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Autore: Siena96    24/04/2013    0 recensioni
.. Ogni notte lo sognai, sognai di stringerlo fra le braccia, di ritornare ancora una volta da lui..
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Avevo perso mia madre quando ero ancora una bambina, avevo 5 anni. Credevo fosse partita come mio padre mi aveva detto quando un giorno gli chiesi “Papà, ma mamma dov’è?”, e che sarebbe presto ritornata da quel viaggio, un viaggio che scoprì solo dopo, essere un viaggio senza più ritorno.

Persi mia madre per un tumore, e subito dopo anche mio padre per la sua codardia. Rimasi sola, intrappolata tra i muri di un orfanotrofio, avevano portato via anche mio fratello, il mio Jason, chi sa dov’era, chi sa dove si trovava, in quale luogo sperduto del mondo. Non ebbi mai sue notizie, quello che so è che si fece protagonista di ogni mio sogno. Ogni notte lo sognai, sognai di stringerlo fra le braccia, di ritornare ancora una volta da lui, sognai di rivedere mia madre, mio padre, sognai esattamente la stessa scena per undici lunghi anni, undici anni che sembrarono una vita.

Le mie compagne d’orfanotrofio scarseggiavano, ogni settimana, ogni mese, ogni anno sempre di più e una grande malinconia inondava il mio cuore, come se volesse ricoprirlo con una sorta di velo da cui non trapelavano emozioni. Tutti andavano via, nuove famiglie pronte ad attenderle impazienti, ad attendere tutte le mie “compagne di vita”, tranne me. Accadde tutto questo per undici anni, fin quando arrivò anche il mio turno, la volta di abbandonare anch’io quell’incubo che aveva infestato la mia infanzia, quando finalmente vidi oltrepassare quel grande cancello scuro da un ragazzo dall’aria familiare, appena incrociai il suo sguardo, appena i suoi occhi penetrarono i miei fu come se quel velo che ricopriva il mio cuore da anni non fosse mai esistito, sentì esplodere il mio cuore, e sentì nella gola un nodo così grande da non aver neanche il coraggio si aprire bocca per proferir parola. Era Jason, era mio fratello, il protagonista di ogni mio sogno che mi aveva riempito fino a quel giorno, era lui, ed era venuto a prendermi.

Appena mi vide mi riconobbe subito, come se fossi stata con lui per tutto questo tempo, come se fosse stato lui a crescermi, riconobbe i miei occhi verdi identici ai suoi, o forse riconobbe i miei capelli mossi color castano-biondi con cui da piccolo si divertiva a giocare, ma fatto sta che mi riconobbe e subito mi venne incontro, e come nessuno aveva mai fatto durante gli anni che trascorsi in quel posto, mi abbracciò forte, sentì le sue braccia avvolgere il mio corpo minuto e fragile, sentì il suo profumo inondarmi, e sentì per la prima volta il mio cuore riempirsi del suo e ricominciare a battere. Fu il più bel quarto d’ora della mia vita, ma la direttrice dell'orfanotrofio, la signora Agnes Vestavik, interruppe il nostro ritrovarci, e con quella voce da cui non sembravano trapelare emozioni, quasi come se non ne avesse, lo chiamò.

- Signor Robinson, mi segua nel mio ufficio, abbiamo tanto di cui parlare.-

Jason la seguì subito dopo avermi dato un bacio svelto in fronte, non so tutt’ora cosa si dissero, so soltanto che quello fu il mio ultimo giorno che passai in quella prigione. Una delle suore, Suor Bernardette, che ci accudiva, mi accompagnò nella mia stanza esostandomi a preparare le valigie. Riempì quel borsone in fretta e furia, mettendoci alla rinfusa quei quattro stracci che avevo ereditato dalle ragazze più grandi. Scesi la rampa di scale che divideva il piano di sopra al piano terra frettolosamente vedendo mio fratello aspettarmi seduto su una poltrona sudicia. Lo vidi alzarsi e venirmi incontro per liberarmi dal peso del borsone e abbracciarmi ancora. Non potevo ancora crederci, vedere mio fratello lì, dopo ben undici anni. Il ricordo del suo viso non aveva mai abbandonato il mio cuore. Era come se quegli undici anni non fossero mai esistiti, come se lui fosse stato sempre al mio fianco per tutto questo tempo.

Mi portò alla macchina e mi accompagno allo sportello, prima di farmi salire a bordo mi abbracciò calorosamente ancora,

- mi sei mancata tanto angelo mio, non immagini quanto abbia aspettato questo momento. -

Queste furono le parole che mi sussurò all’orecchio con voce tremante. Non ebbi la forza di rispondergli, nemmeno una parola, come se l’avessi persa chi sa dove, in qualche parte sperduta del mondo. Salì a bordo di quella macchina blu profondo, e messa a moto guardai con profondo entusiasmo l’allontanarmi da quel posto maledetto. Passarono ben tre ore di viaggio prima di arrivare a destinazione. Un alto palazzo piuttosto vecchio nei pressi di Oslo, in Norvegia. Jason scese per primo dall'auto per poi invitarmi a scendere e aprendo il portone del palazzo di fronte. Salì ben trenta gradini prima di arrivare alla porta con su scritto “ Robinson”. Jason inserì le chiavi nella serratura arrugginita, aprì la porta e mi fece segno di entrare sorridendo, - puoi sistemarti qui se vuoi, scusa il disordine ma sono solo e sono sempre a lavoro - dopo queste parole mi diressi verso la fine del corridoio bianco e spoglio, entrai nella stanza indicata da mio fratello, era, vuota. Un letto e una vecchia scrivania era tutto ciò che ornava quella stanza. C’era una finestra, rotta. Entrava uno spiraglio d’aria fredda che mi avvolse il corpo e che lo fece rabbrividire.

Sistemai la mia roba in un cassetto sotto il letto e mi ci sedetti sopra. Era morbido, tanto diverso da quello dell’orfanotrofio, era come quello che avevo da bambina, si lo ricordo ancora. D’un tratto vidi apparirmi d’avanti i ricordi di un’intera infanzia. Le feste di compleanno, i ringraziamenti tutti insieme, il Natale. Mi venne in mente il ricordo di mia madre svegliarmi la mattina di Natale con un entusiasmo che avrebbe fatto invidia anche ad un bambino. Ricordai la dolce voce di mia madre quando la sera veniva a rimboccarmi le coperte cantandomi la solita canzoncina per cui io andavo pazza.Mi venne in mente anche mio padre, prima che scappasse via da me e da Jason, ricordai tutta la codardia che nascondeva nei suoi occhi, ricordai vederlo oltrepassare la porta e non rientrarci mai più. I ricordi riempirono i miei occhi, e come una diga che si rompe per la troppa acqua, dai miei occhi iniziò a sgorgare quell'acqua salata a me tanto famigliare. Sentì mio fratello chiamarmi, tutto si annullò.

- Jennifer - accorsi a lui, - mangia qualcosa e poi riposati un po', dovresti essere stanca. - mi sedetti su quello sgabello di legno e senza parlare iniziai a mangiare uno dei yogurt sparsi sul tavolo senza neanche guardare il gusto. Ero ancora scossa da quello che stavo vivendo. Ero finalmente fuori da quella trappola, sembrava un sogno ma stranamente era pura realtà. Jason mi guardava incantato, come se proprio davanti a sé ci fosse davvero un angelo, mi osservava in tutti i miei particolari, incollando poi i suoi occhi ai miei senza dir parola. I suoi occhi cangianti incantarono anche me, passammo lunghi minuti ad osservarci, a scutare ogni notro lineamento, perfino il taglio della bocca. Tutto quello che avevo pregato di avere era finalemente arrivato, come quando a Natale i bambini scrivono la lettera per Babbo Natale sperando gli porti quello che desiderano. Beh, a me portò mio fratello, anche se un po' in ritardo. Il suono di una campana interruppe il nostro scrutarci, Jason scosse la testa per poi alzarsi. - Jen perdonami – mi disse voltandomi le spalle. - Perdonami per averti abbandonata, ma ti ho sempre avuta nel cuore, il tuo ricordo è sempre stato presente in me, tu sei sempre stata dentro di me,non mi hai mai abbandonato ed io non ti ho mai dimenticata, non ho mai dimenticato il mio piccolo angelo.- La sua voce si fece sempre più tremante, faceva fatica anche a parlare, mi alzai e mi avvicinai a lui, lo abbracciai forte, e anche lui lo fece, come se i nostri corpi da un momento all'altro potessero unirsi. Lo guardai negli occhi, poi gli diedi un bacio. Vidi per la prima volta piangere mio fratello, e non perchè voleva gli venisse comprato il solito giocattolo. Vidi mio fratello soffrire proferendo quelle parole e subito sentì una sensazione di soffocamento, mi sentì come se fossi stata io a causare tutto quel dolore. Jason si asciugò il viso con la mano, - Ti prometto che non ti lascierò mai più andare via. - mi disse, poi si avviò alla porta e uscì di casa senza spiegazioni.

Feci un giro della casa, perlustrando ogni stanza nei minimi dettagli, mi affacciai al balcone e vidi un sacco di gente camminare frettolosamente, come se fossero in ritardo nel fare qualcosa. Osservai i muri spogli di ogni stanza, le poche cose che ornavano quella casa. Nemmeno un quadro. Niente.

La prima notte che passai in quella casa la passai senza chiudere occhio fissando un punto qualsiasi della parete, forse per paura che se mi fossi addormentata al mattino avrei fatto l’aspra scoperta di aver solo immaginato tutto quello, svegliandomi su quel freddo letto dell’orfanotrofio con le suore che mi incitavano ad alzarmi per vestirmi ed iniziare le lezioni. Erano le sei e trenta del mattino, iniziai a sentire rumori nella stanza affianco, Jason si era svegliato, forse neanche lui aveva chiuso occhio. Mi precipitai da lui e per la prima volta ebbi il coraggio di parlare, - dove stai andando? – mi guardò come un bambino guarda la sua mamma – vado a lavoro tesoro, la baracca purtroppo non va avanti da sola, e poi hai bisogno di una scuola, ho intenzione di iscriverti in una delle scuole migliori di questo paese – lo guardai ancora, guardai i suoi capelli neri disordinati, i suoi meravigliosi occhi verdi, ammirai le sue spalle larghe e il suo largo torace, i suoi muscoli, il suo torso nudo. Lo ammirai in tutta la sua bellezza, era esattamente come l’avevo sempre immaginato, era come nei miei sogni, era spudoratamente perfetto. Si vestì e uscì. Rimasi sola, sola insieme al quell’insolito silenzio rumoroso. Iniziai a frugare tra le carte, presi il giornale che era posato sopra la tavola e iniziai a sfogliarlo fino alla pagina degli annunci di lavoro, di lavori ne era pieno, ma io di requisiti richiesti non ne avevo neanche uno. Così iniziai a chiamare i numeri segnati sotto ogni annuncio senza speranza e con scarsi risultati. Tutti con la stessa risposta. “Abbiamo bisogno di personale qualificato con precisi requisiti.” Requisiti che una ragazzina di sedici anni non poteva avere avendo passato maggior parte della sua vita in un collegio. Chiamai infiniti numeri di infiniti annunci per ben sei giorni senza alcun risultato. I giorni sembravano tutti uguali. Jason che si alzava alle sei e trenta del mattino e ritornava stremato alle undici della sera ed io che cercavo disperatamente un lavoro con cui poter aiutare mio fratello. Avevo scoperto che lavorava in un pub, aveva una paga misera. Guadagnava duecento corone norvegesi. Niente in confronto a quanto si pagava per un mese di affitto. Alcune sere non tornava neanche a casa, straordinari su straordinari che lo provavano continuamente. Quando tornava a casa era così stanco che non aveva neanche la forza di mangiare. Arrivava a casa e subito coricatosi a letto, veniva risucchiato da un profondo sonno. Non aveva una giornata libera. Tutto questo mi uccideva. Vedere mio fratello provato da tutto quel lavoro, per me. Per garantirmi un futuro. Tutto questo dolore mi divorava il cuore.

  
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