Come accadeva sempre, prima di uno spettacolo, il pianista silenzioso
si
avvicinava allo strumento, sfiorava i tasti carezzandoli con la punta
delle
dita e, placido, si sedeva sul seggiolino.
Posizionava infine lo spartito, anche se ormai conosceva le melodie
dello
spettacolo meglio di quanto conoscesse se stesso.
Aveva composto lui la musica, scritto e creato ogni singola nota.
Non si giudicava certo un talento o un Maestro, era semplicemente
l’unica cosa
che sapeva fare. La sua vita iniziava e finiva con un pianoforte, non
vi era
nient altro che potesse offrire. Al contrario, era stata la vita ad
aver
offerto a lui qualcosa in più oltre la musica.
Un palcoscenico.
Scoprì che quel luogo, tra la platea e il palco, sarebbe
stato il suo unico
rifugio. La sua casa, munita di due grande finestre.
Da una parte vi erano i passanti. Dall’altra i teatranti.
I passanti erano spesso più eccentrici degli attori che
regnavano il palco.
Eleganti e agghindati, colmi di fronzoli e paroloni che scivolano fuori
con fin
troppa facilità dalle loro bocche.
Non era sicuro che tutti i passanti capissero cosa fosse un teatro,
cosa fosse
un palcoscenico.
Vi erano svariati modi di osservare e, bisognava dirlo, non tutti
sapevano
farlo.
Anche in passato, lui, osservava da una finestra. Una piccola finestra
nella
sua camera, uno sbocco verso la strada in cui viveva.
A quell’epoca non usciva mai di casa. Suonava. Quando voleva
riposare le dita,
semplicemente voltava il viso e osservava le persone riversarsi nelle
strade.
Frettolose o pensierose. In compagnia o da sole.
Spesso le spiava prima di iniziare a suonare, per poi muovere veloce le
dita
sui tasti e creare per ognuno di loro una melodia diversa.
Tutto questo finché un giorno un uomo bussò alla
sua porta.
Aveva un cilindro in testa, un cappello consunto, probabilmente di
seconda
mano.
Gli piacque fin dal primo istante.
Non seppe cosa offrigli, perché lui non aveva mai ospiti.
Quello si limitò a parlare della sua compagnia teatrale,
della capacità dei
suoi artisti di far commuovere le persone, della bravura che aveva
udito dalla
strada, e di come la sua musica fosse riuscita ad ammaliarlo e
imprigionarlo.
L’uomo gli disse che lo voleva. Voleva lui e il suo talento.
Quest’affermazione lo stupì oltremodo,
perché nessuno aveva mai avuto bisogno
di lui. Non con così tanta bramosia e desiderio.
Studiò i suoi occhi, sembravano ardere. Per la prima volta
nella sua vita sentì
di poter essere qualcosa di più di uno spettatore
della strada.
Forse anche lui avrebbe fatto parte di qualcosa?
Si chiese che ruolo potesse avere un pianista piatto e scialbo, in una
compagnia di grandi artisti.
Il palcoscenico.
La piccola strada che aveva osservato per anni dalla sua finestra non
era
assolutamente niente confrontata alla maestosità del
palcoscenico.
Chiese all’uomo col cilindro di poter usare il suo
pianoforte. Una squadra di
trasportatori andò a recuperalo a casa sua e lo mise nel
teatro.
Tra la platea e il palcoscenico.
Anche quel giorno si sentì importante. Quasi essenziale.
Fu strano, perché era sempre stato il suo pianoforte ad
essere essenziale. Non
lui. Mai lui.
L’uomo che l’aveva fatto arrivare fin
lì, lo guardò raggiante. Batté una
mano
sul legno lucido dello strumento e gli disse:
“Questa è la tua arma.
Ora combatti e
inizia a creare.”
Detto questo, sparì dietro le quinte.
Rimase a lungo in piedi accanto al pianoforte, intento a riflettere sul
significato di quelle parole.
Aveva sempre combattuto con quella sua arma.
Eppure non era mai uscito dalla sua stanza.
Era un osservatore. E tale era rimasto.
Truccati e abili, gli attori recitavano e si muovevano sinuosi calcando
la
scena.
Ognuno aveva la propria parte ben definita, un copione che
però lasciava sempre
spazio all’improvvisazione.
Scorgeva le lacrime nelle scene drammatiche.
Virma, la prima attrice, lei non fingeva mai. Lei era.
Non avrebbe permesso a nessuno di dettare regole sulla sua parte. Se
lei rideva
in scena, lei doveva essere felice.
Se piangeva, dai suoi occhi sgorgavano vere lacrime. Lacrime di
disperazione e
frustrazione, una prova vera e tangibile di qualcosa nascosto nelle
profondità
del suo animo.
Lei era magnifica.
Lei era musica per gli occhi.
Si apriva il sipario, la scena era sua. Tutti gli occhi erano puntati
su di
lei.
Non aveva bisogno di leggere lo spartito quando suonava per la sua
parte.
Lei era lo spartito, a lui bastava guardarla per far sgorgare le note
dalle sue
dita.
Era lei che creava. Lui era il suo strumento.
Tutti gli anni che passò nella compagnia dell’uomo
dal capello a cilindro, li
passò ad osservare gli attori e i passanti. Li
passò ad osservare lei.
Viveva nelle loro movenze, nelle loro battute, nella loro
disperazione.
Viveva per guardarla e non avrebbe mai osato di più.
Quando gli applausi esplodevano, il regista esigeva che salisse sul
palco, che
si inchinasse insieme agli attori, e a volte il pubblico gli lanciava
anche
delle rose. Qualcuno lo cercava persino per stringergli la mano, per
dirgli che
un talento come il suo raramente era stato incontrato.
Gli chiedevano dove avesse studiato, quali fossero i suoi maestri.
Domande che
lo mettevano sempre in imbarazzo perché
l’osservare la vita, quello, era il suo
unico talento. Il suo unico maestro.
Spesso gli attori si avvicinavano al suo piano durante le prove. Lo
sfioravano
come fosse un oggetto magico. Qualcuno si prendeva la
libertà di schiacciare
qualche tasto, sorridendo poi per il suono sgraziato che ne fuoriusciva.
“Come vorrei possedere il tuo talento!” dicevano.
E lui sorrideva, ma non capiva.
Virma, lei era l’unica che non lo avvicinava.
Sfuggiva il suo sguardo, scompariva dietro le quinte ad ogni pausa,
evitando di
passargli accanto.
Non ci fu mai un complimento da parte sua, non una parola lusinghiera.
Non che
lui pensasse di meritarsela, perché lei, Virma, lei sola era
il vero talento.
Lui rappresentava il suo strumento, esattamente come il pianoforte lo
era per
il pianista.
“Forse dovresti pagare il biglietto, come tutti gli
altri.”
Furono le prime parole che Virma gli regalò, un giorno.
Erano passati ormai quattro anni dal suo arrivo nella compagnia, e lei
sembrò
accorgersi di lui solo in quell’istante.
“Sei così bravo ad osservare inerme senza fare
niente. Persino il pubblico in
platea è più partecipe. Del resto è
questo che si richiede all’arte, giusto?”
La sua voce era bellissima, ancora una volta ne restò
ammaliato.
“Uno scambio reciproco. Cerchiamo risposte anche in chi ci
sta guardando.”
La osservò avvicinarsi, i suoi movimenti erano lenti ed
eleganti.
“Il teatro, come qualsiasi altra forma d’arte,
serve a mostrare quale
scandaloso miracolo sia l’uomo.
Noi siamo contemporaneamente uno scandalo ed un miracolo.”
Le sue dita affusolate sfiorarono per la prima volta il legno nero,
lucido, del
pianoforte.
Chiuse gli occhi un istante, e per un fugace attimo gli
sembrò quasi possibile
poter sentire quel flebile tocco sulla sua pelle.
“Tu cosa sei?” chiese lei
“Uno scandalo o un miracolo? Molti ti definiscono un miracolo
per il tuo
portentoso talento. Ma qual è il tuo talento?” -
la vide sorridere mentre lo
guardava negli occhi. Quello sembrava decisamente un miracolo.
“Ce l’hai una storia, silenzioso pianista? O la tua
vita si basa solo su
questo: accompagnare le vite degli altri, creando su di loro la tua
melodia?”
Stavolta fu lui a sorriderle. Anche lei sapeva osservare.
“Non è mai stata la mia storia.”
– si limitò a sussurrarle in risposta –
“È la
tua. È la vostra. Non è mai stata mia.”
Lei rimase in silenzio e lui capì che la sua risposta non
l’aveva per niente
soddisfatta, ma più di questo, davvero, non poteva darle.
Passarono giorni, mesi e anni.
Lo spartito con trascritte le note da lui stesso create,
diventò superfluo.
Invecchiava, ma non la sua memoria.
Le persone erano sempre state la tela bianca su cui creare le sue
melodie.
Erano in corso gli ultimi frenetici preparativi. Attori agitati
correvano di
qua e di là per il teatro. Dietro le quinte e nei camerini
vi era un gran da
fare.
Osservò Virma, bella come un angelo, una Regina che
passeggiava nel suo
palazzo. La faccia colorata di bianco, il rossetto marcato creava le
sue labbra
a forma di cuore.
“Sai di cosa parla questa storia?”
La domanda lo stupì.
“Sono rimasta chiusa in un Castello per oltre metà
della mia vita.”
Aveva gli occhi lucidi.
Era la Regina, era già nella parte. Quella era la sua vita.
E lui la stava osservando.
“ Ho perso l’unico uomo che
amavo e ho permesso alla
vita di scivolare lontano da me. Tra le braccia di mia sorella. Lei ha
amato,
ha vissuto, fiera è tornata a casa, portando nel grembo
quelli che saranno i
miei nipoti.”
Puntò gli occhi in quelli incantati di lui.
“Improvviserò fino alla fine, suona per me. Suona
senza smettere di guardarmi.
Rendi mie le tue mani. Rendi tua la sofferenza. Perché tale
è.”
Così la Regina narrò del suo viaggio mai
iniziato. Dei mezzi e le possibilità
perdute, le occasioni mai raccolte.
Le lacrime solcarono il volto pallido di Virma, la musica del piano
riempiva
tutto il teatro, i passanti erano
senza fiato, raccolti intorno al dolore della Regina protagonista.
Gli occhi del musicista erano intrappolati sulla figura sul palco.
Non aveva mai sentito quel calore, ma adesso sentiva di perderlo.
Non è la mia storia. È
la tua.
Aveva sentito un attore recitare la parte di un pittore: “Con
che colori
rappresenteresti la tua vita?”
Un nota gli era sfuggita, un accordo andò storto. Solo Virma
sembrò
accorgersene, anche quella volta la vide sorridere.
Era forse anche lui un pittore. Un
pittore che si limitava a colorare le vite degli altri.
Virma si accasciò in ginocchio sul palco.
Sollevò il viso, gli occhi liquidi puntati sul pubblico. La
luce illuminava
ogni cosa di lei.
Prima tra tutti la sua sconfitta.
I suoi occhi si spostarono sul pianista.
La melodia spezzata, preambolo di morte, riecheggiava
nell’animo di entrambi.
Successe per la prima volta, la prima volta nella sua esistenza.
Era sul palco anche lui, ora ne faceva parte davvero. Non
più un accompagnamento,
ma una passione condivisa.
Lei era lui. Lui era lei.
Sentì bruciare gli occhi, e Virma, la Regina,
pronunciò la sua battuta finale.
“Il calore della vita, raffreddandosi, si fa
cenere.”
E lui osservò la Regina morire. Raffreddarsi, insieme a
tutta la sua esistenza.
Piccole noticina che potete anche non
leggere:
Questa storia avrebbe dovuto nascere come una Nonsense per partecipare
poi ad
un contest (incentrato, appunto, sul genere Nonsense) sul forum di Efp,
indetto
da (Gaea).
Come si può facilmente intuire, questa non è una
Nonsense. Era nata nella mia
mente come tale, ma poi ha preso una strada tutta sua.
Ho scritto la storia di getto, lasciando libero sfogo alle parole e
alle
immagini nella mia mente, finendo così col discostarmi
totalmente dal tema del
contest.
Malgrado tutto, decisi di inviare lo stesso il mio elaborato.
Devo ringraziare ancora il giudice per aver perso tempo a leggere una
storia
decisamente fuori tema col concorso, e per avermi comunque lasciato un
giudizio
che mi ha riempito davvero di sommo piacere.