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Autore: FairLady    02/05/2013    4 recensioni
Ognuno di noi ha un luogo speciale nel cuore, che venera e che, il solo pensiero, gli regala emozioni e sensazioni totalmente diverse da qualsiasi cosa abbia mai provato. Per me, questo posto, è New York.
"...Te lo avevano detto; ti avevano avvisata che stavi per inoltrarti in un mondo nuovo, diverso: un mondo a parte. Ma, finché non lo vedi coi tuoi occhi, non riesci a credere che sia vero.
“Eccolo.” Sospiri. Non sai se hai parlato davvero o lo hai solo pensato. Sai solo che in quell’istante, l’unico della tua vita, sei esattamente nel posto giusto al momento giusto.

Terza Classificata al "Description Contest: Quanto sei bravo a descrivere" indetto da Ellecrz sul forum di EFP
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Metti un piedi avanti l’altro, sulla settima strada. Ti guardi intorno e non fai altro che disperdere lo sguardo in alto, facendoti girare la testa nel tentativo di vedere la fine dei grattacieli che, uno dopo l’altro, ti lasciano affascinata. Te lo avevano detto; ti avevano avvisata che stavi per inoltrarti in un mondo nuovo, diverso: un mondo a parte. Ma, finché non lo vedi coi tuoi occhi, non riesci a credere che sia vero. 
E ora sei lì e ci sono momenti in cui vorresti pizzicarti per non darti della stupida sognatrice. Sei lì e cammini tra persone così diverse tra loro eppure così perfettamente amalgamate; cammini e non ti capaciti di come la realtà abbia di gran lunga superato ogni tua più rosea aspettativa. Cammini e non ti rendi neanche conto dei chilometri che stai facendo, proprio tu, che da sempre odi le passeggiate.
Il tuo incedere è sempre più veloce; più prosegui, più le tue gambe sembrano voler mordere l’asfalto grigio e butterato, rovinato dal tempo, dagli eventi atmosferici e dai milioni di piedi che ogni giorno lo vivono. I tuoi passi, uno dopo l’altro, si sincronizzano con quelli del mondo; sì, perché intorno a te ora c’è lui. Il mondo intero. E’ come se una forza oscura e misteriosa si sia impossessata di te, cancellando ciò che fino ad un momento prima è stata la tua anima, e ti abbia immersa in un grosso bicchiere di una sostanza stupefacente. Qualcosa di potente che ora ti riempie e ti fa sentire parte di quello che ti circonda. Una lacrima scende mentre, casualmente, ti volti e nella fenditura tra due mastodontici palazzi scorgi lui. Lui, che per te non è solo un ammasso di lamiere e cemento. Lui, che non è solo un insieme di finestre e aperture. Lui, che è qualcosa di vivo e pulsante, qualcosa che respira con te e ti entra nelle vene. E ti rende tossica della sua essenza. 
“Eccolo.” Sospiri. Non sai se hai parlato davvero o lo hai solo pensato. Sai solo che in quell’istante, l’unico della tua vita, sei esattamente nel posto giusto al momento giusto. 
Imbocchi, allora, la trentaquattresima strada e a questo punto non stai più semplicemente camminando; stai correndo ma l’omino rosso del semaforo all’incrocio si accende in quel momento e ti suona, sfiorandoti, un immenso furgone marrone dell’UPS, di quelli tipici americani, senza le portiere. Per un istante solo vieni deviata dalla scoperta che esistano davvero, proprio come quelli dei film, senza nemmeno curarti che potevi essere investita. Poi quello passa oltre e tu torni a sognare, fissando lui
Intorno a te la gente passeggia. I negozi, spesso piccoli buchi pieni di tutto e niente, sembrano oziare pigramente ai lati delle larghe strade, dove macchine enormi e sempre di fretta incespicano una sull’altra. Eppure tu non riesci a pensare ad altro che a lui
Sei sulla trentaquattresima strada e cammini da ore. Non sai con quale forza sei riuscita ad aspettare sera; l’unica cosa che sai, di cui sei del tutto certa, è che l’attesa ne varrà la pena. E’ una consapevolezza che ti porti dietro da una vita e non c’è nessuno che potrà mai convincerti del contrario.
Sull’angolo dell’incrocio con la quinta strada, sosta il venditore ambulante che vuole rifilarti un hot dog ma, nonostante la fame ti attanagli le viscere, decidi di non farti distrarre dal tuo obiettivo. 
Lui, l’Empire State Building, un puro manifesto di onnipotenza e grandezza, svetta lì accanto a te. Per anni è stato il grattacielo più alto del mondo, prima che venissero costruite le Torri Gemelle del World Trade Center e, nell’immaginario collettivo, per sempre simbolo inconfutabile di ricchezza e prosperità; atto di forza, coraggio e istinto di sopravvivenza di un paese sull’orlo del fallimento, durante la Depressione. Sicuramente non è il più alto del mondo; certamente, quello cui il tuo cuore è più legato. 
Se punti lo sguardo in alto, viaggiando sul suo profilo squadrato ma incredibilmente sinuoso, puoi quasi ammirare la sua cima, o pensi di poterlo fare, forse perché, da dove ti trovi, riesci a scorgere le luci rosse e verdi che la colorano, che celebrano il Natale incombente. Ti tremano le gambe: dalle foto che riempiono le pareti di casa tua non sembrava così alto e invece un po’ ti fa paura, o forse ti mette soggezione per la sua imponenza regale? Di qualsiasi cosa si tratti, comunque, niente ti impedirà di salire fin dove è possibile, per abbracciare l’intera città. Prendere in pugno quelle strade caotiche e quel melting pot straordinario che solo una megalopoli come quella è in grado di regalarti. 
In uno sprazzo di lucidità guardi al numero cinquecento della quinta strada, da cui parte un serpente umano che si allunga a perdita d’occhio. Non credi a ciò vedi e il cuore inizia a battere furioso nel petto per colpa del panico. Fermi un ragazzo di colore che indossa una divisa amaranto con dei grossi bottoni d’oro. 
“Mi scusi, questa è la fila per salire all’osservatorio?” 
Lui ti guarda come se provenissi da Marte o da qualche altro strambo pianeta, poi però ti sorride comprensivo. 
“Sì, è questa.” 
Il sole che, nonostante sia già sera inoltrata, hai avuto in viso fino a qualche secondo prima si spegne improvvisamente e la delusione è talmente palese nei tuoi occhi che anche il portiere si rattrista con te.
“Non ce la farò mai a salire!” Sbuffi, più verso qualcuno di astratto che al tuo interlocutore. Lo saluti con un cenno e ti avvii, ciondolante, verso la Sesta. Non hai certo intenzione di darti per vinta, vuoi soltanto fare un giro di ricognizione per capacitarti di quanto sia lungo il tuo nemico. Velocemente giri intorno all’isolato e non puoi crederci: la fila lo circonda tutto, proprio come un pesante e  soffocante boa gira intorno al collo della sua preda. Torni da dove sei venuta e ti giochi l’ultima, definitiva, carta. Ti sei promessa che niente ti avrebbe divisa dal tuo punto focale e non puoi cedere proprio a cinque metri – che forse sono anche cinquecento – dalla meta. Il portiere in livrea amaranto è ancora lì dove lo avevi lasciato. L’ingresso è costituito da due immense porte di vetro e lamiera. In una si addentra l’infinita coda; l’altra è completamente vuota. C’è solo un cartello che avvisa i gentili visitatori di aspettare a quella accanto.
Sei impalata di fronte a quel pezzo di carta e la tua mente lavora vorticosamente alla ricerca di una scappatoia, di una via alternativa per evitare il chilometro di coda che, altrimenti, t’impedirebbe di realizzare il tuo sogno. Una mano ti afferra il gomito e ti sposta verso l’interno del marciapiede affollato. Alzi lo sguardo e incontri i grandi occhi neri del portiere che ti sorride, abbagliandoti. Ti inserisce proprio vicino ai primi della fila. Qualcuno vi guarda in cagnesco ma nessuno osa fiatare, probabilmente a causa della suggestione della divisa del tuo nuovo, santo, amico. Poco dopo, l’ingresso di vetro si apre e un altro ragazzo, con addosso lo stesso completo amaranto, vi prega di entrare a gruppi di cinque. E senza rendertene conto sei dentro.

Davanti a te, il paradiso.
Sembra un modo di dire, esagerato per giunta, ma in realtà è così. 
La reception che ti accoglie, una volta all’interno, è presieduta da una donna bionda, con un caschetto fresco di parrucchiere. Indossa la stessa uniforme bordeaux che hai già visto e se ne sta seduta dietro ad un bancone di lucido marmo scuro. Dietro di lei, la parete, fatta della stessa pregiata fattura, è finemente decorata da un basso rilievo d’oro: l’Empire State Building, che s’innalza libero nei cieli, come una divinità, paragonato ad figura mistica; i raggi di una luce eterea, tutt’intorno ad esso, ti illuminano lo sguardo, che si spalanca per lo stupore e l’ammirazione. 
“…E’ rappresentata la cartina della costa nord est degli Stati Uniti, dove, fra tutte, spicca New York City. Nel punto esatto in cui sorge la città vi è una Rosa dei Venti; questo perché dai nostri osservatori all’ottantaduesimo e centoduesimo piano si ha una visione panoramica di ben quattro stati…”
E lo comprendi immediatamente; interpreti quella raffigurazione a modo tuo, senza ascoltare le parole della guida che spiega e racconta: New York, il centro del mondo. O almeno, per te lo è.
“Prego, da questa parte. Seguite la fila di sinistra.” 
Ormai sei confusa, inerme di fronte a tutte le informazioni che ti vengono snocciolate di secondo in secondo, incapace di seguire un filo logico. Ora che ci sei, non vuoi altro che prendere l’ascensore, di cui solitamente hai una paura incredibile, e salire. Salire. Fino dove riesci, fin dove puoi. E la smania di toccare il cielo con le dita, cresce fino a diventare un bisogno fisico. 
Quando, finalmente, i tuoi piedi superano la banchina e salgono sull’elevator 2 non hai nemmeno il tempo di pensare alle tue ansie o alla claustrofobia. L’estasi è alle stelle, quelle che vedi sul soffitto, alzando lo sguardo. Non percepisci lo spostamento, non senti neanche l’attrito col suolo, nonostante la velocità con cui l’ascensore sale sia pazzesca. Infatti, in una manciata di secondi, ti ritrovi all’ottantaduesimo piano e la quantità di adrenalina è direttamente proporzionale all’altezza a cui ti trovi. 
Non vedi neanche i passi che fai per raggiungere le porte che conducono fuori; non ti accorgi nemmeno delle persone che ti girano attorno: tutti con gli stessi sguardi trasognati, le stesse labbra su cui sono disegnate delle O perfette, di estremo stupore e meraviglia, gli stessi che provi tu. Appena superi l’ultima barriera con l’esterno, una folata di aria gelida, talmente forte da riuscire a spostarti, ti sferza il viso lasciandoti per un momento senza fiato. Fa freddo, un freddo glaciale, ma come puoi pretendere che non sia così?
Sei in cielo. E ti senti come un angelo, sospeso sulla testa del mondo. 
Purtroppo, però, con quell’aria pungente non riesci a goderti appieno il momento. Cerci di fingere che non t’importi ma poi il rumore dei tuoi denti che battono riesce a coprire persino il battito accelerato del tuo cuore, per cui ti decidi a continuare il viaggio verso l’alto. 
All’ascensore trovi l’ennesimo damerino amaranto, che, vedendo la tua fotocamera penzolante dal polso, si offre di posare per uno scatto. Non te lo fai ripetere e ti abbarbichi alle sue spalle larghe, sorridendo, per quel che la paresi da freddo ti concede. Ti fa salire sul trabiccolo, molto più piccolo di quello che ti ha portata sin lì, insieme ad altri visitatori, e la guida che vi accompagna inizia a parlare velocemente, regalandovi aneddoti e notizie tecniche. Tu non riesci a seguirlo. I tuoi occhi sono bloccati sul cartello che indica l’altezza che stai per raggiungere. Milleduecentocinquanta piedi. 
Stai davvero per volare sul mondo. 
Appena esci dall’ascensore corri verso la vetrata e, come una bambina di fronte alla vetrina di Toys ‘r us, ti ci spalmi addosso, mani e faccia. 
La città è illuminata di mille colori. Batte e urla e quasi ti sembra di vederla pulsare come un immenso cuore. E’ un corpo che parla, un sangue che scorre; una musica che ti entra in testa e che non riesci più a smettere di canticchiare. 
Corri verso nord, l’impronta delle tue mani sul vetro lascia l’alone. Fai parte del mondo anche tu. 
Il Chrysler, con la sua tipica illuminazione a raggiera, a destra; il Rockefeller a sinistra; il Carnagie a pochi passi. Innumerevoli altri grattacieli, più bassi di quello su cui ti trovi tu ma ugualmente affascinanti. L’arteria principale di New York, la Quinta, con le sue formichine che camminano, unite come un unico grande fiume. Temi che due occhi e un’anima non siano abbastanza per catturare tutto quello che hai a disposizione in quel momento. Riesci persino a vedere l’insegna rossa del Radio City Music Hall, dove migliaia di celebrità, gente che ha lasciato il segno indelebile del suo passaggio, si è esibita.
Dritto davanti a te si estende Central Park. Un’oasi nel caos metropolitano. Il cuore pulsante della città. Il suo polmone verde, in cui i newyorkesi riescono a rallentare, a pensare, a prendersi del tempo, a dispetto della loro quotidianità, frenetica e senza fiato.
Sempre con le dita che accarezzano il vetro gelido ti sposti verso ovest. Jersey City palpita al di là del fiume Hudson, nel quale ciondolano pigramente battelli carichi di sognatori. Vorresti far davvero la bambina e salutarli da lassù ma sai che non ti vedrebbero. Lo fai mentalmente, per toglierti lo sfizio, e poi vai ancora più giù. In lontananza riesci a scorgere Miss Liberty, un inno, un simbolo, uno stile di vita. E ti sposti ancora, verso sud, che si significa Downtown, che vuol dire Financial District e World Trade Center. Che, inevitabilmente, ti ricordano Ground Zero e le Twin Towers.
Guardi il panorama, fissandone il profilo ben delineato ed illuminato. Per un istante provi a chiudere gli occhi, sperando di riaprili e vederle di nuovo, svettanti, reali. Ma quando lo fai vedi solo due luci blu, due fari che da terra, arrivando dove i tuoi occhi non riescono, ricorderanno sempre al mondo di quello che c’è stato e, seppur solo nei ricordi, ci sarà sempre.

 

Empire State of Mind.
Perché non è solo una città.
E’ uno stile di vita.
 

   
 
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