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Autore: Mirin    30/04/2013    1 recensioni
\«Non sarai mai una scrittrice.»\
{Aveva un brutto raffreddore che le aveva rinsecchito le labbra.[…]
[…]La pagina di Word era ancora aperta e lei, tremante, cliccò sull’icona.
Lo specchio rifletteva la sua immagine. Le piaceva, in fondo.
Ce la faccio, pensava.
Non c’è nient’altro per te, solo dolore ed umiliazione.
Si trovava sempre a consolare[…]e si chiedeva come la gente riuscisse a crederle.
Celeste adorava mangiare le proprie unghie.}

secondo anno su EFP e un modo diverso di festeggiare.
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*DLING-DLONG* INFORMAZIONE DI SERVIZIO: Per l’impaginazione, che è davvero singolare e irritante, mi salvo in corner dicendo che la prima drabble è quella da cui parte tutto, tutte le altre sono consequenziali perché lei ripercorre dei pensieri già fatti in precedenza (distinti l’uno dall’altro con un differente font), voglio inoltre far presente che NON C’È UN ORDINE LOGICO-TEMPORALE fra le altre, infatti solo l’ultima drabble è posta immediatamente dopo la prima (infatti anche quella è centrata). In sintesi: la prima e l’ultima si succedono ma le altre non accadono l’una dopo l’altra, essendo riflessioni passate che Celeste riprende. Sicuramente nessuno ci ha capito un’acca ma spero che nonostante la mia incapacità di trasmettere concetti base alla gente vi godiate la storia.

Non sarò mai una scrittrice.

“Mi sveglio con calma, pensando che sarebbe bello parlare al plurale.”
-Vasco Brondi, Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero.

«Non sarai mai una scrittrice.»
Celeste alza gli occhi dal quaderno fitto d’appunti e fissa attonita Biagio.
«Non sarai mai una scrittrice» lui scherza, ha un ghigno che riempie metà viso, non ha idea di avere appena ucciso Celeste.
Lei sorride e dice “già”. Parla. Parla per annegare il rumore del proprio cuore che va in frantumi.

 
 
Celeste aveva le cuffie infilate nelle orecchie, una canzone rock che si consumava a volume martellante, e camminava per strada con gli occhi fissi sul marciapiede scolorito dalla pioggia che si susseguiva incessante in quel mese freddo di Gennaio. Soffiava una bora tanto gelida da costringerla a rintanarsi nel cappotto largo che indossava. Fuori scuola non c’era anima viva, era prestissimo, nessuno si anticipava così tanto. Celeste si sedette sulla panchina grigia in ferro battuto e portò le proprie ginocchia al petto per poggiarci il quaderno di latino e ripassare le particolarità della terza declinazione assieme ai costrutti più complessi di quella lingua ostica. Sorrise, “ostico” derivava quasi sicuramente da “hostis, hostis”, il sostantivo latino per “nemico”.
Aveva un brutto raffreddore che le aveva rinsecchito le labbra, quando le mordeva le sentiva scricchiolare come foglie inaridite, come prugne troppo mature e vecchie. Celeste sapeva bene qual’era il sapore della propria bocca, persino quello del proprio sangue che era costretta ad assaggiare quando stringeva troppo con i denti per evitare di piangersi addosso nel momento in cui ricordava di essere sé stessa, e sapeva qual’era il suono della sua voce. Era tagliente come la bora, secco come le foglie di cartapesta che le cadevano sulle spalle, debole come le sue idee che rimanevano serrate nei cassetti e mai gettate su fogli di quaderni o fogli di Word. Cercava sempre dei sinonimi al verbo “scrivere”, uno dei suoi preferiti era l’espressione “vomitare inchiostro”: a lei sembravano sempre ributtanti chiazze di parole ingarbugliate e senza nesso quelle che si ritrovava a ricontrollare dopo aver concluso una sessione produttiva di “scrittura”, quasi cercando una logica che non c’è, una logica che non esiste. L’aria aveva il gusto del vento, quel sapore freddo e riarso che a volte bruciava la gola ma faceva rabbrividire, e portava con sé sentore di caramello.
Una volta Giosuè le disse che la sua bocca, a quei tempi rosa e morbida, sapeva di caramello ed erba. Ora però era arrivato l’inverno e l’erba si era seccata, come la sua anima.

La guerra è vinta, pensò. Chiuse il libro di matematica dopo aver finalmente imparato il teorema ferocemente difficile assegnato dal professor Lambertini e si alzò per andare al computer. La barra applicazioni le segnalava che la pagina di Word era ancora aperta e lei, tremante, cliccò sull’icona.
L’interfaccia intuitiva e schematizzata di Word le ghignò maligna e il cursore lampeggiava inquietante. La testa iniziò a girarle e le salì la nausea. “Non ci riesco.” Corse in bagno, ormai la repulsione le era arrivata alla bocca dello stomaco, e si piegò sul water, aspettandosi il vomito. L’unica cosa che il suo corpo espelleva erano lacrime, ancora. Come fosse la prima volta.

Lo specchio rifletteva la sua immagine. Le piaceva, in fondo. Era una ragazza un po’ bruttina, troppo rotonda in certi punti, con le guance decisamente piene e le gambe troppo larghe, ma era sé stessa. Questa cosa era triste perché Celeste era una persona orribile. Ma Celeste era Celeste e non poteva cambiare quindi aveva imparato ad accettarsi e ad evitare di sorridere per non mostrare le gengive grosse. Un volta si era persino illusa che qualcuno l’amasse, che non fosse disgustato dal baciare la sua bocca, che gli piacesse guardarla negli occhi, che pensasse “non ho nient’altro ma mi sento completo” quanto toccava i suoi lineamenti grotteschi.
“Le lacrime mi danno fastidio, ecco perché non ti ho chiamato” aveva scritto Giosuè nel messaggio che le aveva mandato per lasciarla. Sapete, Celeste era una sognatrice. E anche una masochista.

Celeste sospirava con la testa incassata fra le braccia. La luce che entrava dalla finestra che le avevano costretto ad aprire le procurava sonnolenza. Ce la faccio, pensava. Allontanava il pensiero che lei e Giosuè fossero a duecento metri di distanza, allontanava il pensiero di essere Celeste, allontanava il pensiero di essere meno che mediocre nella cosa in cui riusciva meglio. In questo modo riusciva persino a sorridere, poi ricordava che il suo sorriso era uno scempio e non sorrideva. Chiudeva solamente gli occhi per non vedere. Sarebbe ritornata ad affrontare la vita ma quello non era il momento. È difficile lottare, quando si è soli.
Non c’è nient’altro per te, solo dolore ed umiliazione.
Le affiorava alla mente un ricordo d’infanzia, quello che riguardava due bambine vestite di rosa che si contendevano un coniglietto di pezza. Entrambe volevano quel peluche e così Celeste, per non farle litigare -a quei tempi si definivano migliori amiche-, offrì loro la propria Barbie nuova di zecca. Entrambe le sorrisero e una tese la mano per prendere il giocattolo. A fine giornata Celeste tornò da loro per farselo rendere ma la bambina scoppiò a piangere perché ormai si era affezionata alla bambola. Celeste, reprimendo la tristezza, decise di regalargliela. Lei non le disse nemmeno grazie e Celeste, una volta rientrata a casa dall’asilo, dovette sorbirsi una sgridata dalla madre. Il giorno seguente si avvicinò al gruppo di bambine per chiedere loro il coniglietto di pezza.
Una, gridando e scalciando, andò dalla maestra per dirle che la infastidiva, e la maestra mise in punizione Celeste per tutto il giorno. Molti bambini risero di lei, alcuni le lanciarono addosso dei  giocattoli. “Non c’è niente per te” le gridavano. Erano passati dodici anni da quell’episodio ma bisognava ancora trovare qualcosa destinato a Celeste che non fosse dolore ed umiliazione.

È sbagliato dire che Celeste non avesse amici perché c’era qualcuno di veramente vicino a lei.
Il problema di Celeste era, forse, che quelle persone erano tutte affette da disturbi di vista mentre lei ci vedeva benissimo. Magari ciò era la causa per cui lei capiva subito se ci fosse qualcosa che non andava mentre gli altri non riuscivano mai a cogliere la luce smorta che brillava dietro le sue pupille. Per questo motivo si trovava sempre a consolare e mai ad essere consolata e si chiedeva come la gente riuscisse a crederle; quando lo provava con sé stessa, non riusciva mai a prendersi sul serio.

Celeste adorava mangiare le proprie unghie. I denti si accanivano feroci su quel pezzo di cheratina e osso che ricopriva la parte finale delle sue dita e lo staccavano frammento per frammento. Molti la ritenevano una pratica disgustosa ma Celeste era disgustosa e quindi non ci badava. Sentiva di avere tante cose in comune con quell’unghia sbrindellata: l’inutilità, la fragilità e l’incapacità di gridare la propria sofferenza. L’unghia non provava nemmeno a resistere alla forza esercitata dai suoi incisivi mentre Celeste cercava sempre di non spezzarsi alla forza dei problemi che premevano sulla sua schiena, questa era la sostanziale differenza fra lei e un sottile strato morto che giaceva in dato punto senza neanche chiedersi il perché.

Celeste cancella irritata il prodotto notevole che non le riesce.
Si offrono di aiutarla ma lei, superba, scuote la testa come un leone scuote la criniera in un segno di diniego muto.
Non insistono e lei è felice.
Le sue nocche sono bianche e le sue mani rosse a causa di tutta la forza con cui le stringe per stare zitta. Biagio consulta Daniela su una frase di greco senza né capo né coda.
Lei, per una volta, è felice di essere sola ed incompresa.
Nessuno si è accorto che non parla per non piangere.

 
Venhino siori venhino, fresche patate a un euro all’etto:
Mi piaceva un titolo a caso per l’angolo autrice, boh, avevo voglia di cambiare. Secondo anno su EFP, eh? Chi mi fa gli auguri? No, portano sfiga, non li voglio.
Una storia decisamente triste, me ne rendo conto, ma questi giorni senza internet mi hanno riempito di noia -dannata Fastweb che ruba la connessione a gente innocente come moi- così ho deciso di buttare giù due righe in aggiunta alla fanfic che avevo già scritto per festeggiare, il che si è tradotto con “un resoconto angosciante e terribilmente deprimente nonché destabilizzante e drammatico della mia vita”. Sì, quasi (ma possiamo anche toglierlo questo avverbio eufemistico) tutto è preso da varie situazioni della mia vita però no biggie!, si tira avanti, questo è l’importante e la mia vita non è davvero così tetra.
Amore imperituro ai lettori e venerazione ai recensori, come al solito.
Kiss,
la vostra annoiata ma sempre felice di farvi compagnia Ladie. 
   
 
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