Me la ricordo quando mi chiese di giocare con lei in giardino. Indossava il vestitino rosso e teneva in mano la sua palla.
Non potei accontentarla. Le dissi che dovevo lavorare. Andò da sola e fece rimbalzare la palla in terrazza, mentre io continuavo a guardare le impassibili parole sullo schermo del mio portatile.
Una domenica mi chiese di portarla al parco. Allora indossava il vestitino blu, e aveva già preso il suo berrettino per proteggersi dal sole. Non ce la portai, al parco. C’era la partita in televisione, ed era il mio unico giorno di riposo.
Altre volte mi chiese di accompagnarla allo zoo, di prenderle un coniglietto o un cagnolino, di fare una passeggiata con lei.
Erano sempre richieste timide, perse in un mare di nebbia costituito dalla paura. Aveva sempre paura di chiedere, la mia piccolina. Forse sapeva che avrei sempre rifiutato, che non avrei mai avuto tempo per lei. Eppure chiedeva, quasi volendo farmi intendere che lei sarebbe sempre stata lì, quando avrei avuto tempo per lei. Voleva dirmi che non sarebbe mai stato troppo tardi, che ci sarebbe sempre stato un altro giorno per andare al parco, allo zoo o al luna-park. Lei avrebbe aspettato.
Veniva da me soltanto pochi giorni alla settimana, mentre passava tutti gli altri giorni con la madre. Non mi ero sposato per amore; non era figlia d’amore, la mia piccolina.
Quel nefasto giorno stavo dormendo. Lei era probabilmente andata a giocare in terrazza, saltando dietro la palla. La ringhiera non era alta.
Venni svegliato dalle urla della vicina.
Allora mi accorsi della mia piccolina.
Ma non mi aspetta più.