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Autore: Sten__Merry    30/04/2013    1 recensioni
Una mattina qualunque, il sole, lo strepitio della gente e due occhi scuri.
*
Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, nè offenderla in alcun modo
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Antony Costa
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Con molto ritardo ecco il nuovo capitolo.
Aspetto le vostre opinioni.
Sten.

___

CAPITOLO 15. Following the White Rabbit.
 
Lui si girò verso di me, lo sguardo vacuo, distratto che però pareva scrutarmi dentro.
Avvicinò la sua mano sinistra e mi accarezzò il viso con le nocche, lentamente, quasi tremando. Io chiusi gli occhi, mi concentrai sul suo tocco. Ne percepii la dolcezza, la delicatezza. Sentivo che mi toccava come se fossi una bambola di porcellana rotta, tenuta insieme solo da pochi millilitri di colla.
Lo fermai, strinsi la presa tenendo le sue dita con entrambe le mani e schiacciai il corpo contro il suo, fissandolo così intensamente da dimenticare di sbattere le palpebre
“Non avere paura di farmi male, Antony” lo pregai. La voce annidata attorno al nodo alla gola che si era formato nel sentire suo calore contro di me.
Mi aspettavo un timido sorriso di assenso, un tacito consenso da parte sua. Invece lo vidi farsi ancora più serio in volto, liberarsi dalla mia presa e stringermi le braccia. Con forza, quasi mi avesse preso alla lettera. Mi baciò, di un bacio possente, virile. Il suo sapore azzerò ogni pensiero. Lasciai che mi cingesse la vita con le sue mani forti, mentre mi abbandonavo sempre di più a lui.
Eravamo un contrasto continuo; il minuto prima ci arrendevamo alla caducità della nostra passione, ci piegavamo, tristi e sfiniti come due vecchi amanti alla fine del loro cammino comune, e quello successivo eravamo due liceali appena conosciutisi fuori dal portone della scuola, incapaci di pensare a una vita diversa da quella che immaginavano insieme.
Eravamo tornati quei due teenager; mentre il suo bacio caldo cullava il mio, mentre lui mi cullava, vivevamo come se avessimo potuto restare insieme per sempre, in quella morsa calda che sembrava avvicinarci tanto da unirci in uno solo.
Quel pomeriggio, nudi, stesi sul divano sotto una coperta di pile azzurra , stretti in un abbraccio che sapeva di promesse amare, gli raccontai per la prima volta di me. Rimasi nuda davvero, confessando il mio passato e con esso il presente, le mie paure, tutto ciò che mi faceva tremare se pensavo a ciò che sarebbe stato da quel momento innanzi.
Tacque.
Gliene fui grata. Si limitò a baciarmi la nuca, il naso affondato nei miei capelli.
“Cassie, se solo lo avessi saputo…” iniziò, mi girai verso di lui e terminai la frase per conto suo, le mie labbra sulle sue
“Se solo avessi saputo che saremmo rimasti travolti in questa maniera saresti scappato a gambe levate”, scherzai, scosse leggermente la testa senza interrompere il contatto tra i nostri respiri
“Se solo avessi saputo che ci sarebbe stata una come te ad aspettarmi prima o poi, sarei corso ad affogare in questo casino anche prima”.
Sorrisi, compiaciuta e triste.
Realizzai che se non sarebbe stato mio, probabilmente non sarebbe mai stato nemmeno di qualcun’altra.
Me ne dispiacqui.
Sapevo che la rispettiva mancanza di coraggio ci avrebbe condannati all’infelicità. Da un lato, io, bruciata da un vecchio amore la cui cicatrice non pareva andarsene mai, che scappavo dalla pienezza dei miei sentimenti, e dall’altro, lui, così incastrato, forse addirittura incollato, alla sua quotidianità, da negare al suo cuore di battere liberamente per non dover abbandonare il sentiero conosciuto per quello ancora imbattuto.
“Quando finirà” sussurrai, un filo di voce soffiata leggermente attraverso la fessura tra le labbra “ricordati di questo momento”, lui annuì
“Quando finirà, spero che l’odio non si sarà portato via tutto il bene che abbiamo fatto l’uno all’altra” replicò per tutta risposta. Anche senza girarmi sapevo che stava fissando il vuoto innanzi a lui, fu il mio turno di annuire
“L’odio non ci appartiene” lo rassicurai, mi mordicchiò una spalla rispondendo
“L’odio è l’altra faccia dell’amore” lo sentii diventare più caldo contro la mia schiena, capii che stava arrossendo
“L’amore ha un che di oscuro, Antony. Noi rimarremo sempre qualcosa di più puro” gli confessai, giochicchiando con l’unghia dell’indice della mia mano destra
“Quando ci siamo conosciuti, in quel bar di Portobello, tu ti sei passata un dito sul viso, lenta, bellissima. Mi sono innamorato di te in quel momento, anche se allora ancora non lo sapevo” deglutii rumorosamente
“Antony…” lo pregai. Mi immaginai in ginocchio di fronte a lui, implorandolo di non continuare, lui comprese, ma mi ignorò, bello e crudele come un principe d’altri tempi. Aveva deciso di conquistare il forte, e non si sarebbe fermato davanti a nulla.
“Ho bisogno di essere onesto con te, Cassandra”
“Non farlo. Non sporchiamo di illusioni ciò che c’è tra noi”
“Se fosse un’illusione avrei timore che parlandone scompaia. Io ora, qui con te, stretto a te, non ho paura. Forse per la prima volta nella vita” scossi la testa
“Devi imparare a essere onesto con te stesso” lo rimproverai teneramente, lui sorrise
“Credimi” un sussurro, una preghiera, mi girai verso di lui e lo guardai. La mia testa appoggiata al suo petto che si muoveva al sinuoso ritmo del suo respiro.
“Sai che non posso. Ti leggo dentro”, spiegai.
Mi addormentai così, cullata dal ritmo della vita che scorreva in lui.
Quando mi risvegliai, ore più tardi, il mio umore era decisamente cambiato.
Avevo un sorriso preportente disegnato sulle labbra: quel giorno, stesi su quel divano, avevamo deciso di vivere a pieno il nostro rapporto, poco importava se nel contempo avevamo stabilito di non investire nulla di noi stessi.
Due amanti clandestini, consapevoli di essere tali, ma pur sempre due amanti.
Era stato lui a parlare di amore, a dire quella parola tanto spaventosa alle mie orecchie, e alla fine mi ci ero arresa, senza mai pronunciarla avevo acconsentito a non essere solo ‘la donna con cui aveva una storia’, ma la sua amante.
Dal verbo amare, colei che ama.
Di nuovo, aveva toccato una delle mie corde scoperte, e ora, sentivo che stavo scivolando a lui imprescindibilmente, come Alice che cade nella tana del Bianconiglio, incapace di fermarsi. Nell’onestà di quel pomeriggio mi aveva spinta a fidarmi di lui, a darmi a lui davvero. Col cuore libero di una bambina.
E proprio così mi sentivo, una bambina, sorridente e spensierata.
Lo guardai. Dormiva bellissimo. Come al solito il suo viso portava una traccia di apparente malinconia legata ai suoi tratti somatici. Iniziai a punzecchiarlo con un dito cercando di svegliarlo, come una bimba dispettosa giocavo con la sua pelle che al mio tocco diventava più chiara, e alla fine ottenni il mio scopo.
“Voglio fare quel gioco con i fili di lana” gli dissi non appena aprì gli occhi, il mio viso radioso a pochi centimetri dal suo sguardo assonnato, lui scosse la testa e cercò di rimettersi a dormire
“Dai, Antony” lo esortai, lui, sbuffando dolcemente, si mise a sedere arrendevole
“Non so di che cosa tu stia parlando, Cassandra” sbiascicò in uno sbadiglio
“Sì, sai quei giochini che si facevano da bambini. Si arrotolava la lana sulle mani e la si tendeva, incrociava e riposizionava in mille modi per ottenere figure diverse” lui alzò un sopracciglio, ancora perplesso
“Mi dispiace deluderti, ma davvero non ne ho mai sentito parlare” feci schioccare incredula la lingua contro il palato, senza dire nulla scavalcai il divano, aprii qualche cassetto della sala e, dopo qualche tentativo vano, trovai un gomitolo di lana rossa che Kerry aveva comprato qualche giorno prima decisa a imparare a lavorare a maglia. Ne tagliai un pezzo e lo annodai, poi tornai da lui.
“Tendi le mani” ordinai, scettico allungò le braccia davanti a sé, gli feci cenno di serrare le dita che andavano dall’indice al mignolo, vi appesi il filo annodato su se stesso e gli feci fare un giro doppio su entrambe le mani.
Mi misi dietro di lui sul divano, il mio mento nell’incavo del suo collo.
“Adesso lasciati guidare” gli dissi dolcemente mentre, coi miei palmi sui suoi dorsi, ne dettavo i movimenti.
Mi accorsi che aveva perso quella vena di scetticismo che aveva prima negli occhi, e ora seguiva quasi incuriosito i movimenti delle nostre dita. Un bambino avido di imparare e una bambina che fremeva dalla voglia di condividere i segreti di un gioco che lui non conosceva.
Feci scivolare il medio della sua mano destra sul palmo della sua sinistra facendogli raccogliere il filo e riallontanai le sue mani, poi feci la stessa operazione con l’altro lato.
“Forte” disse, quasi meravigliato, trovandosi le mani legate tra due fili incrociati, io sorrisi e mi andai a posizionare di fronte a lui.
Sembrava davvero un cucciolo, pronto a gioire delle piccole cose.
Capii come dovevo essergli apparsa io al nostro primo appuntamento.
“Non hai visto ancora nulla” spiegai, mentre sollevavo i fili annodati tra loro e li incrociavo con il filo che era rimasto ritto all’altezza dei suoi pollici. Prima che se ne rendesse conto i fili erano nelle mie mani in una posizione tutta nuova. Un rettangolo piano con all’interno un piccolo rombo appeso alle sue diagonali era ora appeso tra le mie dita.
“Adesso devi seguire perfettamente ciò che ti dico, se vogliamo arrivare alla fine del gioco” lui annuì deciso e iniziò a seguire le mie istruzioni con una concentrazione mastodontica, mordendosi le labbra con gli incisivi mentre eseguiva ciò che io gli dicevo di fare.
Dopo quasi mezz’ora in cui ci alternavamo nel tirare e mantenere i fili giungemmo alla figura finale.
“Era un gioco che facevamo a scuola da bambini” spiegai, mentre riponevo il filo in un cassetto. Lui non sapeva è che qualche ora dopo lo avrei recuperato e conservato, in ricordo della prima cosa che avevamo costruito insieme, del nostro primo obiettivo raggiunto.
“Non ne avevo mai sentito parlare” rispose, poi sorrise “Sono stato bravo, per essere stata la mia prima volta, no?” mi avvicinai e lo bacia sull’angolo della bocca
“Sei stato bravo, Antony” gli feci una carezza sul viso utilizzando il dorso della mano “Lo sei sempre”
“E’ che siamo un ottima squadra” puntualizzò lui “una squadra costretta a giocare in panchina” continuò poi in un sussurro
“Non ti rattristire. E’ il nostro ruolo, la nostra natura” mi appoggiò una mano sulla spalla
“Così piccola eppure così saggia” arrossii per lo sguardo di ammirazione che aveva negli occhi più che per le sue parole.
   
 
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