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Autore: Nidham    30/04/2013    0 recensioni
Cosa succede quando perdi te stesso e ritrovarti significa affacciarsi su di un mondo che non avresti mai voluto conoscere? In una Parigi a metà tra il reale e il fantastico, Alexandra si farà strada verso verità impensate, attraverso incontri affascinanti e terribili, nemici pericolosi e amici impareggiabili, fino a decidere se varcare l'ultimo cancello e accettare un destino da cui sembra non esserci scampo.
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Probabilmente mi sto solo comportando da bambina e, appena riacquistato il buonsenso, mi vergognerò per le mie azioni e dovrò scusarmene, ma, per adesso, morderlo mi sembra l'unica cosa sensata da fare, o, almeno, l'unica debole difesa possibile.

Se questo pover'uomo si rivelasse veramente un semplice infermiere, come la logica indicherebbe, finirò dritta in un reparto psichiatrico e giustificarmi in base a un istinto malsano non mi salverà.

Eppure neanche le sue reazioni sono quelle che mi aspetterei da una persona normale: dovrebbe urlare, ritrarsi arrabbiato, spaventato, quantomeno meravigliato, invece non vedo un solo barlume di espressione sul suo volto, neppure un leggero crucciarsi delle sopracciglia, o una piccola smorfia.

Se avessi affondato i denti nel comodino, probabilmente avrei sortito maggiore effetto.

A questo punto, non so se essere più inquietata o frustrata. Di certo mi sento ridicola, attaccata come un pesce all'amo.

Sono anche certa di aver esercitato una discreta pressione, ma la sua mano, pur mostrando una perfetta copia della mia arcata dentale, non appare neppure arrossata, quando mi decido a lasciarlo.

Ho perso ogni inventiva e il panico rischia di sopraffarmi di nuovo. Cerco di concentrarmi su qualcosa di semplice, come il respirare, ma il cuore è un rombo sordo nelle orecchie e sembra volersi scavare una via di fuga in mezzo al mio petto.

Rimango a guardare ipnotizzata i movimenti di quell'estraneo che sa, di me, più di quanto non sappia io: è lento, metodico, irremovibile.

Mi sento in gabbia, mentre il tubicino della flebo acquista quel nauseabondo colore, simile a sangue sbiadito.

“Non voglio essere sedata” ripeto un'ultima volta, sperando di mostrarmi convincente. “Voglio vedere un dottore...”.

Cerco di combattere il senso di stordimento, mentre lucette variopinte iniziano a danzarmi nello sguardo.

“Bei denti” sussurra allora, voltandosi direttamente verso di me, per la prima volta, e mostrando un lampo di sorriso ferino che gli distorce il volto e lo rende, se possibile, anche più alieno.

Se voleva essere una battuta di spirito, non mostrava alcuna traccia di ironia; o forse sono io ad essere troppo intontita per cogliere certe sottili sfumature.

“Voglio vedere un dottore...” ripeto ostinata, scuotendo la testa con forza, nonostante le lame che sembrano trafiggerla ad ogni scossa, ma l'infermiere non mi presta più attenzione e questo, nonostante tutto, è rassicurante.

Non voglio guardarlo ancora.

La sua faccia mi è apparsa innaturalmente liscia, quasi levigata, intorno a denti bianchissimi e perfetti, degni della pubblicità di qualche dentifricio, come se stessi guardando una statua di cera. I suoi occhi, troppo vicini ai miei, sono soltanto specchi, privi di profondità o espressione, pronti ad assorbire tutto ciò su cui possano posarsi, ma senza restituire niente di loro.

Mi sento sempre più stanca, ma, in effetti, il mal di testa sta diminuendo. Dovrebbe essere una giusta riprova della serietà di questa medicina e, al contempo, dell'assurdità della mia psicosi.

Eppure ancora non riesco a tollerare l'idea che questo liquido rossastro mi si insinui nelle vene.

Finalmente l'uomo si allontana dal bordo del letto, portandosi dietro frammenti di un'oscurità che non mi ero accorta essersi fatta più profonda, nella penombra in cui continuo a galleggiare.

Lo osservo dirigersi verso la porta e mi scopro a contarne i passi, pregando che non si volti ancora verso di me.

“Presto verranno a controllarla” sentenzia soltanto, prima di chiudersi la pesante anta di vetro smerigliato alle spalle.

Non era di certo una minaccia, ma un brivido mi percorre la schiena.

Senza riflettere, cerco la rotellina che dovrebbe regolare il flusso dei medicinali. Se non mi fossi comportata da stupida e non avessi opposto tanta inutile resistenza, avrei potuto pensarci prima.

Adesso i miei movimenti sono impacciati, la punta delle dita informicolata, qualsiasi azione è uno sforzo di volontà incredibile.

La mia razionalità continua a gridarmi di non comportarmi da idiota, ma, per fortuna, il mio corpo non sembra volerle dare ascolto e riesco a impedire che parte di quella droga entri in circolo.

Probabilmente lo rimpiangerò tra breve e, comunque, chiunque verrà a visitarmi, vorrà rimettere in funzione la flebo, ma, per la prima volta dal mio orrido risveglio, mi sento vagamente tranquilla.

Non riesco più a contrastare la stanchezza e non vedo motivi per farlo.

Forse, la prossima volta che aprirò gli occhi, saprò chi sono e come diavolo abbia fatto a finire qui.

O forse no.

Non credo possa essere passato più di qualche minuto, quando un leggero scalpiccio mi richiama dallo stato di torpore in cui, volente o nolente, mi stavo perdendo.

Mi sento anche più confusa di quanto già non fossi, ma credo di aver maggior controllo sui miei nervi, visto che riesco a osservare la giovane donna, appena entrata nella mia stanza, senza urlare o impugnare il crocifisso che ho notato a capo del letto, puntandoglielo contro.

È anche vero che il suo aspetto è molto meno inquietante di quello del suo sedicente collega. Nessuno proverebbe paura davanti ad uno scricciolo di poco più di un metro e cinquanta, magro come un chiodo e con spessi occhiali da miope a nascondere quasi completamente il volto da bambina.

Probabilmente si rivelerà un errore, o la prima reazione sensata che abbia avuto, ma non mi sento minacciata da lei, così rimango ferma a osservarla avvicinarsi, con movimenti cauti, probabilmente per paura di svegliarmi.

La stanza è ancora avvolta nella penombra, ma riesco a vederne con più precisione i dettagli, quasi i miei sensi si fossero acuiti col breve riposo, o col diminuire del mal di testa.

C'è un attaccapanni a tre bracci, in un angolo, vicino alla porta, ma sopra non c'è appoggiato niente, anzi è coperto da un sottile velo di polvere, a riprova del suo perpetuato inutilizzo e dell'insoddisfacente pulizia di questo posto.

Il piccolo guardaroba, vicino alla finestra, ha un anta graffiata, quasi vi fosse stato inciso un nome o una dedica.

La mia memoria sarà pessima, ma non si può negare che abbia una vista da falco, quasi inimmaginabile.

Le tende sono di stoffa leggera, probabilmente usurata, con una piccola decorazione floreale dai toni un tempo vivaci. Non sembrano adatte all'ambiente asettico di un ospedale, ma, almeno, lasciano filtrare il fresco chiarore della luna, stranamente rassicurante nell'ombra totale che trovo fuori e dentro di me.

E' inutile illudersi: il breve riposo non ha portato nessun miglioramento ai miei ricordi, anche se adesso mi sento mediamente persuasa di essere davvero in qualche tipo di struttura medica e di non dover temere per la mia vita.

Considerata la situazione che devo affrontare, procedere per piccole speranze può essere una buona strategia e non dover più temere che un maniaco mi apra la gola è, di sicuro, una buona aspettativa.

D'altra parte, la pazienza non deve appartenere alle mie virtù, perché mi basta un attimo per stufarmi di questa magra consolazione e voler ardentemente trovare, nella mia testa vuota, almeno un frammento di me stessa, che non mi lasci in balia di qualsiasi sconosciuto mi si avvicini.

Se quell'uomo orribile non ha mentito, dovrei chiamarmi De Raven, ma è assurdo che ciò che mi appartiene debba provocarmi una tale sensazione di orrore, anche solo pensandovi.

Non posso essere tanto vigliacca da avere paura persino del mio stesso nome, per quanto strampalato o foscamente allusivo. I corvi non saranno gli animali più simpatici del mondo, ma ne esistono di peggiori. E poi, tutto sommato, De Raven ha anche un suono vagamente aristocratico e questo pensiero non è affatto sgradevole.

Certo, se fossi stata nobile, o ricca, non mi troverei da sola in una stanza squallida, con mobili dell'Ikea, impolverati e rovinati. Un “purtroppo” inespresso aleggia agli angoli della mia coscienza.

Chiudo gli occhi, perché niente possa distrarmi dal mio esame interiore, ma li riapro di scatto, quando l'unica immagine che trovo ad aspettarmi è quella di un muro insormontabile di fiamme e calore.

Grido prima di riuscire a trattenermi, tirandomi su di scatto, mentre l'infermiera mi fa eco con un piccolo urlo strozzato.

“Signorina De Raven, che succede?” la sua voce è degna del suo aspetto, vagamente infantile e mielosa, ma meno spiacevole di quanto avrei potuto supporre; almeno il mio istinto lavora su ciò che la mia ragione non riesce più ad afferrare.

“Non alzatevi, rischiate di staccarvi la flebo” si avvicina per controllarmi e sgrana gli occhi. “Chi ha interrotto il flusso di medicinale?” sbotta con indignazione.

Non ho voglia, né energie per spiegarle i fatti, o, almeno, la mia versione dei fatti, anche perché, ad un tratto, noto che in braccio tiene una cartellina rigida, da cui spuntano alcuni fogli leggermente spiegazzati, con appunti scritti in una grafia finissima e incomprensibile, sicuramente frutto della mano di un medico.

Forse non dovrei strappargliela con violenza, come mi ritrovo a fare, ma non mi interessa ascoltare le sue proteste, mentre, dopo tanta tribolazione, riesco a leggere un capitolo, seppur breve, della mia storia.

De Raven, Alexandra.

Data del ricovero: primo novembre 2012, alle ore 00.33.

Sono finita in ospedale la notte di Halloween? A che razza di festa stavo partecipando? Spero solo di non aver guidato ubriaca, provocando qualche incidente, o facendo male a qualcuno.

L'infermiera tenta di riprendersi i suoi fogli, ma dovrebbe disserrarmi le dita con una pinza, per riuscirci.

Ci sono i dati di quattro giorni e, anche se non riesco a comprendere ogni dannato termine medico utilizzato, né a capire che genere di farmaci mi abbiano somministrato, colgo parole come stress termico, stato confusionale, forte calore cutaneo senza sudorazione, ustioni gravi al braccio destro, dalle quali posso dedurre di essere finita, in qualche modo, in mezzo ad un incendio.

Almeno questo spiegherebbe la natura dei miei incubi, anche se non chiarifica in alcun modo cause o circostanze.

L'ipotesi dell'incidente potrebbe ancora essere orrendamente valida, visto che le auto hanno la brutta tendenza ad esplodere, in caso di forti urti.

“Cosa sta succedendo?” una voce secca, perentoria mi riporta al momento presente.

Un uomo di non più di quarant'anni, con il camice da medico e l'aria autoritaria, è entrato nella stanza senza che me ne accorgessi e mi sta guardando con fare d'accusa.

Non è troppo alto, ha un principio di calvizie e un leggero arrotondamento di pancia, ma, di nuovo senza alcun senso, mi trovo ad arretrare fra le lenzuola.

I miei occhi corrono alla cartella che ancora stringo al petto. Egide Lumière, primario del reparto di chirurgia e rianimazione, al Rotschild.

“Deve stare calma, ha subito un forte shock” sentenzia senza scomporsi.

Il prossimo che mi dà un consiglio tanto stupido lo insulto selvaggiamente, ma adesso sono più preoccupata per la stranissima sensazione di pericolo che mi ha colto di nuovo, da quando quest'uomo, dall'apparenza innocua e insignificante, mi si è parato davanti.

Le ipotesi sono due: o ho subito una qualche aggressione, che mi porta a diffidare di qualsiasi maschio veda, o sono diventata pazza.

Eppure il freddo che sento nelle ossa, il fremito che mi percorre la pelle e il disgusto che provo guardandolo sono sensazioni vividissime e incontrollabili, istintive come il respirare.

“Sono il suo medico. Non c'è bisogno di guardarmi con quegli occhi terrorizzati, sono qui solo per aiutarla”

Alzo il mento, con aria di sfida. Che sia il mio dottore o no, nessuno può darmi della vigliacca.

“Mi faccia vedere il suo tesserino” sbotto, sorprendendomi da sola, per l'assurdità della mia richiesta.

“Sono Egide Lumiere, ha già visto il mio nome sulla sua cartella clinica, che, tra l'altro, deve restituire all'infermiera”

“Ho tutto il diritto di consultarla.”

“Ma non deve agitarsi così.”

“Non mi sto agitando” mento spudoratamente e spero di non essere il tipo di donna che arrossisca per un nonnulla.

“Come mai non le è stato somministrato il calmante?” si rivolge all'infermiera, ignorandomi come fossi una bambina capricciosa. Alla luce dei fatti, non posso negare di comportarmi come tale, ma i fatti hanno ben poco potere su di me, in questa circostanza.

“Non voglio calmanti!”

“Ha subito un forte shock, signorina...”

“Non voglio calmarmi” sto quasi gridando ed è una tecnica sbagliata in qualsiasi discussione. Non so da dove mi venga una tale certezza, ma cerco immediatamente di ricompormi.

“Allora” sospira rassegnato. “Adesso le mostrerò il mio tesserino, poi, si stenderà e ci permetterà di fare il nostro lavoro, aiutandola” continua, sempre fissandomi con sdegno, ma privo della precedente aria di imperturbabile superiorità.

Onestamente non mi interessa controllarlo, l'ho chiesto solo per vuota ribellione o banale polemica.

Vorrei essere docile e accomodante, o, almeno, credo che dovrei esserlo, ma, nel momento stesso in cui rifletto su questi buoni propositi, armeggio col laccio di cuoio che mi stringe il braccio, liberandomi.

“Signorina De Raven, si fermi immediatamente” la sua voce ha una leggera sfumatura di panico, mista ad esasperazione, che decido di ignorare bellamente. Muovo il polso, cercando di scacciare la sensazione di intorpidimento, e guardo in cagnesco quel pover'uomo mentre confabula con l'infermiera; non mi piace che parlino di me come se non fossi presente, così tendo l'orecchio, sperando di avere un udito ottimo quanto la vista, ma purtroppo riesco a cogliere solo una parola: sicurezza.

Come immaginavo, mi stanno prendendo per pazza. Per quanto, concretamente, mi renda conto di comportarmi proprio come un'isterica, sono indignata che questo medicastro possa anche solo giudicarmi tale.

“Non ho perso la ragione” cerco, comunque, di modulare il tono in una parvenza di incoraggiamento. “E non l'aggredirò, se è questo che teme.”

Malgrado le mie buone intenzioni, la voce mi esce in un sospiro di rassegnata irritazione.

Mi chiedo come qualcuno possa spaventarsi davanti a una ragazza ferita e ancora attaccata ad una flebo.

Certo, io non so assolutamente niente di me. Per quel poco che vedo del mio corpo, non credo di poter apparire inquietante o minacciosa; mi sembra di essere piuttosto esile e delicata, anche se non credo di essere una fragile bambolina. Sento che i muscoli mi rispondono piuttosto bene, nonostante i giorni di totale immobilità, segno che, in qualche modo, ero abituata ad allenarli, ma, di sicuro, non ho un fisico da bodybuoilder e temo di non essere in grado di aggredire nessuno con la semplice forza delle braccia. D'altra parte, queste sono solo supposizioni e niente mi dice che non sia finita in ospedale dopo una rissa o perché ho pestato qualcuno.

E' tutto troppo assurdo e non so come trovare il bandolo di questa dannata, intricatissima matassa.

La testa sembra di nuovo esplodere, per il dolore, ma non ho intenzione di darlo a vedere, visto che non voglio essere nuovamente sedata.

“Nessuno crede che sia pazza, signorina” per fortuna, il dottor Lumière si insinua nelle mie elucubrazioni mentali, prima che possano sopraffarmi.

“Allora perché vuole chiamare la sicurezza?” continuo a fissarlo con sguardo truce e credo di avere proprio l'aria da bambina cocciuta e imbronciata.

“Per la sua incolumità” alza le mani in tono conciliante, ma non riesco a concedergli nessuna via di salvezza.

“La mia incolumità, certo!” sbotto con malagrazia, afferrando il tesserino che ancora mi stava porgendo. “Mi dia anche i suoi documenti.”

“Non li ho con me, in questo momento” una scusa comoda o una probabile verità. “Non ci aspettavamo si svegliasse così presto” cerca di cambiare argomento.

“Perché mi avete imbottito di droghe!” lo accuso senza esitazioni.

“Sono antidolorifici”

“Non ne voglio!” e lo dico con una fermezza che rasenta il fanatismo, per quanto tutto il mio corpo mi rimproveri per la mia stupidità.

“Le ustioni che ha riportato sono molto dolorose” di nuovo il tono di chi è costretto a trattare con un bambino o un idiota.

Non sono masochista, o spero di non esserlo, ma non posso tollerare di tornare ad essere incosciente.

“Dov'è la mia famiglia?” ad un tratto questa mi sembra l'unica cosa importante. Se anche nessuno, in questo ospedale, vuole ascoltarmi, avrò un padre o una madre che sapranno difendermi e spiegarmi cosa mi sia successo.

Mi accorgo di sudare, mentre guardo il medico, in attesa di una risposta, che bramo e temo in egual misura.

“Non siamo riusciti a rintracciare nessuno, purtroppo. Non aveva rubriche o contatti, nella borsa, e la sim del suo cellulare è danneggiata” cerca di mostrarsi dispiaciuto, ma è troppo stufo di me per riuscirci.

D'altra parte io non sono affatto stufa di me, anzi, devo ancora cominciare a conoscermi, quindi riesco benissimo a deprimermi e compiangermi per quest'ultima brutta notizia. Me lo aspettavo, certo, ma una stupida, minuscola parte del mio cuore non voleva crederci e anche adesso si rifiuta di staccarsi dall'estremo brandello di speranza a cui si era aggrappata.

“E la polizia?” insisto, dopo un solo attimo di incertezza, per impedirmi di cadere nel panico del nulla che sembra intenzionato a inghiottirmi. “Avrete avvertito la polizia, se ho avuto un incidente. Non avranno bisogno di un'agendina per trovare qualcuno!”

“L'ispettore...”

“E' un incompetente” proclamo con irrazionalità, mentre mi auguro di non essere, generalmente, la sputa sentenze che sembro.

“Non ho detto questo, signorina” ci tiene a precisare con discreta energia. “La prego, si calmi.”

Chiudo gli occhi, costringendomi a contare fino a dieci per non saltargli alla gola, come mi ero ripromessa di fare con chiunque avesse pronunciato di nuovo questo consiglio così deficiente.

“Non ditelo mai più” sibilo, con una rabbia che spaventa persino me. “Sono anche troppo calma, date le circostanze. Sono qui da quattro giorni e mi dite che nemmeno la polizia è stata in grado di scoprire qualcosa su di me!”

“L'ispettore è venuto ogni giorno”

“A far che? Sperava di leggermi nella mente?”

“Sperava di trovarla cosciente e in grado di dargli qualche spiegazione” alza la voce, uniformandosi alla mia.

“Avrebbe fatto meglio a sperare di scoprire qualcosa con le sue forze, invece di aspettare di trovarsi

il lavoro fatto, semplicemente grazie alle mie risposte” sono ingiusta e assurda, me ne rendo conto, ma, in questo momento, ho solo voglia di prendermela con tutto il mondo, per evitare di fare i conti con me stessa.

Suppongo la rabbia sia meno deleteria della paura o della tristezza e, di certo, mi dà maggiore energia.

“Sicuramente domattina sarà di nuovo qui e potrà darle maggiori spiegazioni. Qualsiasi cosa abbia scoperto, la riferirà a lei in persona; a me non poteva dire molto, per motivi di privacy” mentre parla, lancia occhiate sempre più frenetiche alla porta e suppongo non veda l'ora di scappare da questa stanza e dalla paziente impossibile che la occupa.

Istintivamente seguo il suo sguardo e, per un attimo, mi sembra di notare una figura, appena accennata nella penombra, come una chiazza di oscurità più densa nascosta in un angolo.

A giudicare dalla stazza, sembrerebbe lo strano infermiere che ho visto al mio risveglio, ma non l'ho sentito rientrare e sono certa non ci fosse, quando è arrivato il dottore.

Inoltre l'immagine è strana, quasi priva di contorni ben definiti, vaga come una nuvola di fumo, ma sono assolutamente certa che sia reale, perché il mio corpo reagisce con un tremito al suo sguardo freddo e inumano, mentre punto l'indice verso di lui, indicandolo al dottore.

“Non voglio avere più quell'uomo vicino” dico con tutta la calma che riesco a racimolare, sperando che mi prendano sul serio, almeno in questo caso.

“Quale uomo?” sembra sinceramente stupito e non posso credere che abbia voglia di scherzare o prendersi gioco di me, così insisto, senza capire il motivo della sua perplessità.

“Quel vostro infermiere dall'aria maniaca, che era già stato qui poco fa”

Continuo a fissare la figura minacciosa e giurerei di vedere un mezzo sorriso sardonico aprirsi su quelle labbra sottili, scoprendo un bagliore candido di denti nell'ombra che lo avvolge.

“Non abbiamo infermieri maniaci” mi rimprovera, con tono severo, probabilmente preoccupato che possa infangare il buon nome del suo reparto. “Ci sono solo donne che si occupano delle pazienti di sesso femminile.”

Probabilmente tutti i farmaci che ho assunto mi provocano allucinazioni, infatti, appena sbatto le palpebre, quella figura inquietante svanisce, ma senza portarsi via del tutto la sensazione di pericolo che l'aveva accompagnata.

“Eppure c'era un uomo qui e ha messo qualcosa nella flebo” se anche me lo fossi sognata adesso, sono certa di non averlo del tutto immaginato: ho parlato con lui, l'ho morso, sento ancora il terribile sapore della sua pelle sulla lingua, non poteva essere un'illusione.

Per mia sfortuna, il dottore Lumiére sembra pensarla diversamente.

“Deve averlo sognato” si stringe nelle spalle, mentre sorride all'arrivo di due infermieri dall'aria divertita che non dovrebbero trovarsi nella mia stanza, visto che sono palesemente maschi e mi era stato appena assicurato che sarei stata assistita solo da donne.

“Qualcuno sta facendo i capricci?” l'ironia di bassa lega di uno di quei buzzurri è davvero l'ultimo episodio che sia disposta a tollerare.

“Dov'è il foglio delle mie dimissioni?” guardo il dottore negli occhi senza battere ciglio, mostrando un orgoglio che so non essere supportato da alcuna logica. “Voglio andarmene immediatamente a casa.”

Il fatto di non sapere assolutamente dove si trovi è solo una delle piccole falla nella mia dimostrazione di spavalderia, ma se pure posso sopportare di non ricordare niente, di essere spaventata a morte, di dovermi affidare a perfetti sconosciuti, di certo non posso tollerare che provino a ridere di me.

  
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