto amarocapendo che se Andy non aveva intenzione di confidarsi doveva essere qualcosa di serio, tanto da piegare al silenzio un tipo loquace come lui.

Fece un gesto con il mento in sua direzione, gli occhi curiosi: - Qual’ è il problema? - insistette, forzando la conversazione come Andy non avrebbe mai fatto al posto suo.

Il moro tendeva a rassegnarsi quando Miles non voleva dirgli qualcosa, anche se per lui stesso condividere tutto era importantissimo, nonostante non fosse proprio nella sua natura. Tuttavia quando era Miles ad insistere, Andy non aveva segreti.

O non era capace di mantenerli tali di fronte al biondo, secondo il punto di vista di alcuni.

Infatti il moro non se la sentì di continuare con quell’atteggiamento ostile.

Lo guardò e incontrò i suoi occhi straordinari: - Tsk - si alzò, schiacciando la matita sulla scrivania - Non ho mai impiegato così tanto tempo per scrivere una canzone – disse e si avviò fuori dalla stanza, attraverso la portafinestra, la mano con la sigaretta portata a grattarsi la nuca, lo sguardo basso. 

Miles saltò morbidamente giù dal tavolo e lo seguì, affiancandolo mentre uscivano sul terrazzo.

Si fermarono, i gomiti vicini appoggiati al muretto, in un silenzio che non li infastidiva.

Andy aveva il volto reclinato, le mani intrecciate sporte a penzolare nel vuoto, il fumo della sigaretta che risaliva in volute verso lalto. Percepiva l’altro accanto a sé e la sua presenza iniziava a confortarlo un po’, come sempre. Levò lo sguardo ceruleo: - Ma per una volta non è quello il problema - confessò, gesticolando appena come suo solito, guardando la bellezza del compagno fiorire al sole. 

La chioma ricca di riflessi e sfumature bianche e ramate era scossa dal vento, sfilacciata in giochi di luce; osservò il viso piccolo e bianco, le ciglia lunghe che schermavano gli occhi ialini mentre guardavano lontano, le labbra carnose così rosse, il luccichio dei piercing ad impreziosirle, il collo così esile e sensuale. Deglutì. Abbassò di nuovo lo sguardo. 

- Spiegami - lo sentì mormorare. - Posso capirti -.

Prese un respiro, torturandosi con le dita il labbro inferiore e l’anello del proprio piercing, tentando di raccogliere le parole: - Questa canzone è diversa… - schiacciò la sigaretta sul bordo in mattoncini del muretto, stritolandola. - Non so per cosa… - sospirò - E ogni verso che scrivo fa così male - incontrò i suoi occhi, cercò di scorgere che cosa vi passasse attraverso.

Lo vide sorridergli più dolcemente: - Allora è proprio per questo che non devi mollare - lo incoraggiò inclinando il viso. - Devi scriverla per te, questa volta, non per gli altri. Né per il tuo discografo, né per la band, né per i fans… – disse e posò la mano sulla sua - … Per te -. Gli accarezzò il dorso con il pollice, guardando le tonalità delle loro mani che viravano verso lo stesso bianco diafano: - E’ per questo che fa male. Perché devi cavarla a forza fuori da te, perché sarà davvero intensa - gli pose la stessa mano sulla spalla mentre si allontanava. - Ti lascio solo, allora - sorrise, enigmatico. 

Andy lo afferrò per il polso, tirandolo indietro e percependolo irrigidirsi al contatto: - Ti va di uscire? - gli domandò a bruciapelo, senza sapere neanche come gli fosse uscita quella richiesta.

Il suo sorriso però lo ripagò dell’azzardo compiuto per averlo toccato in quel punto.

Andy gli accarezzò le cicatrici biancheggianti sulle vene azzurrine: - Ho voglia di gelato - proferì.

 

 

 

 

Ultimamente gli occhi di Miles sembravano diversi, ancora più vivi.

Da quando l’aveva conosciuto i suoi occhi erano stati un’ossessione per Andy, addirittura per interi mesi.

Lui era divenuto la sua ossessione, ma non di quelle malate; piuttosto di quelle che ti rendono così felice e curioso da farti dimenticare ogni altro pensiero. Per settimane aveva tentato inutilmente di frugare negli occhi spenti di quel fotografo cinico e travolgente, di cogliere in quel violento violetto innaturale un qualsiasi segno da poter interpretare.

Aveva sognato il suo corpo nelle notti invernali, scaldandosi con pensieri bollenti. Non riusciva più a trovare soddisfazione nemmeno nella musica, poiché sembrava sempre mancare qualcosa. Poi, quasi per caso, le loro vite si erano intrecciate e presto anche i loro corpi, sotto lenzuola candide, complice un’attrazione indomabile.

Tuttavia i suoi occhi erano sempre rimasti lontani, irraggiungibili, un mistero irrisolvibile almeno quanto lo era il passato del giovane. La loro relazione si era protratta per mesi senza che nessuno dei due pensasse di voler pretendere qualcosa di più dal loro rapporto di sesso occasionale e la freddezza del biondo non permetteva al moro di avvicinarsi.

I suoi occhi, così apatici, persi.

A volte ferivano anche lui, perché che il biondo soffrisse era indubbio.

Poi un giorno, senza preavviso, Miles era cambiato. Aveva iniziato ad interessarsi realmente alla musica del moro, a sostenerlo, a proporgli di uscire sempre più spesso. I suoi sguardi erano più morbidi, le parole più intime.

E Andy non aveva mai obbiettato, non aveva chiesto il perché di tale mutamento. Semplicemente l’aveva accettato come la più bella delle manne celesti, tentando di comportarsi come di consueto, senza dar a vedere in nessun modo che la sua concezione dell’altro stava mutando radicalmente. Entrambi erano sempre stati tipi riservati, quasi scostanti, come se volessero apparire distaccati con l’altro, ma finalmente le personalità cominciavano ad emergere, poiché il muro di Miles crollando aveva abbattuto anche il suo.

Eppure quegli occhi si mantenevano un covo di dolore e solitudine, nonostante Andy dormisse così spesso con lui, nonostante la sua sottile schiena tatuata gli si premesse così tante volte contro il petto quando era convinto che il moro dormisse.

Da qualche tempo invece qualcosa doveva essere successo, perché c’era luce in quelle iridi screziate d’indaco.

Ormai erano due anni  e mezzo che si frequentavano; la loro era divenuta una vera simbiosi, tanto da preferire gradualmente di stabilirsi entrambi a casa di Andy per evitare che Miles faticasse ancora con l’affitto, senza averne discusso in alcun modo, ovviamente.

Tra loro le cose accadevano e basta; era necessario un solo sguardo per capirsi, non dovevano chiedere nulla. Persino i loro cuori avevano preso a battere all’unisono, sincronizzati, infatuati dell’abitudine.

E dopo due anni e mezzo Miles si era confidato con lui, riguardo il suo passato.

Andy dopotutto l’aveva sempre saputo del tentato suicidio, le cicatrici erano state visibili fin dal loro primo incontro e l’altro non aveva mai tentato di nasconderle, come allo stesso modo lui non ne aveva chiesto. Ciò nonostante non avrebbe mai immaginato che vi fosse tanta sofferenza dentro quel biondino, dietro le sue occhiaie e le paure, dietro la sua apparenza menefreghista e provocante, le frecciatine e la superbia, oltre il suo fascino di artista maledetto e malinconico. Aveva trovato così tanto odio per se stesso e per il mondo che non gli aveva mai sorriso, per la vita alla quale aveva voluto fare l’ultimo sgarbo, per vendetta.

Le lacrime avevano rigato a lungo il viso del biondo, mentre gliene parlava rifuggendo il suo sguardo

Eppure, come se fossero rimaste incatenate tra le sue palpebre, continuavano ad illuminarne gli occhi.

Era rinato per una seconda volta, comprendendo il risveglio dopo la notte del suicidio, dopo che i vicini sentendo dei rumori si erano preoccupati e trovando la porta aperta e il ragazzo in quelle condizioni avevano chiamato l’ambulanza. E di quella seconda rinascita si  vedevano i risultati. Miles sorrideva moltissimo, ridacchiava spensierato, parlava con lui così spesso sia delle cose più importanti come il suo lavoro, sia delle frivolezze che gli passavano in mente.

Condivideva con lui le sue idee, i suoi pensieri, le sue riflessioni e anche le sue ricadute, perché ogni tanto si verificavano anche quelle, purtroppo.

Si appoggiavano l’uno all’altro e prendevano insieme le decisioni. Si poteva dire che fossero una coppia, o quasi.

La novità gli piaceva. Anzi l'adorava.

 

 

- Due al cioccolato, grazie - ordinò al cameriere della gelateria.

Miles si guardava attorno, vagava con lo sguardo sui bambini nel parco, sulle coppiette. - Registri stasera? - gli domandò senza voltarsi verso di lui, la voce modulata dolce come un soffio di vento, le maniche della leggera maglia azzurra tirate fin sulle nocche, come d’abitudine, nonostante fino a pochi mesi prima avrebbe fatto di tutto per mostrare le sue cicatrici.

Miles era così; mutevole.

Quando l’aveva conosciuto era totalmente distrutto, sfaldato. E lui piano aveva imparato a capirlo e a ricostruirlo, pezzo per pezzo.

Il biondo andava in giro mostrando i segni del tentato suicidio come se volesse che tutti sapessero e lo compatissero, perché era una cosa che odiava, almeno tanto quanto odiava di aver fallito anche nel tentativo di ammazzarsi. Era proprio per quello che lo faceva, per punirsi, per soffrire.

Allo stesso modo ostentava la propria omosessualità, atteggiandosi e provocando chiunque solo per sentirsi insultato, perché amava essere disprezzato, perché si detestava.

Poi aveva scoperto che cosa voleva dire essere amato, perché Andy glielo aveva mostrato, e aveva smesso di concentrare mente e corpo nell’odiarsi. Piano piano aveva ricominciato ad amare e amarsi, a coltivare quella parte di sé che aveva sempre recluso, per paura che venisse anch’essa stracciata dalla crudeltà della vita.

Quella parte che ora lo portava ad attendere sereno la sua risposta senza alcuna fretta e a sorridere davanti ad un papà che rincorreva la sua bambina, per poi sollevarla e ridere mentre lei protestava, stringendosela contro fino a quando questa non si arrese, gettandogli le braccia al collo. 

Miles si voltò per condividere un sorriso intenerito e poi appoggiò il volto inclinato alla mano, il gomito puntato sul tavolo e lo sguardo limpido.

Andy lo osservò per alcuni brevi istanti, finché sembrò decidere che l’altro avesse atteso abbastanza per una risposta,  visto che era paziente fino ad un certo punto e odiava essere ignorato, egocentrico com’era; non sapeva che l’attenzione di Andy non era affatto concentrata su altro, bensì troppo presa da lui.

Gli sventolò una mano davanti, illuso che si fosse incantato a pensare a chissà che, e sorrise alla sua reazione: il moro gli scacciò il braccio e scosse il capo, consapevole che l’altro si divertiva davvero a prendersi gioco di lui.

Sospirò, rispondendogli: - Sì, John ha fissato ogni cosa per oggi e io non ho ancora questa fottuta canzone - sbuffò frustrato, sfregandosi la nuca e mordendosi il labbro inferiore. Avvicinò la sedia a quella del biondo con nonchalance, portando a contatto i loro gomiti. Sorrise a Miles che gli poggiò la mano sul braccio: - Non preoccuparti. Svaghiamoci un po’, ne hai bisogno. Poi tornerai al lavoro ininterrottamente fino a stasera - ghignò e il moro previde che avrebbe detto una cattiveria - E io ti guarderò sgobbare con una tazza di tè in mano, magari nella vasca bollente per farmi un bel bagno e poi dormirò nel mio letto comodo e spazioso - sollevò le sopracciglia, ridendo.

L’ultima allusione al fatto che Andy sicuramente avrebbe dormito anche questa volta sullo scomodo divano dello studio di registrazione era stata davvero stronza, bisognava ammetterlo.

Tanto poi era lui a svegliarsi senza sentirsi più nessuna parte del corpo, il collo e la schiena distrutti.

- Come sei adorabile! - gli fece una smorfia, sarcastico e sbuffò ancora.

- Lo so - ridacchiò Miles, abbandonando teatralmente la testa sulla sua spalla. - Quindi anche stanotte mi lasci in bianco? - mugugnò, ignorando gli sguardi della gente negli altri tavoli.

Da giorni non avevano avuto occasioni per stare in intimità, causa le giornate impegnate di entrambi.

Andy da settimane si era rinchiuso in studio di registrazione con la band per il nuovo album, rimanendovi spesso a dormire quando il sonno lo coglieva all’improvviso, trovandolo esausto per la giornata; trascorreva lì la maggior parte del tempo, mentre Miles era incastrato in galleria per organizzare la sua sesta mostra del mese.

Doveva cavalcare ora l’onda del successo che l’aveva travolto inaspettatamente pochi mesi prima  grazie a Judas, il suo ex ragazzo, il quale gli aveva offerto la scalata alla popolarità nel mondo dell’arte, appartenendovi già.

Perciò spesso si parlavano pochi minuti la mattina, o al cellulare, ma neanche in quest’ultimo caso riuscivano a conversare liberamente a causa dei curiosi, quali lo staff di Miles o la band del moro; si presentavano poche giornate libere come quella: la mancanza si faceva sentire. 

- Fanculo! - sbuffò Andy, più rivolto ai suoi pensieri che all’altro.

Il cameriere tornò con l’ordinazione e i due si allontanarono leggermente; aspettarono che se ne andasse prima di riprendere a parlare.

Andy si riaccostò a lui posando la mano grande sulla sua adagiata sul ginocchio e, calandosi gli occhiali da sole sugli occhi chiari disturbati dalla luce, lasciò vagare lo sguardo sul parco. Miles fece una piccola smorfia: - Non ti sembra di essere troppo smielato oggi? - lo apostrofò, alludendo al suo comportamento particolarmente appiccicoso per i suoi standard. Indicò con un cenno la mano anche se l‘altro non poteva vederlo, il piccolo ghigno sulle labbra piene.

- Eh? - Andy si voltò a guardarlo, senza seguirlo. 

- Non siamo troppo “fidanzatini”?- domandò con tono canzonatorio, virgolettando con le dita.

- Sei tu sai?! - Andy si sentì subito leggermente punto nell’orgoglio, ma reagì con ironia. - Io non faccio nulla - constatò, sollevando e inclinando la testa, il ghigno nascosto e la voce alterata.

- Io non sono così! - l’altro comprese la rimbeccata e si offese, permaloso. - Lo sai perfettamente che odio queste cose! È colpa tua, perché eri e sei tutt’ora abituato alle donne! - sbottò.

- E come puoi biasimarmi, ne ho una isterica in casa - lo indicò col mento - E poi devi considerare tutte le amanti…- sospirò teatralmente, sogghignando.

- Stronzo! - Miles gli rifilò un pugno in risposta, affondando poi il cucchiaino nel gelato e portandolo alle labbra con la solita sensualità innata.

- Chissà come mai le nostre conversazioni si chiudono sempre così! - Andy gli gettò un braccio attorno alle spalle, stringendoselo contro il petto: - Firmo la resa, bandiera bianca! - proclamò con la  voce roca sollevando le braccia, parecchie persone dei tavoli circostanti si voltarono.

- Shh! - il biondo gli diede una gomitata. - Taci! -.

- Hai ragione è colpa mia - ammise il moro più per far contento l’altro. Rilassò le braccia sugli schienali delle sedie che aveva accanto, una delle quali era di Miles. - Ma tu non sei in grado di definire i tuoi confini. Sei passato dalla freddezza di un cadavere alla modalità adolescente innamorata senza avvertirmi; è difficile per me adattarmi!- mugugnò, gli occhi azzurri rivolti al cielo, ben consapevole che in realtà il cambiamento del loro rapporto era stato graduale e anche piuttosto faticoso. Si scompigliò appena i capelli, molto lunghi sulla nuca e più corti ai lati, infine estrasse il pacchetto di sigarette.

- Modalità cosa?! - Miles sgranò gli occhi, raddrizzandosi sulla sedia. - Io non sono un’adolescente innamorata!- spalancò anche la bocca, oltraggiato.

- Ah, scusa, hai ragione – Andy trattenne il riso, avvicinandosi e soffiandogli il fumo in faccia. - Intendevo piccola checca nerd e schifosamente innamorata, perdona l’errore … - e ridendo si piegò su se stesso, le braccia al petto, pronto a prendersi i colpi dell’altro che non arrivarono.

- Io non so come sono finito con un tipo come te! – replicò questi prendendo del gelato con il cucchiaino; aspettò che il compagno si rialzasse per sporcargli di cioccolato il naso diritto e lo zigomo pronunciato. 

- Che diamine…? - il moro si toccò la guancia. - Sei un piccolo bastardo! - lo accusò, spalmando poi il gelato che aveva sulle dita che sorreggevano la sigaretta sulla fronte dell’altro, attirando nuovamente l’attenzione dei tavoli vicini.

Miles scoppiò a ridere e Andy pensò che era davvero tanto che non vedeva una reazione così bella, capace di renderlo così felice, di farlo stare così bene.

Tentò di darlo a vedere il meno possibile, abbassando il volto. Nascose il sorriso e prese un'altra boccata.

- Te la sei voluta tu! - il biondo si alzò. - Ma la mia vendetta non si è ancora compiuta… - proferì con voce solenne e lo sorpassò facendo scivolare una mano sulla sua clavicola nuda, guardandolo poi da sopra la spalla e mordendosi le labbra indecentemente, più al fine di scandalizzare gli spettatori per poi deriderli che per provocarlo.

Andy scosse la testa, gettò il mozzicone e bevve dalla coppa il gelato scioltosi al sole estivo, poi corse per raggiungere Miles. Lo affiancò, superandolo in altezza di parecchi centimetri - nonostante il biondo non fosse poi così minuto - e si infilò le mani nelle tasche, per poi estrarre un’altra volta il pacchetto e prendere l’ultima sigaretta.

Lo accartocciò e si sporse davanti a Miles per gettarlo nel cestino, sfiorandogli il polso con una dolcezza naturale, acquisita col tempo e propria solo del suo rapporto con lui. Questi si irrigidì appena e il moro si scusò con un’occhiata.

Si avviarono verso il parco, attraverso il viale alberato che era così bello in primavera, ognuno perso nei propri pensieri.

La gente li fissava, o meglio fissava Andy che in quell’ambiente pieno di famigliole poteva solo apparire un tipo losco.

Miles si voltò verso di lui, sorridendo al suo volto irritato. 

- Non li sopporto - mugugnò il moro tra i denti.

- Avresti potuto non mettere la canottiera - gli fece il verso il biondo e l’altro scosse la testa, un piccolo sorriso sorto ad illuminargli il viso e a rendere la sua figura meno aspra, dura, spigolosa.  Andy non si sentiva mai fuori posto, non aveva mai rinunciato ad esprimere la propria personalità e ad essere se stesso, nonostante questo comportasse essere etichettati come diversi o sbagliati.

E così era come si era sempre sentito Miles: sbagliato.

Andy invece non sembrava conoscere un sentimento del genere, l’odio e il disprezzo per se stessi. Il pensiero di essere sbagliato non lo sfiorava neanche; per questo Miles lo ammirava. Perché credeva in sé e si amava come lui non era mai riuscito a fare.

Osservò il suo braccio totalmente tatuato messo bene in mostra, la sigaretta, il piercing al labbro, i capelli dal taglio aggressivo e vistoso. Indossava dei jeans neri strappati all’altezza della coscia e sulle ginocchia, la maglia rossa e nera dei Misfits che scopriva le spalle, accollata, ma bucherellata e stracciata; era evidente la sua fissa per croci, bracciali di cuoio, catene e una miriade di collane che non toglieva mai, la maggior parte delle quali era cruciforme.

Un look da artista certo, ma non da parco pubblico.

Lo sguardo gli cadde poi sulla mano, dove una scritta elegante faceva mostra di sé, percorrendo il dorso pallido tra l’indice e il pollice.

L’aveva fatto per lui quel tatuaggio, per donargli quel coraggio che anni prima gli era mancato quando aveva scelto di imporsi la morte.

Il coraggio di vivere.

Never give in”, recitava. Non arrenderti mai. Come il titolo di un suo componimento.

Cercò istintivamente il contatto con lui, sfiorandogli la mano tatuata e poi infilandogli le dita in tasca, estraendo il cellulare; il moro lo lasciò fare, guardandolo con la coda dell’occhio, la mente ancora alla canzone.

- Dici che sia normale? - domandò Miles, il volto serio, mentre giocherellava con l’aggeggio più per camuffare il tumulto delle sue riflessioni che per reale interesse.

- Cosa? - chiese Andy mentre si avvicinavano alla fontana in fondo al viale. Gettò la sigaretta a terra, beccandosi gli sguardi di rimprovero di una mamma. - La stronza mi guarda ancora? Non rapirò il suo bambinello cicciottello, lo giuro - scherzò, ma il biondo non rispose.

Andy si voltò: - Che succede? - si preoccupò, il volto duro.

- È normale secondo te che io dipenda così tanto dalla tua persona? Dalle tue parole e i  tuoi gesti, dai tuoi tatuaggi… Dal tuo odore, dalla tua vita? - lo guardò porgendogli il cellulare, gli occhi violetti incredibili. 

Il moro si ritrovò spiazzato al cambiamento d’umore dell’altro, dalle sue parole. Prese il telefono: - Io… - ammutolì.

Aprì più volte le labbra, ma non seppe dire nulla. Allora si fermò, all’improvviso, mentre Miles continuava a camminare.

- Miles - lo chiamò piano.

- Mm - il biondo si voltò, incontrando gli occhi azzurri e infiniti dell’altro, privi della barriera di trucco scuro tipica delle sue esibizioni sul palco.

- Se ti consola, - iniziò - per me è lo stesso - quindi si inumidì le labbra. - E non so se sia normale, ma credo di esserne felice - gli sorrise.

Anche il biondo curvò le labbra in un sorriso malinconico: - Già - annuì. - Anche io sono felice -.

L’espressione si allargò sul volto del moro mentre affiancava il biondo già voltatosi, mettendogli una mano alla base della schiena per sospingerlo verso le altalene.

Il sole cremisi iniziava la sua parabola discendente, avvicinandosi sempre di più all’orizzonte, colorando la luce d’arancio e il cielo di rosso. Il parco si svuotava abbandonandosi alla sera e i lampioni iniziavano ad accendersi uno dopo l’altro, solitari spettatori.

Andy prese per mano Miles e si sedette sull’altalena, attirando l’altro tra le sue gambe.

- Secondo te andrà bene stasera? - domandò dopo alcuni istanti di silenzio, intrecciando una mano alla sua.

Miles gli sorrise, baciandolo leggermente e mormorandogli un “Certo” sulle labbra umide, poi gli accarezzò la guancia, iniziando a ricredersi sul fatto che tutta quella dolcezza lo infastidisse. - Andrà tutto bene - lo rassicurò ancora. 

- Tu come hai fatto? - gli chiese, appoggiandogli la testa presso lo stomaco, conscio che il loro rapporto stava davvero cambiando, e radicalmente. Prima non avrebbe mai rivolto a lui domande su argomenti così delicati per entrambi.

- Di cosa parli? - il biondo gli accarezzò i capelli, scostandogli la frangia lunga dalla fronte.

- Ad andare avanti, quando avevi paura di farlo, quando sapevi che avrebbe fatto male - mugugnò, riferendosi al periodo successivo alla tragedia.

- Sai perfettamente che io non ci sono riuscito - fraintese Miles indurendo la voce, pensando che stesse parlando del frangente precedente al tentato suicidio. - Ho perso tutto perché non ho saputo prendere la situazione in mano e salvarmi la vita. Non né ho avuto la forza, ma soprattutto mi è mancato il coraggio - concluse freddamente.

Andy non sentì la voce dell’altro incrinarsi, ma sapeva che parlarne era ancora doloroso, così decise che non era necessario chiarire che cosa aveva voluto intendere.

Rimasero in silenzio a lungo. Sentivano le cicale frinire, le lucciole vagavano aprendo squarci di ricordi sull’estati passate in quei luoghi. I sospiri scandivano gli istanti. Sembrò passare un’eternità.

- Lo sai che… - Andy esitò, sospirando.

- Lo so - Miles gli sorrise e lo tirò in piedi per mano, stringendosi poi al suo braccio.

Il viale poteva apparire splendido anche di notte se guardato nella giusta prospettiva, desolato e romantico, con gli alberi in fiore accarezzati dalla luna appena nascente nel cielo violetto.

Miles si sedette sul bordo della fontana, giocando con le dita nell’acqua illuminata dai faretti sommersi.

- Come fai a sopportarmi? - ridacchiò, biasimandosi per essere stato così brusco nel rispondere ad una domanda tanto delicata.

- Non lo so - sorrise Andy, chinandosi davanti a lui e posando le mani sulle sue ginocchia esili. Lo baciò sentendo le sue labbra curvarsi in un sorriso contro le proprie.

- Beh, neanche tu sei la perfezione sai? - esordì, il buon umore tornato. - Potrei avere un uomo che non ha altro desiderio nella vita che soddisfarmi tutte le notti per tutta la notte, invece devo accontentarmi di uno che al massimo mi offre del sesso telefonico e si addormenta ancora prima di cominciare - ironizzò, lo sguardo di sfida.

- Magari il problema non sono io… - rispose l’altro alla provocazione.

Il biondo spalancò la bocca, fintamente oltraggiato: - Che cosa vorresti insinuare? - e lo schizzò con l’acqua della fontana.

Andy scoppiò in una risata calda, raccogliendo a sua volta l’acqua con le mani a coppa e gettandogliela contro, raggiungendo lo scollo della leggera maglia azzurra  e alcune ciocche di capelli.

Miles allargò le braccia e si guardò, ridendo poi al suo indirizzo: - Infame! -.

Afferrò una coppetta di gelato abbandonata a terra, la riempì e per piacere del suo orgoglio smisurato la scagliò contro il moro che tentò inutilmente di evitare gli schizzi.

Questi si avvicinò, l’aria furbaun braccio e un fianco bagnati, e senza che Miles se lo aspettasse lo agguantò, caricandoselo come un sacco sulla spalla. Il biondo si lasciò fuggire un gridolino strozzato e si divincolò, vedendo che Andy si dirigeva verso il bordo della fontana.

- Non provarci nemmeno! - lo ammonì picchiandogli sulle scapole e sulla schiena solida.

Ovviamente il moro lo ignorò ridendo forte e, dopo avergli dato un piccolo morso sul fianco scoperto dalla maglia, lo gettò nella fontana, chinandosi in modo che non si facesse male.

Ma così facendo, in mancanza del peso si sbilanciò e Miles lo trascinò giù con sé, fino alle ginocchia.

- Ti odio! - ululò il biondo, ridacchiando e picchiandolo dove capitava.

Poi si sollevò, percependo i vestiti fradici incollarglisi addosso e, vedendo lo sguardo di Andy, capì che doveva essere proprio osceno, probabilmente a causa dei jeans bianchi.

Si fissarono, in piedi nell’acqua, immobili, vicini.

Poi, fulmineamente, il moro si attirò l’altro contro stringendolo alle braccia per baciarlo con furia. 

Miles si aggrappò al suo collo e si sentì sollevare, finendo con l’allacciare le cosce snelle ai fianchi del compagno.

Con calma il bacio divenne meno infuocato e più morbido, divenendo uno sfiorarsi che sembrava contenere milioni di parole inespresse.

Si staccarono, accarezzandosi il viso e i capelli bagnati, ridendo.

Andy posò il biondo oltre il bordo della fontana e lo scavalcò a sua volta, liberandosi subito della maglia fredda e gettandola sul muretto, mostrando il fisico asciutto e sensuale.

- Fa freddo! - protestò Miles battendo i denti e incrociando le braccia al petto.

- Ma dai! È quasi estate, ci saranno venticinque gradi! - sbuffò Andy, caloroso come al solito. - Dai, vieni qua - allungò una mano, attirandoselo al toraceMiles, con le braccia ancora impresse addosso, gli appoggiò l’orecchio poco sopra il cuore ascoltandone il battito, mentre il moro abbandonò il mento sui suoi capelli umidi, posandovi poi un bacio.

Miles cedette e circondò la vita snella con le braccia, sentendosi finalmente sereno e Andy gli avvolse le spalle, stringendolo più forte del solito, ma non fece altro che renderlo ancora più felice.

 Rimasero immobili per alcuni minuti, poi Andy sussurrò: - Andiamo a casa - attirando lo sguardo del biondo su di sé. - Ora so che cosa scrivere -.

 

 

Aprirono a fatica la porta, sbilanciandosi all’interno dell’appartamento, ghignando e baciandosi.

Andy abbandonò le chiavi alla cieca sul mobile in entrata e Miles si fece strada nel salotto, trascinando il moro per mano fino alla cucina.

Lì lo lasciò, aprendo uno scaffale dietro l’altro per poi protestare: - Ma perché in questa fottuta casa non c’è mai un cavolo da mangiare?! -.

Sbuffò e mugolò ancora: - Sto morendo di fame! -. 

Il gatto sopraggiunse dalla camera adiacente per strusciarsi sulle gambe umide di Andy, il quale lo sollevò accarezzandogli la testa e posandolo tra le braccia dell’altro. - Toccava a te fare la spesa… - gli fece notare con un piccolo sorriso e il gatto sembrò miagolare in assenso.

- Tocca sempre a me… - rispose mollando il gatto e sbottandogli contro: - Piccolo stronzetto, - il moro scoppiò a ridere   - non sarò l’unico che non mangerà - garantì sempre in direzione del micio candido.

Andy si appoggiò con i fianchi alla penisola color panna della cucina, le braccia incrociate.

I due si guardarono e il biondo si avvicinò, prendendogli le mani e portandole con le proprie dietro la schiena, per attirarlo e al contempo immobilizzarlo, poi gli posò un piccolo bacio sullo zigomo. - Vado a farmi la doccia! - ululò all’improvviso, infrangendo quell’atmosfera intima e Andy scosse la testa, guardandolo avviarsi verso il bagno, la testa ciondolante.

Era così felice. E anche il moro lo era a propria volta per il semplice fatto di averlo reso sereno e spensierato. Quell’uscita era stata benefica per entrambi, anche per la sua emicrania.

Si avviò in camera, salendo le scale e raccogliendo strada facendo tutti i propri vestiti e gli oggetti abbandonati in quel disordine che caratterizzava la loro casa e ogni luogo dove egli sostasse per più di due giorni. 

Si gettò sul letto, spogliandosi dei vestiti umidi e infilandosene altri comodi e puliti, quindi estrasse il piccolo quaderno scuro da sotto il cuscino, osservandolo e ricordando come Miles odiasse quell’oggetto con tutto il cuore:  spesso quando parlavano, o meglio quando il biondo gli parlava, Andy lo abbandonava all’improvviso per correre a prendere il quaderno e potersi annotare le frasi che gli erano venute in mente.

Lui, da parte sua, adorava totalmente quel libretto, regalo del suo migliore amico.

Tuttavia, al solo aprirlo, il vuoto allo stomaco fu così prepotente da fargli pensare per un attimo che avrebbe riposto tutto quanto al proprio posto e avrebbe rinunciato.

Sospirò. Sentiva l’acqua scorrere nella stanza accanto e immaginò come i capelli vaporosi dell’altro si potessero incollare al suo viso sotto il peso del getto bollente; avvertì crescere la voglia di infilarsi a sua volta nella doccia e ripassare con le dita tutti i rovi del tatuaggio del quale Miles non gli aveva mai detto nulla, di sfiorare con le labbra i petali della preziosa rosa sulla spalla esile.

Afferrò un pennarello e con il pensiero del compagno in testa scrisse il titolo.

Lost It All”. Ho perso tutto. 

Ricordò il suono doloroso di quelle parole sulle labbra di Miles, poco più di un’ora prima.

Alzò gli occhi al soffitto: almeno era un inizio.

Si avviò in bagno, il quaderno in mano.

Aprì la porta, scacciando la frangia d’inchiostro finita sugli occhi: - Per quanto ne hai ancora? - domandò, sedendosi sul water.

- Mm - mugolò l’altro. - Devo ancora farmi lo shampoo - si mosse oltre il vetro per scostarsi l’acqua dal viso, tirandosi indietro i capelli, spense il getto e afferrò un flacone. Fu inevitabile per Andy accarezzare con gli occhi tutta la sua figura e avrebbe scommesso che Miles se ne fosse già accorto. 

Aprì il quaderno. - Posso stare qui a scrivere? - chiese come se fosse la prima volta che sostavano entrambi in bagno senza che uno ne necessitasse davvero, solo per stare insieme.

Andy adorava osservare Miles prepararsi davanti alla specchiera e viceversa.

- Certo - rispose distrattamente il biondo, insaponandosi.

- E credi che troverai del tempo per buttarmi giù un arrangiamento al piano? - fece piccoli disegnini a bordo pagina, attendendo la voce dell’altro.

- Adesso? A che ora devi essere in studio? - riaccese l’acqua e sputò fuori quella che gli finì subito tra le labbra.

- Non più tardi delle undici - il moro incrociò le gambe sul water, rispondendo.

- Allora abbiamo tempo! - sorrise Miles, anche se Andy non poteva vederlo. - Perché vuoi farla al piano? - domandò poi. - E’ solo per fare una bozza o vuoi usarlo definitivamente? -.

Andy esitò, scrivendo la prima frase: - Definitivamente - replicò e scrisse la seconda. - E credo che sia perché non riesco a immaginarla in un altro modo - rispose alla prima domanda.

Perché era per lui quella canzone, avrebbe voluto dire e perciò non poteva che sentirla suonargli dentro con quelle note che solo Miles avrebbe potuto comporre.

Rimasero in silenzio. Andy scriveva, il volto teso e corrucciato, il biondo finiva di lavarsi. Questi uscì pochi minuti dopo dalla doccia e stranamente il moro non sollevò il volto a guardarlo. Miles afferrò l’asciugamano e se lo allacciò alla vita esile, dirigendosi allo specchio.

- Sai che mi hanno proposto un’altra mostra e un incarico per la Suggestive? - proferì ricordandosene ed iniziando ad asciugarsi capelli con il phon.

Andy interruppe la scrittura e lo studiò, attendendo che continuasse.

- Sono molto emozionato, soprattutto per la Suggestive perché mi hanno dato carta bianca su modelli e temi. Insomma, posso esprimermi come voglio e non è accaduto più a nessun fotografo dai tempi di Allan Preston - sospirò. - Credo di avere finalmente l’occasione di sfondare davvero - svelò, piegandosi per asciugare la nuca.

Andy sorrise, ma lo stava ascoltando con un solo orecchio. L’altro sembrò accorgersene e si avvicinò, afferrando il quadernino e abbassandolo. - Finirò per bruciarlo questo demonio - ridacchiò, posandogli un bacio leggero sulle labbra.

- Scusa – si discolpò Andy guardandolo nei bellissimi occhi innaturali, così indaco e così pieni di misteri. Probabilmente Miles era stato cieco un tempo, era stato lui stesso a dirgli che prima del tentato suicidio non aveva visto nulla di bello nella vita. Eppure ce l’aveva avuto sempre davanti agli occhi. Gli sarebbe bastato guardarsi allo specchio.

Lo osservò ancora e poi si gettò a capofitto sui fogli, scrivendo altri tre versi.

Miles scosse la testa sorridendo e si diresse nella camera al piano superiore per vestirsi.

La voce roca di Andy lo raggiunse dal bagno: - Vai al pianoforte, io arrivo! -.

Miles sbuffò e indossando la felpa dell’altro scese le scale; girò l’angolo e osservò  il signore della casa. Il piano candido era stata l’unica cosa che si era portato dietro dalla sua vecchia vita.

Non aveva mai detto ad Andy quanto fosse doloroso per lui anche solo guardarlo, figurarsi suonarlo. Tuttavia al contempo era come se ogni volta che sfiorava quei tasti si sentisse più forte, un passo più lontano dal suo passato.

Quel legno era impregnato delle sue lacrime di adolescente e forse per quello era così prezioso.

Forse era per quel motivo che non aveva voluto lasciarlo nella casa del suo patrigno quando se n’era andato, non l’aveva abbandonato a quel mostro che gli aveva rovinato l’esistenza.

Forse era sempre per quel motivo che aveva preferito affidarsi alla carriera di fotografo piuttosto che a quella di pianista, nonostante il talento innato. Ricordava come sua madre lo costringesse a suonare alle feste di gala che tenevano per particolari ricorrenze con tutti i soci d’affari del patrigno e le rispettive mogli. Quegli uomini lo guardavano e sapevano. Sapevano di tutto ciò che quel bastardo gli faceva, poiché era lui stesso a raccontarlo, quasi come se fosse fiero di quel comportamento deplorevole.

Miles suonava, loro applaudivano. Il patrigno ghignava e lui vomitava l’anima appena abbandonati quei tasti amati.

E poi beveva a quei ricevimenti, fino allo sfinimento, fin quasi a svenire perché sapeva che loro lo avrebbero visto ed era l’unico modo per colpire quel bastardo e la sua reputazione. Beveva e insultava gli ospiti, perché sapeva che appena congedati, quell’uomo sarebbe venuto da lui per punirlo e umiliarlo, ancora e ancora. Quando l’alcol non bastava più, restava solo la droga e la speranza che almeno quegli acidi l’avrebbero ucciso, ponendo fine a tutto.

Sospirò, avvicinandosi e sedendosi sullo sgabello scuro, le gambe nude a contatto con la pelle fredda del rivestimento. Aprì la custodia e scostò il panno di velluto dai tasti.

Appena li vide ebbe un tuffo al cuore. L’intero disegno dell’albero sembrò prudere e bruciare sulla pelle come fosse appena stato impresso nella carne.

Aveva iniziato quel tatuaggio all’età di sedici anni e si era fatto disegnare le radici. 

Il suo patrigno l’aveva picchiato e poi violentato per questo, tutta la notte. Tuttavia  Miles aveva continuato a testa alta; era il suo gesto di ribellione, la sua strada verso la libertà che sognava, il suo soffio di coraggio. Ogni anno aveva aggiunto un ramo di rovi al suo tatuaggio, un ramo che simboleggiava la sopravvivenza ad altri trecentosessantacinque dolorosi giorni.

Sapeva che prima o poi sarebbe fiorito. Lo sperava.

A diciannove anni l’albero era grande e forte, ma non sarebbe mai potuto  sbocciare in quella casa, non voleva farlo. Perciò Miles un anno più tardi se ne era andato, improvvisamente. Un giorno aveva deciso che non avrebbe più fatto ritorno in quel luogo che non era più in grado di chiamare casa.

I suoi non l’avevano cercato, neanche per riprendersi i soldi che aveva rubato. Finalmente si erano liberati di lui, perché rischiare di doverselo riprendere?

E Miles si era ritrovato solo, senza un posto dove stare, senza un lavoro e con un pianoforte appresso, compresi i rispettivi uomini dell’agenzia di trasloco.

Aveva del denaro con sé, ma non abbastanza per comprare un appartamento, così ne aveva cercato uno in affitto e per scherzo del destino l’unico decente e abbordabile era a quindici isolati dalla Join, il suo vecchio quartiere. Tuttavia, fortunatamente, per il tempo che vi era rimasto  non aveva mai incontrato alcun parente. Con il restante denaro aveva pagato gli uomini per il trasporto del pianoforte e aveva tentato di sopravvivere. L’ultima cosa che aveva comprato era stata la macchina fotografica, dopo aver scoperto l’amore per la fotografia; infine i soldi erano venuti a mancare e non era riuscito a trovare un lavoro. Così era finito a prostituirsi per poter mangiare e versare l’affitto. Pagavano bene, i ricconi, ma quel denaro faceva davvero male.

Al suo ventunesimo compleanno non aveva potuto finire il suo tatuaggio, non avendo i risparmi necessari.

In seguito era riuscito a rimediare uno stipendio in un pub come cameriere, nonostante non fosse abbastanza per pagare l'appartamento, e aveva trovato persino un ragazzo, Judas, il primo di cui si fosse realmente innamorato; le cose erano proseguite decisamente meglio, ma non si era mai ripreso da tutto ciò che aveva dovuto subire e da ciò che era stato costretto a fare, così la storia con Judas si era infranta irrimediabilmente, crollando su se stessa non solo a causa dei genitori di lui.  La ricaduta era stata immediata.

E quando quell’uomo…

Tentò di rifuggire i suoi stessi pensieri sfiorando i tasti. Iniziò a suonare la prima cosa che gli saltò alla mente, le lacrime gli attanagliavano gli occhi.

Sospirò. L’aveva suonata anche per Andy quella canzone, nei primi tempi in cui si frequentavano. Era stato semplice, molto più di quanto pensasse, perché il suo sguardo lo faceva stare bene; era diverso da tutti quelli che si era sentito addosso nel tempo, mentre suonava. Avevano fatto l’amore con gli occhi molte volte prima che accadesse realmente e quando era successo era stato proprio su quei tasti, fino a scivolare sul marmo freddo del pavimento del suo vecchio appartamento.

Udì il moro sopraggiungere per strapparlo dalle sue riflessioni  e si ricordò di cosa aveva provato nel  sentirlo arrivare dalla propria camera dopo la prima notte che avevano condiviso insieme. E come quel giorno, anche se con un’atmosfera e un atteggiamento totalmente differenti, Andy si abbassò su di lui mentre suonava per baciargli la clavicola. 

Le lacrime scesero inaspettate. Fu liberatorio piangere di gioia per una volta.

Il moro si sedette al suo fianco, a cavalcioni dello sgabello per occupare meno spazio possibile e lo osservò a lungo mentre suonava, il quaderno in mano. 

Delineò le frange bionde allungarsi a coprirgli gli occhi, vaporose e ricche di tanti riflessi diversi.

Studiò le sue labbra perfette, la punta della lingua che saettava ad inumidirle, i piccoli piercing ad entrambi gli angoli della bocca.

Lo vedeva abbassarsi vicino ai tasti, quasi fin a sfiorarli con la fronte.

Lo sentiva piangere silenziosamente.

Lo sfiorava con gli occhi mentre il biondo  riversava la testa all’indietro, le palpebre socchiuse.Scrutava le sue mani muoversi veloci e poi lentissime, accarezzare con devozione quei tasti quasi come faceva con lui, fermandosi per attimi sfuggenti per poi riprendere. 

Concluse quasi senza che Andy se ne accorgesse.  Estese una mano ad accarezzare la coscia serica di lui, senza potersi impedire di osservare le belle gambe nude e affusolate per tutta la loro lunghezza, mentre con l’altra gli asciugò gli zigomi. 

Miles si scostò appena. Non sopportava di farsi vedere debole, era sempre stato così da quando lo conosceva. Raccontargli la sua storia era stato talmente umiliante per lui, oltre che doloroso.

Andy si fece forza per parlare, poiché sarebbe rimasto in silenzio a guardarlo anche per sempre, se avesse potuto

- E’ la canzone… - iniziò in un sussurro.

- Già - lo interruppe il biondo, intuendo come sempre ciò che voleva dire. Si sfregò le cosce, leggermente imbarazzato: - Hai già in mente qualcosa? - domandò in evidente conflitto interiore, la voce che ancora tremava.

Andy decise di assecondare il suo orgoglio per non aumentare il disagio e guardò l’orologio.

Le nove e mezzo. Non credeva che avrebbe cenato. - Che melodia avrebbero queste parole nella tua testa? - chiese distratto, pensando a come avrebbero potuto suonare sulla sua pelle, tra i suoi capelli, nei suoi sospiri.

Miles incrociò le braccia sulla cassa armonica e vi appoggiò la testa. La felpa scoprì l’elastico dei boxer e la schiena, mostrando l’intrico delle radici dell’albero. 

- Da qua - mormorò. Andy gli porse il libro aperto e Miles lesse le prime righe.

- Abbiamo bisogno di una bella introduzione, lenta magari - e, mentre lo diceva, si ricompose e iniziò ad abbozzare alcuni accordi, semplici ma intensi, proprio come avrebbero dovuto essere.

- Dici che se io vado in terrazzo a finire di scrivere l’ultima parte e ti lascio qui, quando torno ho una piccola bozza? - si alzò.

- Certo - sorrise lentamente  l’altro. Andy si allungò a posargli un piccolo bacio sulle labbra e si trattenne un po’ più di quanto aveva previsto. Gli intrecciò le dita tra i capelli soffici della nuca, attirandolo contro la propria bocca, l’altro braccio puntato al piano per sorreggersi.

Quando si staccarono Miles gli prese la mano. Accarezzò la scritta che l’aveva salvato: - Grazie - mormorò e Andy gli sorrise, lasciandolo per recarsi nella terrazza, in quella che parve ad entrambi quasi una fuga.

Alla brezza fresca sospirò, capendo quanto le lacrime del biondo facessero male anche a lui. Tutto ciò che rapportava  a Miles ormai era divenuto così intenso, tanto che a volte riusciva a sostenerlo appena.

Si sedette e scrisse. Scrisse pensando solo a lui.

Alle sue mani sul piano il cui suono gli arrivava dolcemente soffuso.

Ai suoi tatuaggi, al suo coraggio, alle sue paure, alla sua forza, alla sua debolezza.

Osservò il cielo e si chiese se quello fosse amore.

Scrisse l’ultimo verso e la risposta non gli fu più necessaria.

 

 

- Non vuoi cenare? - chiese Miles mentre l’altro indossava la giacca e la sciarpa velocemente. 

- No. Vado subito. Passami il telefono - gli rispose afferrando le chiavi e i guanti - Speriamo che la registrazione del piano si senta bene -.

Il biondo obbedì allungando il cellulare che il moro gettò nella tasca del giaccone in pelle e si avvicinò, appoggiando i fianchi al mobiletto delle chiavi.

- Ho preso tutto? - domandò Andy.

- Il quadernino, quel bastardo? - gli ricordò Miles, le braccia incrociate.

- Cazzo! - Andy corse in salotto recuperando l’oggetto, poi arrivato davanti all’altro  gli diede un bacio veloce e aprì l’uscio. - Non so a che ora torno… Ti conviene non aspettarmi sveglio - consigliò.

- Non l’avrei fatto comunque - mentì Miles.

Andy gli fece una smorfia in risposta, sparendo dietro la porta. Miles sospirò, accostandosi al legno dello stipite; anche da lì poteva vedere il piano. Ebbe una mezza idea di come avrebbe passato il tempo aspettando Andy.

 

 

 

Andy sollevò lo sguardo sull’insegna elegante dell’edificio, un intarsio in ferro battuto che recava il nome dello studio.

La Blaise era sempre stata una struttura appariscente, proprio come chi vi lavorava.

Il moro prese un tiro dalla sigaretta ed espirò osservando la nuvoletta biancastra del fumo nascondergli la facciata dello stabile per alcuni secondi, per poi fondersi alla leggera nebbia primaverile che sorvolava l’orizzonte, trascinata dal vento. Gettò il mozzicone a terra, schiacciandolo con il tacco della scarpa lucida e infilò le mani guantate nelle tasche, quindi si affrettò a salire le scale, spingendo sulla porta girevole per entrare.

Quel posto gli era parso ogni volta troppo simile ad un hotel, nonostante l’arredamento aggressivo; la hall era piena di divanetti in pelle nera, come se la gente che veniva lì per lavorare duramente avesse tempo di rilassarsi all’entrata. Le pareti erano tinteggiate con murales di tramonti su grandi città e le scale erano in marmo nero e lucido, capaci di riflettere visi e corpi.

Si avviò seguendo la moquette rossa, sviando poi per il corridoio scuro, diretto alla sala numero sette. Dal fondo del percorso apparve l’uomo che stava cercando, decisamente spaesato.

Subito Andy sollevò una mano in saluto e quello quando lo vide cacciò un gridolino, percepibile sopra lo sfondo di vari generi di musica che provenivano dalle poche stanze che non erano insonorizzate. Il ragazzo rise vedendo l’uomo sopraggiungere col passo di un elefante, sicuramente infuriato. - Ma dove diamine eri?! - lo apostrofò subito, ancora prima di arrivargli ad un palmo dal viso, l’accento russo che emergeva con la rabbia.

Il moro contenne un sorriso, lasciandosi sfuggire una smorfia: - A preparare la base della canzone - spiegò con insolita calma.

- Davvero? - l’uomo cambiò d’espressione. - Hai già la base? – si stupì sollevando le sopracciglia, marcando ancora la pronuncia straniera.

- Già! - sorrise Andy, consegnandogli il cellulare aperto sulla registrazione. - E’ tutto qui – disse con soddisfazione e iniziò a sfilarsi i guanti.

L’uomo sbatté le palpebre più volte, poi capendosorrise: - Io adoro quel ragazzo! - mormorò riferendosi a Miles.

- Già, anche io - mugugnò il moro, seguendolo verso la sala.

Una volta entrato si sentì quasi a casa; gettò il giubbetto di pelle sul divanetto e si sedette sulla sedia girevole, compiendo due o tre giri. Non avevano ritenuto necessario convocare anche il resto della band, visto che la canzone sarebbe stata per la maggior parte acustica e avrebbero montato solo successivamente la  composizione con gli altri strumenti e gli assoli.

Il silenzio che regnava nella stanza gli parve innaturale: l’unico rumore proveniva dal discografo che accendeva tutta l’apparecchiatura, imprecando di tanto in tanto contro gli oggetti, tentando di convincerli alla propria volontà.  Andy aveva sempre pensato che quell’uomo fosse stravagante.

Lo guardò: sorridente, un russo di bassa statura, biondo tinto e senza la ben che minima idea di che cosa volesse dire essere un produttore convenzionale. 

- Senti, John …- gli disse attirando la sua attenzione. - Voglio che questa canzone sia diversa da qualsiasi cosa che abbiamo mai fatto prima - corrugò le sopracciglia ad ali di gabbiano. - Voglio che racconti l’essenza di me e allo stesso tempo parte di ciò che provo per lui. Come se fossimo una sola persona -.

Il produttore annuì, chinò all'altezza della strumentazione, e il moro continuò: - Come se parlassi con lui, ma sostanzialmente con me stesso -.

John aggrottò la fronte, ma lo lasciò proseguire: - Voglio apparire come se fossi solo nel deserto, di notte, immerso nei miei pensieri a riflettere sulla vita -.

Il discografo si issò, avvicinandosi: - Intenso – sussurrò, poi gli occhi gli si illuminarono. - Portiamo l’attrezzatura fuori! - affermò con tranquillità, come se fosse la cosa più semplice del mondo.

- Davvero? - Andy sollevò lo sguardo, stupito e rapito dall’idea.

- Certo - rispose John atono e si avviò a cercare l’occorrente.

Il moro sorrise: - Sei un genio - ridacchiò seguendolo. Poi John gli consigliò di aspettarlo nel giardino e il moro non si fece pregare. Prese il cellulare con la base, afferrò un paio di cuffie e il quadernino, indossò il giubbetto e uscì. Dopo pochi minuti, il tempo di fumare l’ennesima sigaretta, il biondo ricomparve con i primi attrezzi, quindi scomparve ancora, abbandonando il ragazzo ai suoi pensieri; il moro prese a sistemare la strumentazione, notando stranamente che la quiete non era rotta né da traffico né da rumori fastidiosi

La serata perfetta per quel genere di esperimenti. Le cicale frinivano forte come per tentare di riempire il silenzio ed erano l’unico sfondo accettabile per la sua voce e per il suono solitario del piano.

Il pensiero degli occhi di Miles si sposò perfettamente con l’immagine del cielo stellato, la cui luminosità era offuscata dalla luce dei lampioni, le ombre allungate lungo la strada deserta.

John ritornò accompagnato da un gran trambusto che lo fece sobbalzare, aveva le braccia piene di oggetti e cavi. Il moro sospirò, il peso sullo stomaco che aumentava drasticamente, l’ansia  lo faceva sudare freddo come non accadeva neanche prima dei concerti più importanti. Maledisse il suo biondo per questo e anche tutte le stregonerie che gli aveva sicuramente fatto per farlo sentire in quel modo al pensiero di registrare una canzone per lui. 

Il produttore finì di collegare ogni componente grazie a delle prolunghe che sembravano infinite, poi lo guardo e annuì, lasciandolo solo e sottraendogli il cellulare per allacciarlo alla strumentazione e alle cuffie. Andy le indossò, si sedette su un gradino e attese; quando la prima nota cupa gli raggiunse le orecchie capì che era iniziata, che vi era già dentro. La voce gli uscì roca, vellutata, seguendo spontaneamente la musica, le parole già stampate nella memoria.

Nonostante il trasporto emotivo, si ritrovò a sperare solamente che alla fine di tutto avrebbe trovato la cura al dolore e all’inquietudine che percepiva nascere dentro di sé.

 

 

 

Solo dopo ore di lavoro ininterrotto, si gettò sul divano nel suo piccolo rifugio.

Sospirò, quindi si coprì il viso con le braccia, abbracciando il cuscino.

Non seppe descrivere la sensazione che si agitava nel suo cuore e forse non sarebbe stato in grado di farlo neanche negli anni a venire. Un peso così… Pesante. Opprimente.

Ma dava soddisfazione sentirselo addosso.

Tuttavia non poté impedirselo. Non era tristezza, ma pianse lo stesso.

Si sentì sciocco, ma lo fece sentire meglio.

Seppe per certo che l’unica cura a quel disagio, a quella paura di offrire tutto ciò che aveva sempre tenuto al sicuro e nascosto al mondo intero, non l’avrebbe trovata su quel divano.

Sospirò ancora. Si alzò lentamente, afferrò le chiavi e la giacca e si avviò fuori con le spalle curve. Non si asciugò neanche gli occhi, sperando che fossero ancora bagnati al suo ritorno a casa perché voleva che fosse Miles a farlo. Si rece conto che non  gli avrebbe raccontato nulla e si sentì sciocco di nuovo, il pensiero dei suoi capelli tra le mani e del suo odore sulla pelle già in mente.

Sospirò, rievocando la canzone appena nata.

- Sarà del mondo intero - disse in un sussurro

 

 

 

Tornò a casa tardissimo;  Miles lo sentì girare le chiavi nella serratura, chiudersi la porta alle spalle e percorrere il corridoio abbandonando oggetti e abiti strada facendo.

Non ebbe la forza di aprire le palpebre, né di muovere un muscolo. Rimase lì immobile, abbandonato contro la tastiera, la pelle candida che si intonava con il perlaceo del piano e il sonno che lo attanagliava ancora, gettandolo nell’incoscienza.

Pochi secondi, o forse più, e le mani di Andy gli accarezzarono i capelli.

Si decise ad aprire gli occhi: - Ciao - mugugnò, assonnato.

- Ciao - gli rispose il moro rimanendo alcuni secondi in contemplazione. - Andiamo a letto? - gli domandò poi, il sorriso dolce, ma tormentato.

Mmh mmh - annuì il biondo e Andy gli passò le braccia sotto le ginocchia e attorno alle spalle esili. Lo sollevò con un  piccolo sforzo e il biondo si strinse a lui, aspirando forte il suo odore.

Il moro percorse il corridoio e, entrato in camera, posò Miles sul letto. Lasciò che si infilasse da solo sotto le coperte e prese a spogliarsi; gli occhi gli tornavano spesso sulla figura dell’altro, immobile nella penombra, illuminato dalla poca luce lunare che filtrava dalla portafinestra che dava sulla città. Il biondo ormai non dormiva più e lo guardava di rimando, mentre Andy si massaggiava il collo e riponeva i vestiti nell’armadio, rimanendo in boxer.

Anche Miles si sfilò la felpa che ancora indossava.

I gesti del moro si susseguivano lentamente, intervallati da lunghe pause, indice di un vivo malessere interiore che non sfuggì a Miles; notò subito le sue spalle ampie ricurve, la testa bassa, la mente evidentemente altrove.

Andy rimase fermo in piedi per alcuni minuti, dandogli la schiena, la maglietta tra le dita; allora il biondo si alzò, raggiungendolo e abbracciandolo da dietro, posando la tempia sulla sua scapola, passando le braccia sotto le sue e stringendogli le mani sulle spalle tese.

Non disse nulla, ma sentendolo sciogliersi un po’ lo prese per mano e lo tirò fino al letto, precedendolo sulle coperte e stendendosi supino.

Andy gattonò sul materasso pochi secondi dopo , sovrastandolo e accostandogli il viso alla guancia, abbandonando parte del peso su di lui e sorreggendosi con i gomiti. - Ho un disperato bisogno di fare l’amore con te - gli sussurrò all’orecchio, baciandogli la tempia e sollevandosi per guardarlo. Intrecciò le gambe alle sue e Miles percepì un brivido quando la caviglia di lui strusciò sulla sua, lentamente.

Il biondo accarezzò le braccia forti poste ai lati del proprio viso, soffermandosi su quello tatuato, in particolare sui rilievi di quei segni che conosceva a memoria. Gli baciò il polso con dolcezza, voltando appena il viso e sentendo il moro abbassarsi ulteriormente  gli avvolse le cosce snelle ai fianchi, stringendogli le mani alla nuca per attirarselo contro.

Andy gli passò un braccio sotto la vita circondandolo e posò il mento nell’incavo del suo collo. - Ho bisogno di sentirti. Di sentire il tuo odore - sussurrò ancora. Miles lo strinse più forte a sé, accarezzandogli i capelli, capendo che l’unica cosa da fare era dimostrargli la sua presenza, fargli capire che era lì per lui come Andy c’era sempre stato quando ne aveva avuto bisogno. Era lì per aiutarlo senza dover necessariamente conoscere il motivo del suo tormento, proprio come il moro aveva fatto molte volte. Perché non era indispensabile sapere, bastava sentire. E amare.

I ruoli potevano invertirsi, ma ci sarebbero sempre stati l’uno per l’altro.

Andy lo baciò piano, a fior di labbra;  i cuori di entrambi sembrarono impazzire, come la prima notte che erano stati insieme.

Il moro lo guardò da vicino, la visuale che sfocava fondendo i confini delle iridi.

Vagò da un occhio all’altro, scavalcando il naso piccolo e cercando le certezze e le rassicurazioni di cui sentiva il bisogno, quelle che si erano dileguate quasi un’ora prima sull’onda di aride e profonde note di pianoforte.

Lo baciò ancora, più profondamente, fino a sentire il respiro mancare.

Avvertì una mano del biondo accarezzargli il collo, per trattenerlo quando stava per staccarsi; percepì la sua fronte corrugarsi con la propria, entrambi persi nell’intensità dell’effusione. Il moro lo lasciò solo per prendere fiato, leccandogli appena il labbro inferiore, per poi rigettarsi sulle sue labbra; gli infilò entrambe le mani tra i capelli serici, approfondendo ancora il bacio, cogliendo l’altro sospirargli sulla bocca.

Lasciò che Miles lo trascinasse nuovamente verso il basso e gli accarezzò la coscia denudandolo dell’intimo.

Si rialzò a sedere sulle ginocchia, osservando l’altro steso sotto di lui portare un braccio dietro la testa come d’abitudine e un altro sull’addome, in attesa di qualsiasi cosa.

Gli percorse il petto soffermandosi sul cuore, poi scese sull’addome sfiorando il piercing all’ombelico, percependolo sospirare ancora una volta.

Scese ancora, ignorando volutamente il ventre dove qualcosa si stava visibilmente animando e ridisegnò la forma delle cosce snelle, tracciando cerchi concentrici nell’interno sempre più grandi fino ad accarezzarlo con i palmi con devozione, per sentirlo, per assicurarsi che fosse reale; il biondo gli arrestò le mani prendendolo per i polsi, poi avvicinò un palmo alle labbra e lo baciò, riservando lo stesso delicato trattamento a tutte le dita, abbandonando l’altra mano sul cuore, stringendola con la sua.

Andy sospirò e si abbassò su di lui a rapirgli le labbra, sentendolo venirgli incontro per aumentare la pressione; percorse poi la mascella delicata e la gola con una scia di baci, mentre iniziava a discendere con le dita, venerando le linee del suo addome e dei suoi fianchi. Raggiunse il ventre per accarezzare la sua erezione con lentezza, guardandolo nel viso per scorgere e memorizzare ogni frammento di emozione che lo attraversava.

Il biondo mugolò, si inarcò e gettò la testa all’indietro ad affondare sul cuscino, totalmente in balia delle labbra dell’altro che continuavano a vagare su ogni centimetro di pelle, facendolo impazzire.

In un istante di lucidità provvide, anche se con un po’ di fatica, a spogliare l’altro dei boxer; non distolse un istante lo sguardo da quello ceruleo, sentendosi sconvolto in prima persona dall’intensità e dalla dolcezza velata di quei momenti.

Il moro si sistemò meglio tra le sue gambe e l’attesa fece sobbalzare i cuori di entrambi, facendo ribollire il sangue nelle vene. 

Andy fece per prepararlo alla sua intrusione, ma il biondo gli arrestò la mano; fu necessaria una sola occhiata per comprendere che non poteva aspettare, voleva quell’istante con un intensità che sfiorava il delirio. Allora il moro si stese su di lui e si riabbassò nuovamente all’altezza delle sue labbra, senza sfiorarle, suggendone i respiri concitati.

Quasi fece male sentirlo entrare così piano in lui, farsi strada così lentamente e fu doloroso non fisicamente, ma emotivamente: era come una nuova prima volta per Miles, poiché quando aveva perso la verginità le cose erano state tutto meno che lente e delicate come avrebbero dovuto essere e in seguito nessuno aveva più usato tanto riguardo nei suoi confronti. Sentì un vuoto attanagliarlo all’altezza dello stomaco e tentò di riempirlo dei respiri di Andy, stillandoli direttamente dalle sue labbra. Un vuoto ad ogni affondo, un bacio ogni volta che si ritirava per abbassarsi ancora.

Il moro si staccò da lui per emettere un basso verso gutturale, nascondendo il viso stravolto nel cuscino, al lato del suo.

Vi abbandonò la fronte, sorreggendosi con un solo braccio e respirando forte, mentre con l’altro si stingeva la coscia del biondo contro il fianco. Si arrestò quando arrivò alla massima profondità, tremando, e lo strinse, affondando il naso contro  il collo del biondo per controllarsi. Si separò dalla sua pelle solo per guardarlo negli occhi, ancora una volta, poi lo baciò con passione. Miles rimase profondamente colpito da quanto il viso dell’altro fosse vivido, una trama infinita di emozioni delle più disparate che si condensarono tutte nello stesso istante sul suo corpoGli accarezzò le guance, incollandogli i capelli alle tempie sudate, poi lo strinse più forte che poté, avvolgendolo con le gambe e incitandolo silenziosamente a continuare. Con le mani gli percorse la schiena, le dita tremanti nello scoprire che il moro aveva la pelle d‘ocaguidando i suoi movimenti profondi, le sue unghie gli lasciarono tanti piccoli segni a mezzaluna sulle scapole e sulle reni ogni volta che una spinta giungeva tanto a fondo da fargli strozzare i gemiti in gola. 

Miles gli scrutò nuovamente il viso lucido di sudore quando il corpo si allontanò un po’ dal suo, scoprendo che le sopracciglia arcuate e affilate di Andy erano contratte e gli occhi lucidi di piacere vagavano sui suoi, dardeggiando dall’uno all’altro. Gli scostò alcune ciocche della frangia che gli erano finite tra le labbra piene e arrossate; gli sembrò così tremendamente bello e tormentato, ma anche intimamente felice. La consapevolezza gli fece schizzare il cuore a mille, spedendo lontano il suo controllo e facendogli annaspare il cervello.

Gemette, tentando di contenersi senza buoni risultati. Quel suono gettò una scarica di brividi lungo la spina dorsale del moro che gli affondò i denti nel collo serico, suggendo la pelle con l’intento di marchiarlo. Miles gli artigliò la nuca con entrambe le mani, inarcandosi sotto le sue spinte, sussurrandogli all’orecchio tra i sospiri di piacere frasi sconnesse di cui solo loro potevano sapere il senso.

Il mondo poteva conoscere il suono dei loro gemiti, della loro pelle che sfrigolava, ma non poteva udire quello sublime dei loro cuori che battevano all’unisono, quello dei loro pensieri che andavano a comporre le stesse parole in due menti differenti, senza bisogno di parlare, ne di ragionare.

Il moro aumentò ritmo e forza dei movimenti, mosso da un bisogno impellente di fondersi con l’altro, di sopprimere le barriere della pelle e di annullarsi in lui, per sentirsi finalmente vivo, protetto, completo. Lo sollevò a sedere affondandogli le dita nella schiena tra i rovi dell’albero e nei glutei, lasciandosi abbracciare e aspirando intensamente il suo odore, adorando la sua presa disperata attorno al collo. Si guardarono fintanto che riuscirono a mantenere le palpebre aperte, appesantite dal piacere, e ancora una volta Andy credette di scorgere qualcosa di nuovo delle iridi del compagno, qualcosa di cui si innamorò istantaneamente infatuandosi ancora di un nuovo lato di lui, di una delle tante persone che era capace di essere.

Sentì le sue mani premergli sul petto fino a farlo piombare sul materasso, in balia del suo corpo che lo sovrastava, etereo. Osservò ogni minimo centimetro di lui  e lo adorò tentando di scolpirselo a fuoco nella mente; ogni frammento di incarnato eburneo per ogni parola della sua canzone. Immaginò di tracciarvele sopra, di incidervele con lo sguardo, e sentì ancora nella mente le note sulle quali aveva cantato, l’unica colonna sonora possibile per il loro paradiso.

Sentì il piacere salire mentre guidava i suoi fianchi snelli, osservando come anche nel volto dell’altro i segni del godimento si facevano profondi, incontrollati. Rovesciò ancora le posizionipoggiandosi lincavo del ginocchio del biondo nella depressione della spalla, guardandolo negli occhi infiniti; il mondo si fece bianco e nullo per una frazione di secondo, quando avvertì il culmine del piacere assalirlo.  La cura fece effetto in una frazione di secondoquando si riversò nell’altro e percepì Miles tendersi come una corda di violino, gemendo e svuotandosi tra i loro stomaci. Affondò le labbra con forza sulle sue baciandolo in modo disordinatoe il biondo gli artigliò i capelli sulla nuca, stringendoselo contro.

Sospirarono infine, allentando le prese e baciandosi con sempre meno esigenza, con più indolenza.Quando si separarono Andy chiuse gli occhi, accostando la fronte a quella di Miles, il fiato corto; uscì piano da lui e si gettò di lato, lo sguardo al soffitto. Tentò di riprendersi mentre l’altro si ripuliva e quando lo sentì riabbandonarsi sulle lenzuola si avvicinò, appoggiando la testa sulla pancia solida. Le mani del biondo l’accarezzarono subito, infiltrandosi tra le chiome scompigliate e conducendolo incontro al sonno.

Pensò molto a che cosa avrebbe potuto dirgli, ma nulla sembrava d’importanza e valore pari al suono del suo cuore che batteva all’altezza del suo stomaco.

Fu il biondo a spiazzarlo: - Ti amo - sussurrò, incerto.

E ogni inquietudine, ogni malessere sembrò dissiparsi.

Era così raro sentirselo dire.

Non rispose, sospirò e si sollevò a baciarlo, attirandolo poi contro il proprio petto. Percorse le trame dell’albero sulla schiena finché Miles non si addormentò, la testa nascosta sotto il suo mento; gli baciò i capelli e inalò copiosamente il suo odore, chiudendo gli occhi.

Seppe di aver scelto le otto parole perfette per descrivere le loro vite, la loro vita insieme.

I believe that we all fall down, sometimesE a volte andava bene così, non sempre era necessario rialzarsi subito. 

Tuttavia a volte era assolutamente necessario farlo, per qualcun altro. O con qualcun altro, sollevandosi dal pavimento insieme, per mano, appoggiandosi l’un l’altro.

Perché tutti cadiamo a terra a volte.

- Anche io… - mormorò.

E non seppe se stesse rispondendo al biondo, o ammettendo una verità inconfutabile.

 

 

 

 

Si svegliò con il sole che gli accarezzava le palpebre e con le note del pianoforte in sottofondo. Andy le riconobbe mentre il sonno scivolava via lasciando posto alla lucidità, anche se avrebbe preferito coccolarsi ancora un po’  nel calore delle coperte.

Affondò il viso nel cuscino e aspirò l’odore dell’altro misto al proprio, mugugnando appena contro la voglia di alzarsi. Si tirò le lenzuola contro, scoprendo di essersele attorcigliate tutte intorno al corpo; probabilmente per quel motivo Miles se n’era andato, visto che si era totalmente impadronito del letto, occupandolo tutto trasversalmente data l’altezza considerevole. 

Posò un piede a terra, sollevandosi controvoglia a sedere e sfregandosi le palpebre. Rimase per un attimo immobile, lo sguardo al pavimento, riconoscendo nello stomaco i morsi della fame.

Doveva essere tardi. Gettò un’occhiata all’orologio: le nove e mezzo. Eppure avrebbe detto peggio. Sostò ancora un po’ sulle coperte, ascoltando la musica che proveniva soffusa e piacevole dall’altra stanza. Le note che conosceva salivano e scendevano pigramente, come se quelle mani che adorava e che erano responsabili dei segni sulla sua schiena accarezzassero i tasti con indolenza, giusto per tenersi occupate.

Registrò automaticamente l’impulso che lo spinse ad alzarsi e dirigersi verso l’uscita, seguendo la musica. Attraversò il corridoio strisciando i piedi nudi sul parquet e facendosi più di un risvolto sui pantaloni del pigiama che calavano sui fianchi. Scese le scale gradino per gradino, quasi a ritmo della melodia, scorgendo la figura illuminata dell’altro al piano; la luce filtrava dalla portafinestra sul balcone cogliendolo di spalle e illuminando la chioma dorata china sul legno perlaceo. Andy si arrestò presso il corrimano, scorgendo le mani bianche solo quando queste andavano a raggiungere gli estremi dello strumento; la pelle rabbrividì forse a causa dell’intensità dei suoni, ma più probabilmente reagì alla figura del compagno, rievocando il contatto con quelle labbra, quei capelli, quelle splendide dita che scivolavano fluide e libere sulla tastiera.

Un sorriso sghembo gli incurvò le labbra sul finire della melodia  e fece per avvicinarsi a coprirgli gli occhi, ma il biondo si voltò per primo, percependo i suoi passi. Gli sorrise luminoso, la solita aura di mistero che circondava le iridi indaco; le avvertì scorrere sulla pelle nuda del suo petto, soffermandosi sulla scritta all’altezza del cuore.

Sapeva quanto Miles amasse i tatuaggi e in particolare quando adorasse i suoi, soprattutto perché da due anni a quella parte erano solamente dedicati alla sua persona. Il biondo adorava quel genere di cose; nonostante lo nascondesse, era ovvio che la sua attenzione e il suo affetto gli facessero molto piacere e il moro comprendeva come fossero tutto ciò che agognava da lui.

Si avvicinò all’arco che introduceva al salotto appoggiandovisi con una spalla e scorse l’altro venirgli incontro a sua volta. Il biondo non disse nulla e portò le dita a ripassare le lettere incise in corsivo fitto sul suo cuore. Andy le seguì con lo sguardo percependo un brivido scuoterlo e accentuarsi quando i loro occhi sembrarono incontrarsi a metà strada, sulla pelle calda, accarezzandosi indirettamente; poi finalmente si volsero gli uni verso gli altri e Andy si ritrovò ad affogare nelle iridi di Miles, percependolo scrutare a fondo le sue, navigando tra pagliuzze argentee e riflessi lapislazzuli.

- "Photograph each day so we can live forever" - citò, tornando a leggere il tatuaggio.

Fotografa ogni giorno così potremo vivere per sempre.

Lo prese per mano e lo trascinò nel salotto, afferrando la macchina fotografica abbandonata su di una mensola, accanto a milioni di CD. Miles gli sorrise divertito e accostò il viso al suo: - Sorridi, non voglio vedere il solito muso lungo sull’obiettivo nuovo! - e scattò. La foto venne storta e anche troppo ravvicinata, ma Miles sembrò non farci caso e impresse le labbra umide sulle sue, rubandogli un bacio. Si avviò in fretta verso la cucina e, passando davanti allo stereo, lo accese.

Le casse decantarono immediatamente a volume non esattamente moderato una canzone dei Police.

- Ti ho preparato la colazione - strepitò il biondo sopra alla musica, mentre il moro si sedeva

abbandonando un piede al sostegno dello sgabello. Subito, sentendo le note familiari, Miles si voltò verso di lui con la caffettiera e un vassoio tra le mani: - Com’è che si chiama? - gli domandò con un sorriso larghissimo sul volto e, senza aspettare che rispondesse, iniziò ad ondeggiare a tempo posando le cose che aveva in mano sulla penisola davanti ad Andy.

Mugugnò le parole, senza ricordarle e anche senza sforzarsi di farlo, ridacchiando e avvicinandosi per prenderlo per mano. Andy, capite le sue intenzioni, tentò di ritirarsi, ma non ne fu in grado davanti alla prospettiva di saggiare nuovamente la forma snella dei fianchi di lui, oscillanti e provocanti; si lasciò tirare in piedi senza voglia e lo assecondò, muovendosi appena.  Quello, vista la poca collaborazione, gli avvolse le braccia al collo ottenendo che Andy gli cingesse la vita. Abbandonata presto la reticenza, anche il moro si lasciò andare alla musica, finendo per afferrare l’altro per mano e farlo girare: iniziò a scherzare impugnando il suo palmo e stringendoselo contro, improvvisando una danza che era più un saltellare che altro, un abbozzo di mazurka che avrebbe fatto accapponare la pelle ad un ballerino vero.

La canzone volse alla fine e anche i due ritennero di aver già sfidato abbastanza l’ampiezza della cucina occupata per la maggior parte dall’ampia penisola, così si staccarono appena, ridendo.

Andy riafferrò il compagno pochi istanti più tardi baciandolo con leggerezza e vedendo che l’altro manteneva fisso lo sguardo sulla sua bocca, lo baciò di nuovo, più profondamente.

- Non hai fame? - chiese il biondo quando gli fu possibile riprendere fiato.

- Sì, ho fame di te - sorrise l’altro, abbracciandolo. Rimasero un po’ immobili, poi il moro preferì non far raffreddare il caffè e lo lasciò libero sedendosi; anche il biondo aggirò la penisola e prese posto di fronte a lui.

Andy inzuppò un cornetto nella tazza prima di parlare: - Senti… - iniziò, mordendo la brioche. - Ti va di venire a sentire la canzone in studio oggi? - propose a bocca piena. - Voglio che sia tu ad ascoltarla per primo - stirò un moto di gioia sulle labbra.

L’altro nascose un ghigno e gli appiccicò il tovagliolo sul poco caffè che gli era colato sul mento quando aveva morso il croissant. - Come vuoi - rispose

Andy prese il fazzoletto e si pulì. – Che entusiasmo! - commentò più caustico di quanto avrebbe voluto.

Miles prese una pastarella a sua volta, snobbando il caffè nero che l’altro tanto adorava per versarsi della spremuta, quindi lo guardò di nuovo negli occhi: - Se ti avessi detto immediatamente di sì, avresti capito quanto sto morendo dalla voglia di sentirla - disse e incurvò le labbra in un mezzo sorriso raro e particolare; gli occhi morbidi sfuggirono a quelli dell’altro, come una ragazza casta che rifugge le attenzioni e le provocazioni del ragazzo più bello del liceo, senza volerlo realmente.

Andy ghignò leggermente e fece per allungarsi a prendere la bottiglia d’acqua, ma ancora prima che muovesse un muscolo il biondo gliel’aveva già passata, come se gli avesse letto nel pensiero. Miles stesso si stupì di quell’improvvisa telepatia, come quando si finivano le frasi a vicenda, e sollevò lo sguardo sul moro. Si fissarono e poi scoppiarono a ridere.

- Oddio. Ho davvero bisogno di questo pomeriggio lontano da te o mi verrà un’allergia - scherzò il biondo. - Sembriamo una coppia di sposini! - rincarò la dose.

- Muoviti, andiamo a sentire questa canzone e poi togliti dalle scatole per il resto del giorno! - aggiunse Andy, finì il caffè in un sorso e gli scompigliò i capelli. - Vado a cambiarmi!- esclamò già diretto in camera.

- Ma andiamo adesso? - lo seguì a ruota Miles, afferrando le mani che l’altro gli offriva da dietro la schiena.

- Perché no? - salirono le scale e svoltarono verso la stanza da letto. Si separarono, il moro diretto all’armadio e il biondo ad aprire la serranda per far entrare la luce forte e bianca che s’intonava con le pareti di un azzurro chiarissimo, applicato e sfumato in modo circolare.

Avevano dipinto insieme quella stanza ed era stata una delle prime cose che avevano fatto come coppia. Era stato quasi un rito di passaggio e dopo aver fatto l’amore sporchi di vernice tra i giornali, era stato chiaro ad entrambi che niente sarebbe stato più come prima e tutto sarebbe volto verso un lato più positivo.

Un futuro radioso per riscattare un passato doloroso, per entrambi.

- Non è presto? - domandò Miles guardando l’orologio che segnava le dieci, la testa ancora persa nei ricordi. Si gettò sul letto allungandosi ad afferrare i jeans che aveva gettato a terra il giorno prima, disordinato come al solito, e li infilò alzandosi e raggiungendo il moro davanti alla cabina armadio che condividevano.

La casa era abbastanza grande perché ai tempi del college, prima che loro due si conoscessero, Andy la condivideva con Aaron, suo migliore amico nonché figlio del ricco imprenditore Jonathan Myers. L’abitazione era composta di due piani, con salotto e cucina al piano inferiore, due camere da letto e il bagno a quella superiore. Per i primi giorni che Miles era stato lì aveva dormito nell’altra camera, quella di Aaron; il ragazzo gliel’aveva lasciata senza problemi una volta fidanzato e trasferitosi a casa del suo compagno, guarda caso nella Join Street. Era stato felice che il suo migliore amico fosse riuscito a conquistare il giovane che aveva desiderato per tanto tempo.

Dormire separati era parsa subito una cosa ridicola e, superato quel suo disagio di dormire con qualcuno, Miles si era spostato nella stanza del moro. Anche i suoi vestiti l’avevano seguito, andando a sommarsi ai milioni dell’altro e distinguendosi solo per i colori vivaci.

Afferrò una T-shirt bianca con una stampa di un cielo pieno di nuvole colorate e l’abbinò agli skinny jeans chiari che portava. Si accorse che l’altro gli aveva risposto quando lo vide guardarlo, in attesa di un qualsiasi cenno.

- Scusa, non ti stavo ascoltando - mormorò, alzando le spalle.

Andy scosse la testa: - Dicevo che non è troppo presto, tanto quel barbone di John dorme sempre lì da quando abbiamo iniziato a lavorare all’album - ripeté.

- Certo che sei stronzo! - lo riprese, giudicando perfido dare del barbone all’uomo che aveva deciso di dedicare la sua vita alla band del moro.

- Tanto per cambiare! - ridacchiò l’altro, infilando uno delle tantissime paia di jeans neri e sbrindellati che possedeva, con strappi sia sulle ginocchia che sulle cosce. Sopra stranamente indossò una maglia bianca di un qualche gruppo sconosciuto, quasi per intonarsi alla felicità e la serenità che aveva sul volto.

Registrando quella canzone aveva sofferto, certo, ma si era soprattutto liberato di un peso. E si notava.

- Prendi tu l’auto! - ordinò Andy mentre indossava gli occhiali scuri e si dava una sistemata ai capelli davanti allo specchio. Avrebbe tanto voluto fargli una foto in quel momento; decise che come sempre avrebbe portato la macchina fotografica con sé, in caso qualcosa l’avesse colpito. Peccato non averla presa anche il giorno prima in occasione dell’uscita al parco, ma sapeva che se l’avesse fatto la sua attenzione non si sarebbe concentrata un attimo sul moro e non gli sarebbe stato affatto d’aiuto.

- Sì. Ma solo se guidi tu! - rispose ironicamente, fuggendo lungo le scale a recuperare la fotocamera.

- Stronzo!- gli gridò dietro Andy allungando la lettera finale, il tono cantilenante, quindi lo raggiunse con il cellulare alla mano, aprendo la porta; lo fece passare, rifilandogli una pacca sul sedere. - Preparati. E’ un capolavoro -  disse ghignando.

 

 

Appena entrarono nella sala sette tutti gli sguardi si fissarono su di lui.

Meno male che doveva essere il primo a sentirla.

C’era tutta la band al completo e persino la segretaria del discografo, evidentemente quella nuova di cui Andy gli aveva parlato perché non l’aveva mai vista prima. I ragazzi lo salutarono calorosamente e il biondo tentò di non dare a vedere che si sentiva a disagio nei loro abbracci.

Non perché non gli fossero simpatici, anzi li adorava, ma soprattutto perché non si era ancora abituato alla tanta confidenza che gli dimostravano, come se fosse uno si loro; poi sentiva lo sguardo della ragazza addosso come se dovesse scannerizzarlo e la cosa lo infastidiva non poco.

Andy gli pose una mano dietro la schiena e lo presentò alla nuova arrivata: - Evelin, lui è Miles, il mio ragazzo - disse con leggerezza e sorrise, evitando però di guardarlo, come se fosse internamente in imbarazzo. Per Miles stesso era strano sentirsi rivolgere quella definizione come un’etichetta, ma si rivelò più piacevole di quanto avrebbe previsto.

In seguito il moro si voltò verso di lui: - La suonerai con me, per me, alla presentazione dell’album? - gli chiese a bruciapelo, senza bisogno di specificare nulla, poiché l’altro comprese subito. Tutti gli sguardi gli furono addosso in un istante. - Beh… - esitò - Dovrò sentirla prima, no? - guardò solo il suo ragazzo, dritto negli occhi.

Andy sorrise impercettibilmente, malizioso e sicuro di sé. - John, accendi - disse senza voltarsi e indicando con il braccio l’attrezzatura, le iridi ancora affondate in quelle violette di Miles.

http://www.youtube.com/watch?v=_stEdcZbhMk Lost it All- Black Veil Brides

Le prime note riempirono l’aria, cupe, e al biondo sembrò di rivedere le proprie mani bagnate di lacrime sul piano per l’ennesima volta. Gli accordi divennero più flebili per un istante, per poi ritornare più potenti di prima, proprio come le loro vite. Ebbe un mancamento nel percepire le ultime note dell’introduzione rallentare delicatamente per lasciare spazio alla voce di Andy, accompagnata dalla melodia solitaria che si era fatta soffusa, paragonata al calore dell’intonazione roca del moro. I brividi lo assalirono immediatamente e la stanza sembrò ruotare fino ad annullarsi. Persino Andy stesso sembrò sparire nello sfondo nero della musica.

Chiuse gli occhi.

Anche il respirò gli si spezzò in gola, come se il suo cervello lo reputasse inutile e rumoroso.

Seguì le parole con attenzione e nonostante gli si confondessero nel cuore ne percepiva il senso scorrergli nelle vene, insieme al sangue che pulsava sotto le sue cicatrici. Percepì il coro di archi e piccoli colpi timidi di batteria andare ad aggiungersi al piano e alla voce morbida di Andy che sembrava quasi volerlo avvolgere, proteggere. 

Il ritornello gli fece venire il batticuore, senza che potesse controllarsi.

 

Then I lost it all, dead and broken. 

My back's against the wall. 

Cut me open. 

I'm just trying to breathe, just trying to figure it out. 

Because I built these walls to watch them crumbling down. 

I said, then I lost it all. 

Who can save me now? 

 

Poi ho perso tutto, morto e spezzato

La mia schiena è contro il muro

Squarciami.

Sto solo cercando di respirare

Sto solo cercando di capire

Perché ho costruito queste mura

Per vederle crollare a terra.

Ho detto, poi ho perso tutto.

Chi può salvarmi ora?

 

Di chi stava parlando? Di se stesso, di lui, o di loro due insieme?

La voce riprese più grintosa dopo una piccola pausa nella quale il buio dietro gli occhi di Miles fu totale. La chitarra si ritagliò subito il suo spazio accompagnata dalla batteria, eppure non riuscirono a surclassare il piano e gli archi.

L’armonia era così perfetta, così sua.

Se la sentiva sulla pelle, vivida, come se ogni nota scalasse la sua schiena e vi imprimesse un brivido. Come se il moro gli avesse letto nella mente, nel cuore, modellando in musica ciò che aveva trovato con tanta fatica. La voce di Andy si era fatta quasi intimamente rabbiosa, con un soffio di rimorso che solo Miles poteva cogliere, ma che non seppe spiegare. Percepì i tre versi seguenti, e anche il suo cuore sembrò farlo saltandogli in gola.

Li riconobbe immediatamente, come se avesse già letto le righe negli occhi azzurri del moro.

 

But I was blind, I couldn't see the world there right in front of me

But now I can.

Yeah!

 

Ma io ero cieco, non potevo vedere il mondo lì proprio di fronte a me

Ma ora posso.

Sì!

 

E riprese il ritornello, come una liberazione, una cura, un abbraccio.

 

Then I Lost It All.

 

Seppe che erano parole sue, quelle che gli aveva sputato contro al parco, piene di sofferenza.

E fu felice che le avesse utilizzate per quel capolavoro.

 

Who can save me now?

 

Credette che la perfezione avrebbe potuto avere solo quel suono e si rammaricò che non potesse essere impresso con una fotografia, per poterlo venerare ogni volta che desiderava.

Pensò che la canzone stesse volgendo al termine e già gli sembrò di sentirne la nostalgia, ma poi alle ultime note del piano si sostituì il suono struggente e dolce del violino che sembrò cambiare l’accezione della canzone in qualcosa di più malinconico, ma pieno di speranza.

Una voce femminile lo colse impreparato con delle bellissime variazioni terminanti con un acuto pazzesco.

E le parole che seguirono gli fecero venire immediatamente gli occhi lucidi. La voce di Andy le delineò con quel tono dolce che usava sempre per incoraggiarlo, accompagnato in alcuni punti da un coro spettacolare, seguito da un’altra voce femminile che si alternava alla prima, mescolando i toni diversi. 

 

I believe that we all fall down sometimes

Woah

Can't you see that we all fall down sometimes?

 

Io credo che tutti noi cadiamo a volte

Woah

Non vedi che tutti noi cadiamo a volte?

 

Lo ripeté più volte, come per farglielo capire bene e il senso gli fu subito chiarissimo.

Per questo non poté impedirsi di piangere. Quelle otto parole gli scavarono solchi profondi nella mente, nell’anima, sfregi invisibili che bruciavano confortanti, rotondeggianti di lettere scritte a mano.

Scritte con le mani di Andy che erano state capaci di strappare il dolore e l’odio da lui per lasciarlo ardere lontano. Tutti avevano visto le ceneri sollevate e portate via dal vento, una vittoria contro la vita che a volte poteva essere bastarda, ma lo è solo per darti l’opportunità di trovare il tuo angelo e con lui la possibilità di redimersi e ricominciare.

E Miles fu per una volta felice di quel nuovo particolare dolore che sentiva nascere dentro accompagnato dalla commozione, sapendo che davvero la sofferenza poteva essere una cura, ma solo se proveniva dalle labbra di Andy, con quella voce e con quelle parole. Il coro si fece potente e si fuse alla tonalità roca di Andy, lasciando la vocalità femminile libera di emergere in alcuni frammenti per riempire le piccole pause.

La voce di Andy si staccò ancora, accompagnata dalla chitarra libera e dai colpi decisi di batteria, il coro che l’oscurava di poco.

 

Yeah!

 

L’assolo bellissimo gli diede un senso di felicità e serenità inspiegabile facendo vibrare ogni sua fibra, ogni cellula di innaturale soddisfazione e pienezza. Pianse di più, sorridendo e aprendo gli occhi proprio mentre le ultime note della chitarra si esaurivano, lasciando il posto alla sola voce del moro accompagnata dal suono solitario e limpido di un organo.

Si guardarono nelle iridi e Miles scoprì che anche l’altro aveva gli occhi lucidi di commozione.

 

I believe that we all fall down sometimes.

Yeah.

 

La voce sussurrò e l’organo si spense.

E tutto fu perfetto.

L’immobilità, il silenzio, le lacrime, il batticuore.

- Allora? Che te ne pare? - gli chiese Andy, la voce incrinata.

Gli si gettò istintivamente tra le braccia, stringendolo come mai in vita sua, poi se ne fregò altamente degli spettatori e gli prese il viso tra le mani, imprimendo un grosso bacio sulle sue labbra.

- È bellissima! - mormorò senza riuscire a dire altro. - È bellissima - ripeté e Andy lo fece girare in aria, sollevandolo per i fianchi.

Ebbe un’idea, fulmineamente: un tatuaggio. Avrebbe fatto sbocciare la rosa finalmente, ma pensò che i tatuaggi con i quali sarebbe tornato al cospetto di Andy sarebbero stati due.

- Grazie - mormorò sulle sue labbra, prima che il moro lo baciasse di nuovo.

 

 

Quando tornarono a casa fecero l’amore, più volte.

Miles avrebbe creduto di soffocare nei baci dell’altro, ma anche quello sarebbe stato perfetto.

Aveva pensato che sarebbe svenuto quando aveva sentito il cuore dell’altro battergli con furia contro la schiena, quando il moro l’aveva tirato a sedere, baciandolo.

Aveva creduto di morire, sentendolo sussurrare il suo nome, piano accanto al suo orecchio, mentre abbandonava la testa sulla sua spalla.

Era felicità quella che sentiva dentro.

Pura, trasparente, svincolata da ogni razionalità e da qualsiasi frammento del passato.

Finalmente era solo felice.

Non Miles, il ragazzo che aveva subito abusi dal suo patrigno, quello che faceva marchette per i ricchi, quello che si odiava, quello che aveva mandato a puttane la sua prima vera relazione, quello che era stato violentato, quello che aveva tentato di ammazzarsi.

Solo felice.

Iniziò a spezzettare le verdure, il solo grembiule addosso oltre l’intimo e la macchina fotografica accanto, in caso avesse dovuto immortalare Andy che sembrava particolarmente bello in quel momento, seduto su uno degli alti sgabelli della penisola, i capelli scompigliati e il gatto candido sulle gambe nude.

- Voglio fare un nuovo tatuaggio - gli confessò, aspettando di scorgere reazioni sul suo viso.

Andy lo sollevò per guardarlo: - Cosa? - inarcò le sopracciglia. - Davvero? - domandò lasciando scivolare giù il gatto e alzandosi. 

- Certo – rispose Miles e afferrò la macchina, scattandogli una foto una volta che si fu accomodato con i fianchi al piano cottura in mattonelle bianche, cogliendo proprio quell’espressione che tanto adorava in lui. Quegli occhi perplessi impreziositi dalle sopracciglia esili appena corrugate, adombrati dalla frangia lunga e voluminosa, gonfia e scarmigliata proprio per colpa delle sue mani che l’avevano accarezzata e arruffata fino ad un’ora prima.

Andy sorrise, scuotendo il capo: - E perché proprio ora? - chiese nuovamente, vedendo che l’altro non rispondeva.

- Voglio avere il coraggio di andare avanti, voglio imprimermi sulla pelle un monito… - Miles lo affiancò, posandogli le mani sui fianchi.- Quello di lasciarmi definitivamente il passato alle spalle e andare sempre avanti, perché la vita non aspetta chi perde tempo a commiserarsi e soffrire e la felicità non ce la regala nessuno. Bisogna cercarla e guadagnarsela - lo baciò a fior di labbra e tornò a sminuzzare le verdure, nel naso il suo profumo virile e naturale.

L’unico suono udibile fu il continuo battere del coltello sul tagliere.

Andy sospirò: - Adoro quando parli in questo modo. Mi sembra di vedere realmente attraverso i tuoi occhi -.

Miles levò l’attenzione verso di lui, stupito, e i loro sguardi si incontrarono. Andy osservò affascinato i giochi di luce nelle iridi dell’altro, screziate d’indaco e di pagliuzze viola scuro, simili a velluto liquido; la luce bianca vi si infiltrava facendo sembrare l’occhiata del biondo di un ghiaccio innaturalmente caldo, come della neve violacea al sole. Miles invece sentì subito il peso quasi insostenibile delle pupille oscure dell’altro, piccoli aghi in quel cielo d’estate racchiuso nei suoi occhi infiniti, schizzati della spuma bianca del mare e trafitti da piccole schegge di vento argenteo.

Si guardarono per una frazione di secondo, nonostante ad entrambi sembrarono trascorrere mille vite da quando l’ultima parola si era infranta tra di loro.

E dopo quella frazione di secondo, il biondo distolse fulmineamente il viso.

- Mi sono tagliato - sussurrò, guardando il sangue sgorgare piano dalla piccola ferita sull’indice.

- Vieni - Andy si avvicinò. - Ci penso io a curarti - gli prese il dito e se lo portò tra le labbra. Gli occhi di Miles si addolcirono ed ebbe l’ennesima illuminazione.

- L’hai già fatto- mormorò, sorridendogli dolcemente.

 

 

 

Fece male imprimersi quelle otto parole sulle cicatrici, ma poi si sentì libero.

Giusto, vero, guarito, salvo, felice, innamorato. 

Vivo.

E libero.

Finalmente pronto a cercare un futuro in quel mondo che l’aveva visto soffrire, pronto a guardare le persone negli occhi senza dover più nascondere nulla. 

Pronto a dimenticare il dolore, per sempre. Pronto a sognare.

Finalmente dotato del coraggio di vivere.

 

 

Quando tornò a casa non trovò il moro.

Lo cercò in ogni stanza, nella terrazza, ma non riuscì a trovarlo. Poi si ricordò della strana abitudine di Andy che emergeva quando si trovava da solo, in uno spazio chiuso; quasi un’agorafobia, ma dai connotati così romantici, così pieni di libertà, così Andy.

Uscì in giardino e lo scorse, la testa gettata all’indietro e il vento tra i capelli, le braccia puntellate dietro la schiena e le gambe a ciondolare nel vuoto.

I vicini e gli abitanti della palazzina non si erano mai lamentati di un ragazzo che saliva fino all’ultimo piano, sul terrazzo non del tutto praticabile e vi sostava per ore a scrivere, tuttavia Miles non credeva che ne fossero contenti. Lo raggiunse spuntando dalla cima della scalinata e l’altro sentendolo si voltò e si alzò in piedi. Andy si avvicinò con una corsetta, un sorriso splendido sul volto, uno di quelli che toglievano il fiato.

- Sapevo che mi avresti trovato - mormorò. - Allora?- domandò subito dopo, prendendo un tiro dalla sigaretta accesa. 

Miles sorrise impercettibilmente, sbuffando appena dal naso.

- Sei sicuro di volerlo vedere? - chiese, il ghigno sbarazzino.

- Certo! - esclamò l’altro, il sole che iniziava a tramontare alle sue spalle, illuminando la sua figura di una luce calda che si sposava con il nero lucido dei suoi capelli e con il pallore della sua pelle. Miles prese un respiro profondo e scoprì il polso dove un cerotto bianco faceva mostra di sé.

Guardò Andy negli occhi, riconoscendovi lo stupore.

- Lo hai fatto… - mormorò il moro e  lui lo interruppe, completando la sua affermazione.

- Sulle cicatrici - confermò. - Avanti. Stacca il cerotto - gli propose, guardando il suo viso chino sul suo braccio.

Andy lo fissò per un istante, poi fece come gli era stato detto.

E rimase senza fiato.

Quelle otto parole così preziose scorrevano sul suo polso in tre righe che nascondevano e incrociavano le due cicatrici verticali. Il corsivo elegante si intonava alla perfezione con la pelle diafana e con il bluastro delle vene.

- Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per me - mormorò facendo vagare gli occhi azzurri sulle iridi di Miles, dall’una all’altra. Sospirò: - Mi stai rendendo così importante, più di qualsiasi riflettore. Ed io non sto facendo nulla per te… - poi tacque. - E’ bellissimo – sussurrò infine, accarezzando la pelle circostante il tatuaggio.

- No, tu sei bellissimo - sorrise Miles - E devi non essertene accorto, perché invece hai fatto tutto per me - . Prese la mano che lo stava sfiorando tra le sue, stringendola. - Mi hai salvato - aggiunse, accarezzando il tatuaggio sul dorso del moro. - E anche tu mi stai rendendo importante, più di qualsiasi dolore, di qualsiasi passato -.

Andy lo guardò negli occhi, stupito dalle sue parole.

Questa volta non ebbe neanche bisogno di chiedersi se lo amava.

La risposta fu così chiara. Lo era stata fin dall’inizio.

Pose la fronte contro la sua, stringendolo forte, la mano con la sigaretta posata sul suo orecchio, l’altra avvolta a circondargli il collo; la sensazione delle mani piccole di lui sulla vita fu sublime. Alzò gli occhi al cielo e Miles si rifugiò sotto il suo mento. 

Le nuvole correvano nel firmamento come il cuore del moro; era così contento. Il fumo saliva in rivoli verso l’alto e tutto gli appariva velato del colore delle iridi di Miles, un mondo indaco e infinito.

Furono brividi quelli che sentì mentre inspirava il suo odore, mentre gli baciava i capelli e gettava la sigaretta. Lo guardò e le lacrime sgorgarono spontaneamente dagli occhi, senza che potesse impedirselo; gli prese il polso e lo baciò delicatamente, poi si abbassò al suo orecchio: - Ti amo - sussurrò.

E tutto fu perfetto come quelle due piccole parole.

I loro occhi, i loro tatuaggi.

La loro vita, il loro passato, il loro presente, il loro futuro.

Ogni ferita era perfetta come lo era ogni dolore, ogni sconfitta, ogni caduta.

Perché dopotutto tutti cadiamo a terra, a volte. Basta solo riuscire a rialzarsi, che sia incidendosi il coraggio sulla pelle o trovandolo sulle labbra di qualcun altro. Miles lo guardò dritto negli occhi e ad Andy parve davvero di scorgere tutto ciò che quelle iridi nascondevano, finalmente.

E tutto quello che vide fu il riflesso di se stesso e fu ciò di più bello avesse visto in tanti anni. Seppe per certo che in realtà il suo essere non valeva nulla se non riflesso in quegli occhi e ne fu felice. Felice di aver trovato la persona che avrebbe dato senso e pienezza alla sua vita. Miles sorrise dolcemente, osservando gli occhi lucidi dell’altro allagati dalla luce aranciata del tramonto.

L’ultimo tramonto per il biondo. La fine di ogni dolore, ogni tristezza, ogni ricordo; la fine delle paure, dell’odio, delle ferite, della solitudine.

Era stanco dei tramonti. Si stinse al moro, sospirando e voltandosi a guardare il sole che moriva all’orizzonte, immenso.

Ora aveva bisogno di un’alba.

Guardò Andy e seppe di averla trovata.

Per l’eternità.

 

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* la canzone utilizzata è "Lost it All" e appartiene ai Black Veil Brides.

  
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