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Autore: LilithJow    23/04/2013    5 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 19
"Unarmed"


In psicologia, si è soliti pensare che, dopo un evento catastrofico, si passi attraverso cinque fasi emotive, inevitabili, inesorabili, che stanno lì ad aspettarti, senza che tu possa fare nulla per evitarne anche solo una.
Sono fasi solitamente associate alla morte di qualcuno, alla sua scomparsa, ma io avevo sempre avuto l'idea che tali fasi sopraggiungessero in qualunque caso dopo la perdita di qualcuno, che fosse fisica o meno.
La morte non è l'unica cosa che fa allontanare due individui; è solo una ragione estrema. Prima di arrivare ad essa, ci sono innumerevoli motivi per i quali le persone se ne vanno, o ti spingono via, o spariscono senza un perché, o ti feriscono così profondamente da rendere impossibile una guarigione. E in quelle fasi ci passi comunque, anche se da qualche parte esiste un modo per aggiustare le cose, solo che il dolore è talmente grande da impedirti di trovarlo.

Negazione, rabbia, contrattazione o patteggiamento, depressione, accettazione.

Una dietro l'altra, nessuna via di scampo.

Io chi avevo perso? Praticamente tutto, compreso me stesso, anche se ero pressapoco sicuro di esser rimasto inchiodato tra la quarta e la quinta fase.

Per tre giorni, gli ultimi prima che le vacanze di primavera finissero, rimasi chiuso in casa; la maggior parte del tempo la passavo in camera mia Le uniche volte che osavo uscire da quella piccola stanza erano per via di mia madre, che mi costringeva a recarmi in cucina per buttare giù qualcosa e, per farlo, ero sempre costretto a indossare felpe ingombranti che riuscissero a coprire almeno in parte i segni viola sul collo; sarebbe stato molto più semplice mettere una sciarpa, ma avrebbe destato più sospetti.
Non avevo quasi mai fame, tuttavia mi sforzai di mangiare qualcosa, giusto per farla contenta, ma rimanevo nel più assoluto silenzio per tutto il tempo. Lei continuava a parlarmi, a farmi domande che le si ritorcevano contro.
Lo fece anche quella sera, a cena e, all'ennesimo mio mutismo, reagì. «Simon, accidenti!» esclamò «sto cercando di distrarti, ma rendi le cose terribilmente difficili!».

Abbozzai un sorriso, senza entusiasmo, rigirando con la forchetta la pasta al pomodoro nel piatto, che non avevo toccato più di tanto. «Grazie per il pensiero, mamma, però credo che niente funzionerebbe, ora come ora» sussurrai.

«Sono giorni che sei così giù, tesoro. Sei a pezzi e non mi parli. Di solito lo fai sempre».

«Non mi va di parlarne».

«Perché no? Potrebbe farti stare meglio». Fece una pausa, accarezzandomi amorevolmente il braccio. «C'entra qualcosa quella ragazza, vero? Johanna?».

Sospirai. «Come ho già detto, non mi va di parlarne».

«Oh, e invece ne parliamo. Ho capito quanto ci tieni. Direi parecchio e, credimi, queste cose riesco a sentirle, non solo perché sono tua madre. Però, tesoro, qualunque cosa sia successa, rimanere inerme al mondo non aiuta. Devi reagire. Cerca di sistemare le cose, se puoi. Oppure, se tutto è andato seriamente perso, cosa di cui dubito, va' avanti. Hai solo sedici anni, ci saranno altre ragazze che ti faranno battere il cuore allo stesso modo, se non di più».

Le sue parole erano ovvie e scontate. Qualsiasi persona, al suo posto, avrebbe detto cose del genere. Lo avrei fatto anche io, se si fosse trattato di una situazione del tutto normale. Del resto, presto o tardi, il dolore sarebbe svanito e avrei voltato pagina. Solo che non vi era nessuna situazione nella norma e sul mio corpo spuntavano sempre nuove cicatrici. Mi limitai ad annuire, serrando le labbra e lasciando perdere le posate e il cibo. Mia madre sospirò. «Non mangi più?» chiese.

«Non ho fame».

Fece una pausa. «Vuoi che parli io con Johanna? So essere molto convincente».

Mi venne quasi da ridere. “Certo, mamma. Chiedile se, per favore, può non tentare di uccidere nuovamente tuo figlio e, già che ci sei, di non sacrificarlo in un nome di un Creatore che assomiglia al Diavolo, se non è peggio. E, sì, dai il meglio di te”.

«No, grazie» replicai, in tono brusco, pur non volendolo. Purtroppo, non riuscivo più a controllare bene le mie sensazioni e il mio modo di pormi.

Mi alzai da tavola senza chiedere il permesso, cosa che di solito facevo quasi sempre, per abitudine, e corsi in camera, chiudendo la porta alle mie spalle, a chiave, come se quella fosse una difesa sufficiente e, soprattutto, utile.
Non avevo altri metodi. Non avevo nulla, non ero nulla; solo un semplice umano buttato in qualcosa di eccessivamente grande, titanico. Continuavo a sentirmi debole, come quello che doveva sempre esser protetto. Era andata così sin dall'inizio, se mai Hazel avesse mai voluto effettivamente proteggermi.
Le cose dovevano cambiare. Io dovevo cambiare, altrimenti, sarei definitivamente crollato e niente e nessuno sarebbe riuscito a ricomporre i miei pezzi.

Mi tolsi di dosso la pesante felpa blu e la gettai distrattamente sul letto. Se dovevo reagire, tutto avrebbe dovuto accadere in modo repentino, quasi istantaneo, perché le incertezze e insicurezze mi avrebbero solamente danneggiato ulteriormente.
Afferrai il cellulare abbandonato sulla scrivania, tra libri e fogli sparsi, e mandai un messaggio a Tamara. Poche parole, con le quali le chiedevo di venire a casa mia. Lei era di gran lunga più esperta di me in più o meno tutto e da qualche parte dovevo pur iniziare. Per un attimo, mi balenò in testa l'idea che declinasse quella mia richiesta, per via del bacio e dell'imbarazzo seguente, ma la sua risposta dopo solo qualche secondo cancellò ogni paranoia.

La ragazza dai capelli rossi fu nella mia camera dopo circa quaranta minuti. Feci in modo che scampasse agli sguardi di mia madre in cucina e riuscii nell'intento.

«Bella stanza» esclamò Tamara, stringendo la cinghia della sua borsa a tracolla. «Già» replicai, distrattamente e le feci cenno di sedersi da qualche parte. Optò per la sedia girevole della scrivania. Io rimasi in piedi, muovendo qualche passo privo di logica.
Non sapevo bene come cominciare il discorso. In realtà, ero partito in quarta, senza prepararmi le giuste parole da dire. Quindi esitai, per qualche istante, stringendo i pugni. Lei, tuttavia, non era il classico esempio di persona che amava stare in silenzio, per cui, mi precedette. «Senti, riguardo...» disse «Riguardo all'altro giorno...».

«Facciamo finta che non sia successo nulla, okay?».

«Okay, per cui... Tutto risolto. Insomma, non...».

«Lasciamo perdere quel bacio, d'accordo? E' capitato, tutto qui. Andiamo avanti».

«Oh... Pensavo mi avessi detto di venire qui per questo».

«No, non è per questo».

«E per cosa, allora?».

Mi fermai di scatto, serrando la mascella. «Ho bisogno del tuo aiuto».

«Aiuto per fare cosa?».

Strinsi i pugni, così forte che percepii le unghie infilzare i palmi. «Per abbattere Hazel... E Sebastian».

Tamara sgranò gli occhi e la sua perplessità non mi sorprese. Probabilmente, ai suoi occhi ero ridicolo o, forse, lo ero per davvero. «Ho sentito male oppure mi hai appena detto che vuoi distruggere la ragazza che pensi di amare?» esclamò.

«Hai sentito benissimo».

«Perché vorresti farlo?».

«E' una minaccia. Per me, per le persone a cui voglio bene, per il mondo intero. Vuole risvegliare il Creatore dei Divoratori, per farlo necessita di un sacrificio umano. Io ero il sacrificio. Ecco perché abbiamo litigato, se si può definire così una cosa del genere».

«E Sebastian?».

«Ha ucciso centinaia, se non migliaia di persone innocenti. Mi sembra una ragione piuttosto valida».

«A me sembra una follia. Con tutto il rispetto, Simon, queste sono creature che girano sulla Terra da anni ed anni. Sono esperte, hanno mille combattimenti alle spalle e...».

«Beh, io ho te».

Lei abbozzò un sorriso che non sembrò essere troppo di circostanza. «Non è la stessa cosa» mormorò, poco dopo.

«Perché no?».

«Perché posso benissimo tenere a bada un Divoratore, ma se fossero di più? Tipo... Un esercito? Hai presente me e te contro un esercito?».

«Hai sempre proclamato di essere una strega potente».

«Lo sono, infatti, ma...».

«Ti prego, Tamara. Sei l'unica che può aiutarmi, altrimenti dovrò andare avanti da solo e non so se posso riuscirci».

Si alzò in piedi, muovendo qualche passo nervoso per la stanza. Poggiò le mani sui fianchi, stropicciando con le dita la camicia a scacchi rossa che indossava. Non sembrava essere molto convinta. Del resto, se avessi avuto una conversazione del genere con me stesso, sarei scoppiato a ridere e, se lei lo avesse fatto di lì a poco, sarebbe stato del tutto comprensibile.
Non ero propriamente credibile come il ragazzo che diventa un eroe e si accinge a combattere una schiera di Divoratori di Anime. No, non lo ero per niente, sebbene la parte meno coscienziosa di me mi stesse convincendo del contrario.

«Hai già un piano?» disse lei ad un tratto, sebbene sembrasse ancora titubante. Mi lasciai scappare un sorriso, per la prima volta, dopo parecchio, ricalcato da un briciolo d'entusiasmo.

«Il pugnale» esclamai. «E' l'unica cosa che può uccidere un Divoratore, quindi direi che dobbiamo procurarcene uno».

«Sai quanto è raro? Fino a qualche settimana fa, nemmeno sapevo esistesse».

«Ma esiste. Sebastian ne ha uno e dubito che sia l'unico esemplare».

«Se fosse l'unico?».

«Beh, in tal caso, troveremo un'altra soluzione».

Da dove veniva poi tutta quella calma che d'improvviso mi investì? Riuscivo a ragionare lucidamente – nei miei limiti, ovviamente – e addirittura a rasserenare Tamara. Mi sarei aspettato una situazione ribaltata.
Tuttavia, molto probabilmente, quella era tutto apparenza, dovuta ad una scarica di adrenalina o qualcosa del genere. Dovevo approfittarne, finché l'effetto sarebbe durato.

«D'accordo, posso... Iniziare a cercarlo, allora» disse Tamara e io annuii di riflesso. «Oh, e un'altra cosa...» aggiunsi.

«Cosa?».

«Ho bisogno di un tuo incantesimo per tenere Hazel lontana da me».

Tamara scosse appena la testa. La mia convinzione era andata fin troppo oltre e ne ero ben consapevole. «Ne sei sicuro?» domandò lei.

«Ne sono sicuro».

«Se piazzo un incantesimo su di te, Hazel non sarà più in grado di trovarti».

«Non voglio che mi trovi, non per adesso. Fallo, ti prego e... E anche per Sebastian. Abbiamo bisogno di tempo».

«Dovrò pensare a qualcosa di nuovo. Quello presente su casa di Martha è fin troppo vulnerabile».

«Quel che vuoi».

Senza rendermene conto, le mani avevano iniziato a sanguinarmi. Avevo stretto così forte la presa da riuscire a ferirmi e, fino a quel momento, non provai nemmeno dolore. Non fisico, perlomeno.
Quando realizzai ciò che era successo, mi voltai di scatto, cercando di ripulire il liquido rosso con il quale mi stavo imbrattando con qualunque cosa mi capitasse a tiro, come la felpa che poco prima avevo addosso. Tamara, nel frattempo, si spostò lenta al mio fianco. «Meglio che disinfetti tutto» sussurrò.

«Non è niente» replicai, secco.

Fece una pausa e la sentii sospirare. «Non devi farlo per forza» continuò, a bassa voce. «Puoi ancora chiarire e...».

«Ha cercato di uccidermi» la interruppi, bruscamente. Era la prima volta che trovavo il coraggio di dirlo ad alta voce. «Hazel ha cercato di uccidermi l'altro giorno, nell'ascensore di casa tua. Non c'è assolutamente nulla da chiarire».

Scossi appena la testa, abbandonando nuovamente la felpa, ormai sporca, sul letto. Mossi qualche passo distratto per la stanza, dando le spalle a Tamara, che, nel frattempo, non si spostò di un millimetro. «Mi dispiace, Simon» la sentii sussurrare. Sorrisi e, quella volta, con ironia. «Non farlo» dissi. «Non dispiacerti. Sono stufo delle gente che mi compatisce».

«Non è compassione. E' solo che nessuno meriterebbe di essere tradito e trattato in questo modo».

Avrei voluto replicare in qualche modo, ma non dissi nulla. Strofinai le mani sopra i pantaloni della tuta e cambiai drasticamente argomento. «Puoi provvedere all'incantesimo, per favore?» dissi, voltandomi. Tamara annuì, distrattamente.
Il punto di svolta era arrivato. Ero davvero deciso a cambiare, sebbene nessuno mi avesse detto che combattere il dolore ne provocasse altro, più profondo e più lancinante. Affrontandolo, venni investito dalla realtà dei fatti, dalle scomode e taglienti verità e da consapevolezze che avevo sempre cercato di evitare.
Ma si trattava della mia vita, del resto, e dovevo trovare un modo per sopravvivere. Come mi aveva detto mia madre, rimanendo inerme al mondo, avrei finito col diventarne succube.

  
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