Parola tremante
nella notte (Fratelli)
Serie di istantanee incentrate su Nathan e Peter,
durante tutta la prima stagione di Heroes, legate ad alcuni momenti particolari
del loro burrascoso rapporto. L’intenzione è di andare in ordine
cronologico, ma si vedrà.
Titolo tratto da Ungaretti, l’avrete tutti
notato ma è meglio specificare per correttezza: è un verso
–in realtà due versi- della poesia “Fratelli”, che è anche citata tra parentesi.
Spero possano risultare di vostro gradimento.
suni
I. Solo Peter
(il bambino che
volava e non voleva crescere)
Da bambino gli piaceva farsi lanciare in aria. Si
gettava tra le braccia del suo fratellone prendendo la rincorsa, e quel ragazzo
tanto più grande di lui lo scaraventava su e lo riprendeva al volo appena prima che lui toccasse
terra.
Era come volare. Strillava d’euforia
strizzando appena gli occhi e ascoltava i suoi polmoni comprimersi in quel
momento del salto in cui si sentiva precipitare.
Dieci anni di differenza d’età non
permettevano ai loro mondi d’incontrarsi davvero: Nathan era già
ragazzino, aveva i suoi amici, la scuola, i passatempi da grande. Ma in quei
momenti in cui non aveva di meglio da fare che giocare con lui, tutto il suo
mondo diventava più luminoso.
Volava.
E crescendo tutto era rimasto uguale. Tra i sei e i
ventisei anni il suo rapporto con Nathan non era granché cambiato, da
quel punto di vista. Per certe cose s’erano avvicinati, quando anche lui
aveva smesso d’essere un bambino. Per altri versi, la vita invece li
aveva allontanati. La politica, il successo, il potere, l’immagine. Il
mondo di Nathan. Così lontano e diverso dal suo, profumato di malattia,
di medicinali, di silenziose agonie. Con una tracolla in spalla e una giacca
spiegazzata, i capelli sempre in faccia e la scarsa voglia di apparire, di
essere visto.
Timido, schivo, imbranato, silenzioso, sognatore,
la lista degli aggettivi con cui veniva etichettato in famiglia poteva
prolungarsi all’infinito, ma il significato era il medesimo, ed era che
mentre Nathan era fatto per le luci della ribalta, lui aveva un destino
silenzioso e invisibile, come uno qualunque. A lui bastava il suo lavoro da infermiere,
la sua famiglia su cui contare e da aiutare, il suo pugno di amici e il suo
alloggio qualunque. Peter, niente di più.
Era vero. Tutto questo poteva sembrare ben poco ad
occhi esterni, ma lui ci credeva. Era il suo mondo, e il punto non era che non
bastasse, perché bastava. Il punto era che non stava scritto da nessuna
parte che dovesse essere così per sempre. Il punto era che un bel giorno
lui poteva benissimo svegliarsi e decidere che no, che non era semplicemente
Peter, che era speciale. Niente lo impediva.
E quel giorno era arrivato.
Sollevò gli occhi verso il cielo pallido e
nuvoloso, finalmente sgombro delle sagome squadrate dei palazzi. C’era
una leggera brezza molto poco metropolitana che gli sembrava di buon auspicio.
Sorrise tra sé, inspirò per mantenere la calma, e allargò
appena le braccia.
Da bambino, il solo sentirsi rivolgere la parola da
suo fratello lo riempiva d’orgoglio. E quando il suo rapporto col padre
s’era incrinato, fino a spezzarsi irrimediabilmente –non era
nemmeno venuto alla festa, la sera dell’incidente di Nathan- si era
istintivamente appoggiato sul fratello maggiore. Ed era stato brutto percepire
via via il suo distacco.
Perché Nathan non era come lui, non lo era
mai stato. Nathan non avrebbe fatto granché se fosse stato in un guaio
serio, probabilmente. Anche se amava ripetere a se stesso il contrario, se
amava dirsi che suo fratello lo considerava importante almeno quando faceva
lui, Peter cominciava a non riuscire più a crederci. Cominciava a
dubitare che in caso di pericolo lo avrebbe aiutato più di quanto fosse
strettamente necessario per non essere accusato d’indecenza.
Era un pensiero triste, forse il più triste
che potesse venirgli in mente. Era doloroso vedere suo fratello sempre
più lontano, era terribile scorgere nei suoi occhi quella scintilla
d’indifferenza e di vago compatimento di chi osserva un perdente. Ma non
poteva più far finta che fosse solo la sua immaginazione. Non dopo
questa storia dei sogni, non dopo essersi praticamente fatto dare del povero
pazzo inutile da Nathan senza tanti complimenti.
Gli voleva bene, suo fratello?
Sì, questo sì. Gli voleva bene
perché era il piccolino e perché erano fratelli. Era un legame che anche volendo non avrebbero mai potuto
cancellare. Come quando aveva sognato l’incidente proprio mentre
avveniva, con sua cognata che si schiantava con la macchina. O più
banalmente come quando Nathan si accorgeva che lui aveva fatto un brutto sogno
anche prima di sua madre, da ragazzino, ed arrivava per primo accanto al suo
letto stringendogli la mano senza dire niente.
O forse gli voleva bene perché doveva farlo,
appunto, perché erano fratelli. Forse era l’unica ragione per cui
ancora, se non lo appoggiava nei fatti, per lo meno non gli negava il proprio
sostegno; non ancora. Ma lui non valeva, comunque, quanto una campagna
elettorale.
Lui di campagne elettorali ne avrebbe mandate a
monte a dozzine, se fosse stato lui quello da votare e Nathan ad avere bisogno
d’aiuto. Avrebbe staccato dal muro il cartellone con la propria
fotografia sorridente e sarebbe corso a casa di suo fratello a vedere che
poteva fare per lui, e tanti saluti al Congresso. Ma Nathan era diverso. Nathan
era Nathan, e a lui andava bene così com’era. Solamente, ogni
tanto avrebbe voluto che anche per il fratello valesse lo stesso
principio. Invece no: per il
primogenito dei Petrelli, non si trattava del fatto che Peter era Peter ed
andava bene così, no; Peter era solo
Peter e quindi andava bene
così.
O forse no. Forse stava pensando troppo. Ma era
confuso, spaccato tra un nervosismo spaventato ed un’ansia febbrile ed
euforica, da giorni. Tutto si faceva nebuloso, a pensarci così,
attraverso il filtro dell’aspettativa che ormai non riusciva più a
tenere sotto controllo.
Sentì il motore della macchina che si
avvicinava e sorrise istintivamente, vittorioso; era arrivato il suo momento.
Finalmente Peter non sarebbe stato più soltanto Peter e Nathan avrebbe
dovuto ammettere la realtà dei fatti. Badando a rimanere a filo oltre il
bordo del tetto, per non essere ancora visto –anche se Nathan non era
proprio il tipo da perdere tempo a guardare per aria- si sporse appena per
guardare verso il basso, e vide il fratello scendere dal taxi con il cellulare
incollato all’orecchio. E immediatamente il suo telefono vibrò silenzioso
contro il suo fianco.
Lo trasse dalla tasca della giacca, con calma, e
premette il tasto della ricezione.
“Ok, sono qui,” lo informò
Nathan attraverso l’apparecchio. Annoiato, impaziente di tornare ai suoi
doveri di candidato, probabilmente.
“Bene,” rispose lui tranquillo.
E non stette a sentire la risposta, ma
allungò la mano al di sopra del baratro e lasciò cadere il
proprio telefono nel vuoto, in cuore la ruggente certezza che in quello stesso
momento la sua vita stesse per cambiare per sempre.
“Cosa vuoi che faccia adesso?...
Peter?”
Suo fratello sollevò lo sguardo verso
l’alto nell’udire il rumore dello sfortunato oggetto che andava in
frantumi schiantandosi a terra; l’idea di poter fare la stessa fine
sfiorò la mente di Peter solo per un secondo e ne fu ricacciata con
sicurezza, mentre lo sguardo di Nathan correva sempre più in alto fino a
raggiungere la sua sagoma sul cornicione del palazzo.
“Sono rimasto sveglio tutta la notte a
pensare a questo. A pensare al mio destino,” urlò il più
giovane con sfida, guardando verso il basso trionfalmente.
Nathan Petrelli non era più il candidato del
Congresso, d’improvviso, e Peter se ne rese conto con istintiva
soddisfazione: la maschera di compostezza era andata in frantumi, lo sguardo
spaventato e atterrito del maggiore era fisso su di lui con urgenza e paura.
Paura per il suo fratellino, troppo preso dagli
eventi per rendersene conto.
“Cosa stai facendo, Pet?” domandò
ansioso, febbrilmente riflettendo su cosa fare e come fermarlo, impotente.
“È il mio turno di essere qualcuno, Nathan.”
Una constatazione. Un velo che si apriva mostrando
al Congress man quel che non aveva mai saputo vedere, immerso nel rincorrere il
trionfo e la posizione favorevole al successo.
“Dai, Peter, smettila di fare
l’idiota,” intimò cercando in qualche modo di trattenere la
paura, che diventò terrore muto e totale nel momento in cui Peter
spalancò le braccia e chiuse gli occhi, la testa appena sollevata verso
l’alto.
Solo per un istante, per prendere fiato e calmare
il proprio cuore infiammato, Peter tenne le palpebre serrate e rimase immobile,
ignorando il fratello giù in strada, ignorando tutto quel che non era
lui stesso. Riaprì gli occhi e sporse il piede nel vuoto, poi si
lasciò cadere.
Il suo momento.
Nathan lo vide venir giù come un fantoccio
di stoffa, a volo d’angelo. Per un istante lo rivide bambino, quando si
faceva lanciare per aria e gli franava addosso come una slavina, facendosi
afferrare, e pensò soltanto che lo doveva fare di nuovo, in qualche
assurdo modo, che non poteva stare a guardare mentre suo fratello si
sfracellava al suolo e gli moriva davanti, perché non l’avrebbe
potuto sopportare e sarebbe andato in pezzi anche lui, dentro.
L’istante dopo era per aria, di nuovo,
sfrecciava addosso a Peter e lo afferrava con tutte le sue forze, prima ancora
di aver capito esattamente come, solo pensando che per nessuna fottuta ragione
al mondo doveva lasciarlo andare, e lo chiamò, con tutta la rabbia e la
paura che il suo gesto gli aveva fatto esplodere addosso, unite al sollievo di
vederlo ancora respirare.
“Peter!”
“Stai volando, Nathan,”
Stupore, voce quasi infantile. Peter lo guardava
con gli occhi sgranati, appeso alle sue braccia col vuoto sotto i piedi.
Non era lui quello che volava. Era Nathan. Suo
fratello volava, era meraviglioso.
“Stai volando,” ripeté allibito.
“Come fai?”
“Non lo so,”
Non lo sapeva, no. Non era proprio che si fosse
messo a rifletterci su, in quella situazione, o a chiedersi se fosse il caso di
fare a pezzi allegramente ogni legge fisica e spararsi per aria alla faccia
della forza di gravità: aveva pensato solo che lo doveva salvare, il suo
Peter.
Quello stesso Peter che in quel momento perse la
presa e, nonostante la mano di Nathan stretta spasmodicamente su di lui,
precipitò di nuovo verso terra.
“NOO!”
L’urlo di disperazione del fratello fu
l’ultima cosa che Peter sentì. Curiosamente gli parve
d’impiegare molto tempo a toccare terra, ma quando lo fece doveva essere
già svenuto.
Nathan invece lo guardò andare giù
con la morte negli occhi, nel sangue, nei polmoni nello stomaco. E gli si spezzò il
fiato con un gemito incredulo quando lo vide rallentare la caduta, a pochi
metri da terra; come se avesse aperto il paracadute Peter planò quasi delicatamente a terra, anche
meglio di quanto avrebbe potuto fare lui che, a quanto pareva, volava.
Raggiungendo il suolo più in fretta che
poté gli si precipitò addosso, singhiozzando di sollievo nel
constatare che effettivamente era vivo.
“Fottuto pazzo,” sibilò tra i
denti perdendo la calma e lasciando affiorare la tensione e l’angoscia
provate in quei momenti di terrore. “Sei fuori di testa,
maledizione,” mormorò con voce spezzata, stringendo la mano sulla
spalla del fratello incosciente con più forza di quanto si rendesse
conto e soprattutto con un’urgenza che lasciava pochi dubbi
sull’effettiva natura del suo sbotto, non d’ira ma di sollievo.
Recuperò il proprio cellulare, affrettandosi
a chiamare un’ambulanza.
E poi si sedette a terra, la mano ancora poggiata
non più sulla spalla ma sulla testa di Peter, tra i capelli. La
lasciò lì immobile mentre studiava il volto assente del ragazzo,
facendo mente locale.
Volava, anche lui.
Gli sfuggì un sorriso incontrollato, cento
volte più vero di quello del manifesto elettorale.
Era proprio suo fratello, quel demente.
Note di chiusura:
Il dialogo tra Peter e Nathan probabilmente
è diverso da quello che conoscete: me ne scuso, ma io non ho visto il
telefilm in italiano e ho tradotto direttamente dalla versione originale,
probabilmente in modo diverso da quello dei doppiatori. L’ultima parte,
invece, è ovviamente farina del mio sacco. E, per la precisione, anche
il “bene” che Peter esclama al telefono è roba mia: ho
pensato che ci stava bene che dicesse almeno una parola, e del resto nella
puntata non si capisce bene se non risponde o se noi non sentiamo la risposta
attraverso il telefono di Nathan.
Anche l’episodio dei giochi infantili dei due
fratelli è mia invenzione, e mi sembra abbastanza verosimile. Io quel
gioco con mio fratello lo facevo in continuazione, come quello di farmi roteare
intorno a lui tenendomi alle sue mani; una volta mi ha quasi ammazzata
perché ha perso la presa e io mi sono andata a schiantare contro il
muro. Eh, i fratelli…
Commentini?