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Autore: romiee    28/04/2013    2 recensioni
Chi è Thomas Cromwell?
“Un traditore”
[10/06/1540 – 28/07/1540]
È l’Inghilterra di Enrico VIII. È l’Inghilterra dei soprusi, delle scelleratezze, dei complotti. È l’Inghilterra in cui bisogna camminare con gli occhi rivolti verso ciò che precede le spalle. È l’Inghilterra in cui nessuno è vostro amico, bensì un ragno capace di tesservi la tela contro.
Thomas Cromwell viene imprigionato con l’accusa di tradimento e riposto, con la stessa noncuranza di un oggetto, all’interno della Torre. È un’estate torrida, che non lascia scampo ai raccolti, distruggendo gran parte della ricchezza alimentare inglese.
La pioggia sembra non voler avere a che fare con quelle nefandezze. Essa si ritira con atteggiamento monolitico. Si ostina con un gesto ieratico a non mondare quella terra. Dentro la torre, un uomo i cui giorni paradossalmente paiono susseguirsi rapidamente con una distinta ansia che s’incrementa ogni indolente rintocco d’ora.
Sono in corso delle MODIFICHE.
REVISIONE DEL PRIMO CAPITOLO.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Introduzione
Voi siete di pietra, strascicavano ad ogni mio passo.




Capitolo 1
10/06/1540 : Le ore tra il pomeriggio e la sera.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Cesare Pavese
 
 
Una fiacca luce rossiccio-aranciastra s’irradia al di là delle sbarre che compongono l’imposta, le cui misere dimensioni lasciano intravedere una minima parte della città londinese su cui s’affaccia. A quest’ora, la luce ramata è un abbaglio. Essa si riflette sul grigiore appassito dei muri, scoprendone la senilità delle loro membra, ormai deteriorate dagli anni. È anestetico questo luogo. Pensare respirando l’aria rarefatta di cui si costituisce è simile ad arrischiarsi dell’acqua in pieno deserto. Sa di terra arsa quest’ambiente. Mi blocca le vie respiratorie. L’ossigeno s’accalca al di sopra del serramento; e pesa.  S’illumina l’arco in cui non giaccio. Dove ci sono io, regna la penombra. È già notte, qui, a due passi dalla luce. Fa caldo. L’ombra dovrebbe rallegrare gli animi ai quali l’afa s’attanaglia; invece, il distacco pare non esservi. Sono stato al sole qualche ora prima di essere trasferito in questo angusto spazio risoluto e buio; i fiori brillavano esalando il profumo di cui erano i portatori; l’acqua sgorgava con l’ardore di un suono che sembrava scandire la beatitudine di quel luogo ancestrale nel quale si era incappati. Sì, perché la residenza reale, con i suoi sfarzosi parchi, si ricopriva di un alone magico durante la stagione primaverile e in seguito quella estiva.
Chissà se quella rosa lì, è sbocciata. Ricordo che mentre m’incamminavo verso il palazzo, essa mi aveva spruzzato orgogliosamente un po’ della sua fragranza: m’ero accorto in balia di un odore eccelso che risvegliava in me il sentimento - quel sentimento - di cui non avevo più conoscenza, che per troppo tempo era rimasto annidato alle interiora. Di quale si trattasse, precisamente non ne ho idea e perciò, non posso offrirvi un’appropriata descrizione che possa appagare la bellezza nella quale m’ero imbattuto. Poi, mi son immerso nella tana dei lupi, e le labbra che s’erano leggermente incurvate, ripresero a stringersi. Improvvisamente, m’avvertivo suggestionato da non so quale incantesimo. L’astrusa costruzione del castello nel quale risiedeva il Re, carpiva l’essenza intrisa di ciascuno di noi concretata nell’indissolubile innocenza umana, la quale spesso e volentieri si celava timorosamente al di là delle vie riconoscibili alla nostra mente: perpetuava la salvezza nelle nicchie dell’inconscio come una bambina che si nascondeva da chi si recava nelle sue stanze per abusare della sua intimità. Io non so se le mie congetture abbiano una qualche esigua reminiscenza del reale, o se io le stia improntando secondo il mio umore - quello di un uomo che ha preso un appuntamento con la morte, al quale non può sottrarsi -.
Le pietre dalle punte biancastre, che s’uniscono a chi di dovere ha il compito di formare assieme a loro il pavimento del covo dei colpevoli nel quale son stato collocato, scintillano e hanno la parvenza dei diamanti. Sì, i diamanti dei condannati a morte. Le ultime visioni di chi ha potuto vedere ma che ora ne ha il privilegio privato. Se vostra maestà sapesse quanto è immenso il mio rammarico, mi concederebbe la grazia. Ma vostra maestà sa quel che vuole sapere, e che di me, umile garzone qual ero, conte quale sono, necessita della morte affinché possa godere di un piacere elevato, di una donna che io non sono stato in grado di procurargli.

All’interno della mia cella si propaga l’apatia. L’insieme è statico, io sono statico e, probabilmente, per chi mi osserva da fuori con gli occhi famelici di un corvo che s’eleva fra le altezze impenitenti del cielo, già giunto all’inferno.
Io sono di pietra, comunque. L’avete detto voi. Di una pietra che non si scalfisce, che neanche allo stremo delle forze rilascia latrati di astiose sofferenze. Io sono di pietra. Non soffro. Non mangio e non bevo. Posso vivere solo perché voglio farlo.
 
Guardo le mie unghie sporche. Sospiro. La parte che si allunga, che si spinge oltre i polpastrelli presenta chiazze scure. Rivolgo il palmo verso l’alto per analizzarne il contenuto: è terra; cumuli di terra che si disperdono sullo strato scoperto. Sono già lercio. Do già l’idea di un carcerato.
Scendo con lo sguardo sui miei calzoni. La situazione non migliora: feticci, insudiciati dalla grana polverosa che si annida su qualsiasi superficie. Sembrano quelli del mio vecchio, quelli di Walter.
Walter… quanto tempo è passato da quando vivevo in casa sua? Più di due decadi.
Mio padre: odio anche solo pronunciare mentalmente questa frase. Tutti conoscevano Walter, tutti lo temevano. Ed oggi, se mi vedessero, in queste condizioni di disagio, si direbbero in coro che gli assomiglio più del dovuto. Anzi, che forse, sono a dir poco peggiore.
Quante volte ho rischiato la vita al suo fianco! Tante da imparare a stringere la mano alla morte, con un sorriso impresso sulle labbra sottili, simili a quelle di un felino.

Ratto della mia fanciullezza, son cresciuto fra le ombre della strada. Ho imparato a non aver paura.
Tutti gli esseri umani hanno paura. Mi ripeteva costantemente Gregory, mio figlio. Un ragazzino alla mano, intelligente e perspicace, che non si lasciava sfuggire il benché minimo dettaglio. Io gli carezzavo la nuca prima di prodigarmi in un’esplicazione che avrebbe dovuto convincerlo a non inquietarsi mai di fronte a nulla. Ma era una vana illusione in cui mi ero crogiolato nella speranza che ciò mi facesse risultare impassibile – forte -, perché fra queste mura, comincio ad aver paura anch’io. Proprio come ce l’avevo fra un calcio e l’altro di Walter indirizzato al mio stomaco.
 
È una luce biancastra quella che mi illumina i piedi. Ha anche un non so che di giallognolo. È la luce della luna. Una luna densa, corposa, dura. Inseguo con celerità il suo raggio che colpisce un punto indefinito, alla mia destra, e che si espande sino alle mie gambe. Paio diviso. Il bianco e il nero: a cosa son soliti attribuire questi colori? Al bene e al male.
Perché il mio cuore vaga tra le tenebre, allora?
Anche voi, maledetta Luna, m’incriminate di cattiva condotta?
 
Mi assale il ricordo, insieme ad un conato che prepotentemente supplica il cardias di permettergli di spurgare all’esterno. Mi viene da ridere mentre striscio le dita sul mio viso. Le mani di chi ho comandato per lunghi eoni di tempo che ora appaiono striminziti, mi strattonavano via dalla riunione del consiglio per scortarmi con veemenza nella Torre. Mi dimenavo, ma non c’era verso di imporre l’autorità di cui non disponevo più. Un traditore, ecco cos’ero: per voi miei Lords, e per voi miei sudditi.
Dicevano del mio potere: è addirittura superiore a quello del Re; gli manca una corona sul capo. Non è perciò grave se ora vi chiamo sudditi. Non è alto tradimento, come lo si vuol far intendere. E anche se lo fosse, mi trovo già segregato in questo buco, o sbaglio? A chi devo dar conto?
Un traditore.
Thomas Cromwell, il traditore.
Dio, come strilla questo epiteto accanto al mio nome.
Mi graffia l’udito.
 

Sapevo che un giorno i vostri occhi e il vostro amore mi avrebbero donato la morte.
Sapevo che mi avreste teso la mano unicamente per aggraziarvi quel poco che rimaneva di me.
Quando voi tendete la mano, vostra Maestà, il cielo s’incupisce. Dal suo viso inconsistente cadono gocce.
Sul pavimento su cui si rovescia, cadono teste.
 


Piccola spiegazione.
Che cos’è “Memorie di un Traditore”?
È una fan fiction che nasce dall’idea di narrare introspettivamente gli ultimi giorni di Cromwell. Qui, perciò, si susseguiranno una serie di pensieri che possono ricoprire l’arco di un’intera giornata o semplicemente una precisa ora.
 
Scelta dello stile: forse lo troverete a dir poco sopra le righe e magari, qualche volta scorretto.
La lettura di Joyce, precisamente della sua opera più acclamata, “Ulisse”, mi ha forse condizionata. Spesso, infatti, propendo a seguire con maggior attenzione il flusso di coscienza, fatto di illogicità e contraddittorietà, piuttosto che la grammatica italiana.
 
Spero tuttavia che la lettura non risulti sgradevole.
Che dire? Io ci ho provato!
 
Ps: non sempre sarò puntuale con i capitoli, dipende da quante paturnie mi assaliranno durante la loro stesura! :)


  
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