Neverland { to Kensington Gardens }
«Perciò esistono tanti mondi diversi?»
«Certo che esistono! Io ci sono stata.»
Wendy
Darling era una ragazzina come tante, con la dote tutta particolare di saper
raccontare storie incredibili e farle suonare come se non potessero essere che
vere.
Le altre bambine a scuola avevano
scoperto da tempo che, quando si faceva il nome di Wendy
Darling, molte mamme storcevano il naso e molti papà borbottavano parole pericolosamente
simili a «nient’altro che sciocchezze»; pure, le altre bambine a scuola non smettevano
di cercarla, di ascoltarla, di ridere con lei e strillare quando le storie si
facevano scure come la notte – e qualche volta le raggiungevano persino i
bambini, perché Wendy Darling parlava di sirene così
come di pirati, raccontava di guerre agli indiani così come di fatine ammantate
di polvere dorata. Forse Wendy Darling non era una ragazzina come tante,
dopotutto.
«Come si chiama quel posto?»
«L’Isola Che Non C’è.»
Accadde però che un giorno Wendy Darling venne a scuola senza sorridere. La sua
storia, quella volta, era buia, fredda, piena di ombre misteriose venute a
spegnere tutte le luci del mondo. Le bambine storsero il naso come le loro
mamme e i bambini borbottarono come i loro papà: era una storia che non piaceva
a nessuno, questa, nient’altro che una
sciocchezza.
La
magia richiede sempre il suo prezzo.
Per molto tempo, dopo, non fu ben chiaro
perché Wendy Darling avesse cominciato a tacere, a sedere
da sola, a disegnare su pezzi di carta sgualciti sempre una stessa figura di
ragazzo sospeso nel cielo, a piangere in silenzio; qualcuno – non si seppe mai
chi per primo – pensò di trarre da quel suo inaspettato cambiamento la
conclusione di un abbandono, dell’ombra venuta dal mondo felice in cui non si
cresceva mai che d’improvviso non veniva più a trovarla, che l’aveva lasciata
lì a crescere, da sola, come una
ragazzina qualsiasi.
Wendy
Darling lasciò che lo credessero. Non disse mai a nessuno che l’ombra era
troppo nera – molto più nera delle guance sporche di fuliggine del ragazzo – e
che il ragazzo non era affatto l’ombra. Adesso che aveva perso ogni voglia di
raccontare storie incredibili e farle suonare come se non potessero essere che
vere, adesso che era cresciuta, Wendy Darling era davvero soltanto una ragazzina come
tante.
Il nome di Peter Pan, però, volle
inventarlo lei.
«E non lo rivedrai più, mamma?»
«No, Jane. Mai più.»
«Vostra figlia non ha nulla, signori
Darling. Non vedete? I sintomi parlano chiaro. Non è altro che la fine del
primo amore...»
Spazio dell’autrice
Probabilmente
vi starete chiedendo cosa diavolo mi passa per la testa. Ehm. Vediamo. Cercherò
di trovare una logica.
Comincio
col dire che il Bae/Wendy è
praticamente il mio nuovo OTP e non rimpiango niente. Da tempo OUAT non mi
emozionava così tanto come in questo episodio, nel quale s’instaura un dolcissimo,
delicatissimo rapporto tra chi è già stato costretto a crescere suo malgrado e
chi sta imparando a farlo, perché all magic comes with a price: non lo so, io li amo, un pensierino per loro era
doveroso e – e niente, volevo arrivare anche alla concezione comune odierna
della favola di Peter Pan, così ho immaginato che dopo il ‘sacrificio’ di Bae Wendy perdesse ogni volontà
di raccontare storie, crescendo,
appunto, e che solo le romanticherie delle sue ingenue compagne di scuola
abbiano trasformato una sorta di racconto dell’orrore in una storia
strappalacrime di presunto (ma anche no) amore finito. Come dire, il mondo ha
pensato che Wendy fosse stata abbandonata dalla sua ‘Ombra’
(identificandola con l’immaginario Peter Pan), e lei gliel’ha lasciato pensare perché
la verità era molto più difficile da accettare.
Certo,
il mio headcanon è molto più complesso di così; mi
piace pensare che nessuno sapesse che i Darling ospitassero un trovatello, perché
da parte di una famiglia di classe medio-alta poteva sembrare una cosa
disdicevole, e poi c’è anche il fatto che Wendy ha
dovuto inventarsi chissà cosa per spiegare ai genitori la scomparsa di Bae – e tutto ciò non si evince dalla flash, lo so, ma volevo
focalizzarmi solo sulla ‘crescita’ di Wendy: pietà di
me e dei miei poveri logori feels.
Il titolo
vuole essere un gioco di parole: va inteso nel suo significato letterale, e
cioè mai atterrare a Kensington
Gardens.
Povero
Bae. Sul serio, povero, povero Bae.
Aya ~