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Autore: ermete    08/05/2013    11 recensioni
"Fu il turno dell’ex soldato di ridere “Il gioco non è finito.” mutò poi espressione, tornando serio. Fin troppo serio per quello che aveva definito un gioco “Catene.”
Sherlock registrò il cambio di espressione dell’uomo, ma non seppe attribuirvi la motivazione. L’uomo del mistero lo aveva stupito ancora “Catene?”
L’ex medico militare non attese la spiegazione dell’indizio, fornendo subito il successivo in un crescendo di impazienza e aspettativa “Sbarre.”
Sherlock era decisamente confuso “Ora stai dicendo parole a caso.”
“Specchi.” fu la risposta sempre più atona dell’uomo."

AU in cui John torna dalla guerra e, semplicemente, non è più lo stesso
Hurt/Comfort a palate e leggermente Noir
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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***18408, no, non è il pin del mio bancomat, bensì il numero di parole di questo capitolo (che se sarà sempre un crescendo, non voglio pensare a quante ne avrà il prossimo che è l'ultimo XD)! Chiedo scusa per il ritardo, ma la sfiga si è impossessata definitvamente di me e quindi continuo ad avere problemi di ogni genere -.- e poi questo capitolo è stato parecchio complicato da scrivere, soprattutto una scena, vediamo se indovinate quale XD Piccolo avvertimento: Sherlock è andato definitivamente per i cavoletti suoi e siccome dò sempre la colpa a qualcuno, questa volta è colpa del diurno meheheheh <3 non credo di avere altre aggiunte da fare °_° a parte che buh, il prossimo è l'ultimo e spero di riuscire a farlo uscire in tempi brevi e più corto (SICURAMEND come direbbe fusterya)! Bonci vi lascio alla lettura di sto mattone -_- Ah eh no, non ho pensato di dividerlo perchè non ci sarebbe stata bene una interruzione °_° in my opinion °_° vi spiegherò alla fine perchè! Bonci, BACIO!!!***

Siamo specchi l'uno per l'altro

Da quando John aveva deciso di partecipare anche ai casi di omicidio e rapimento, Sherlock poté registrare dei cambiamenti non trascurabili nella psiche dell'ex medico militare che viveva di giorno e del soldato che viveva di notte. E dati i lenti progressi verso la guarigione del diurno, il notturno sembrava contrariato dall'affiatamento che la sua metà e Sherlock continuavano a consolidare.

Il John diurno stava via via acquisendo maggiore sicurezza, ma se Sherlock pensava che più il pericolo fosse estremo e più la sua reazione potesse rivelarsi potentemente dettata dall'adrenalina e dall'istinto del soldato, scoprì invece che ad un maggiore rischio corrispondeva una crescente paura ed una chiusura all'azione. Avevano rischiato molte volte a causa dell'insicurezza di John, ma Sherlock si sforzava di non redarguirlo per non alimentare la già notevole frustrazione dell'ex medico militare.

Il John notturno invece, contagiato a sua volta dalla lenta guarigione, alternava momenti di aggressività a sprazzi di dolcezza, seppur indirizzati unicamente alla ricerca di un consolidamento  morboso del suo rapporto con Sherlock. Pativa sempre più le sue apparizioni esclusivamente notturne che, inoltre, stavano proporzionalmente diminuendo.

Sherlock reagiva a sua volta in maniera contrastante: se da un lato riservava tutta la sua pazienza al John diurno, subissava il corrispettivo notturno con le domande che ancora non si azzardava a porre alla sua metà. Domande che non sempre trovavano una risposta e che mortificavano Sherlock al punto da cercare la presenza del vero John nei filmati del DVD di cui era entrato in possesso.

 

°oOo°

 

“Ieri è stata dura. Sono intervenuto sul campo a poche centinaia di metri dal centro nevralgico degli scontri, ma alla fine sono riuscito a salvare Pete. Gli ho effettuato una tracheotomia lì, in mezzo alla polvere, coi colpi di mortaio che ancora mi rimbombano nel cervello. Il suono del respiro di Pete è stata la cosa più bella che ha interrotto la confusione di quella sequenza di spari. Poco igienico, ma efficace, per fortuna.” (1)

John è di nuovo sullo schermo del laptop di Sherlock: è il filmato numero diciassette che risale ad un anno e mezzo dopo il suo arrivo a Kandahar. Il suo volto è ancora pieno di energia nonostante le molte missioni già concluse, la carnagione più scura, i capelli mantenuti sui due centimetri di lunghezza sono biondi e pieni della luce del sole che illumina il deserto.

“È stata un'esperienza incredibile, davvero. E Pete non fa altro che ringraziarmi e io a dirgli 'Amico, non preoccuparti, sono qui apposta per evitare che concimiate il deserto afghano. Sai che brutti cactus poi?' ma lui insiste. E poi ha detto una cosa.”

John fa una pausa: si gratta una cicatrice piuttosto recente all'altezza del bicipite destro. Fa saltare una crosticina che, ancora fresca, spurga un piccolo rivolo di sangue. John raccoglie quella goccia rossa e ne saggia la consistenza schiacciandola tra i polpastrelli di pollice ed indice. Ma non sta veramente osservando, John, sta guardando oltre la propria mano ed è in quel modo che ricomincia a parlare.

“Ha detto 'Grazie, Johnny. Senza di te non sarei più potuto tornare da Myka'. Myka è la sua fidanzata ovviamente. E non ho potuto fare a meno di notare che la maggior parte dei ragazzi che vengono feriti in modo grave, si rende conto di quanto ami chi ha lasciato a casa. E sente il bisogno di tornare. Come se venire feriti fosse un avvertimento del tipo 'Vai, ciccio, non fare l'idiota, a casa hai qualcuno che ti aspetta'. E...”

John si ferma nuovamente osservando, finalmente sul serio, le proprie mani: apre i palmi e li guarda finché non porta quello sporco del proprio stesso sangue al viso. Succhia via il sangue da pollice e indice, quindi riprende a parlare.

“E niente. Quindi io, boh, come dire... Non mi congederò mai, credo. A meno che non mi feriscano in modo tale da non essere più utile qui. Perché è ovvio, io non ho nessuno che mi aspetti. Neanche Harry vuole più vedermi dopo l'ultima volta che ho provato a portarla agli Alcolisti Anonimi. E naturalmente non ho una fidanzata che reclama la mia presenza.”

John sbuffa sonoramente e con una smorfia esagerata per nascondere il reale dispiacere che quella confessione gli infligge.

“Qui hanno tutti con sé delle foto. Chi dei genitori o dei figli. Fidanzate o fidanzati. Per l'amor del cielo, c'è chi ha anche una foto del proprio cane!”

John si ferma nuovamente, il tono di voce scende.

“Io non ho neanche un cane. O un gatto. Canarino, criceto, porcellino d'india, iguana. Sul mio balcone non ci venivano neanche i piccioni.”

John porta la mano sinistra sotto in mento e si gratta un piccola escoriazione.

“Forse è anche per questo che sono partito: non sopportavo l'idea di essere da solo e sai, venendo qui almeno ero giustificato. Del tipo che, beh, se non trovo qualcuno qui non è mica colpa mia.”

John scuote il capo e sorride.

“C'è sicuramente qualcosa che non va in me. Non ho neanche voglia di vederla, una donna, se ci penso bene. Nel senso, qui hanno tutti almeno una rivista porno sotto il materasso. Io invece se sento la mancanza di casa vado a trastullarmi con Douglas.”

John si ferma e ripete nella propria mente quanto ha appena detto ed arrossisce violentemente, scuotendo vigorosamente il capo ed agitando le mani.

“Non trastullarmi in quel senso! Doug ed io siamo solo amici! Non che ci sarebbe nulla di male in caso, sia chiaro. Ma non sarebbe comunque il posto adatto e poi... oh, su, insomma, ci siamo capiti. Non sono neanche gay! O almeno, finché mi capitavano delle donne per le mani non lo ero per certo!”

John sbuffa e si blocca qualche istante: sta pensando a qualcosa, ma non si può intuire l'entità dei suoi pensieri. Poi riprende a parlare.

“Doug mi piace, ma non in quel senso, curiosone di uno psicoanalista che andrai ad valutare questi video. E comunque, anche se fosse, non verrei certo a dirlo a te. Bye bye.”

John interrompe il video-log.

 

°oOo°

 

Una notte Sherlock si ritrovò sotto il corpo di John, immobilizzato dal suo peso e dalla mano sinistra che gli bloccava entrambi i polsi poco sopra la testa “John.” lo chiamò per l'ennesima volta, ma il soldato sembrava non voler ascoltare i suoi appelli. Appena si era ripreso dall'episodio di sonnambulismo, infatti, il soldato gli si era subito sdraiato addosso impedendogli qualsiasi movimento “Smettila per favore.” chiese quando lo sentì intrufolare il viso tra i due lati della camicia viola ormai completamente slacciata.

“No.” fu la perentoria e inderogabile risposta di John che iniziò ad esplorare il torace di Sherlock con labbra, lingua e denti “Sono diciassette giorni che non ti vedo.” sottolineò col tono di voce il lasso temporale che li aveva divisi, affibbiandovi anche una connotazione accusatoria.

Sherlock sospirò e roteò gli occhi verso l'alto: provò invano a liberare i polsi, ma la presa del soldato era quanto mai salda “Non è un buon motivo per saltarmi addosso.”

“Sì che lo è.” lo contraddisse John, marchiando il pallido torace di Sherlock con i segni dei propri morsi e rinvigorendo la propria presa attorno ai suoi polsi ogni volta che lo sentiva opporre resistenza. Insinuò la mano libera tra il materasso e la schiena di Sherlock, spingendo il suo corpo verso di sé alla ricerca di un contatto sempre maggiore.

Sherlock inarcò la schiena lasciandosi fuggire un inevitabile mugolio di fronte alle premure di John. Percepì la lingua dell'altro accarezzargli il torace seguendo le stesse linee ipotetiche tracciate con la lama dal Sarto di Jermyn Street la stessa sera in cui si conobbero: si morse la lingua, trovando quel tocco eccitante in un modo quasi inquietante. Sentì la mano di John scendere dalla sua schiena  seguendo il percorso suggerito dalla colonna vertebrale fino a fermarsi sopra ai suoi glutei con un leggero tocco in punta di dita. Sherlock chiuse gli occhi e smise di provare a liberare i propri polsi, tentando un approccio diverso, più accondiscendente “Perché invece non parliamo?”

“Perché tu parli con l'altro.” fu la risposta rapida e piccata del soldato “Con me invece fai queste cose.” strofinò il bacino su quello di Sherlock, ruotando i fianchi fino a trovarsi completamente a cavalcioni sul bacino dell'altro in una posizione di totale e deliberato dominio.

Sherlock represse una smorfia quando i bacini di entrambi entrarono in contatto: sbuffò un po' d'aria poi, tentando di riacquistare il proprio naturale aplomb e cercando di esprimerlo con la tipica aria di sufficienza “Quando dimostri di essere geloso di te stesso, sei veramente stupido.”

“È colpa tua.” ringhiò John, puntandogli contro l'indice della mano destra “All'inizio preferivi me a lui. Com'è che dicevi? Com'erano le percentuali? Ottanta io, venti lui?” con la mancina strinse ulteriormente la propria presa possessiva attorno ai polsi di Sherlock “Scommetto che i ruoli si sono invertiti.”

Sherlock provò l'impulso di schiaffeggiare il dito che il soldato gli stava puntando contro, estremamente sensibile a quel tipo di affronto. Ma non riuscì ancora a liberarsi, quindi inspirò ed analizzò la situazione: aveva notato che il John notturno era diventato più insofferente e frustrato a causa delle sue scarse apparizioni, ma mai aveva palesato la propria rabbia in un modo così evidente. Poi si concentrò sulle sue parole: le percentuali. Ricordava, ovviamente, la situazione a cui John si stava riferendo: era il loro primo incontro notturno e Sherlock, non conoscendo ancora approfonditamente la personalità del diurno, si era azzardato ad esprimere quella che, in quel momento, era una verità. Lui preferiva il notturno: era più interessante, intrigante, accattivante; tuttavia, più conosceva il diurno, più scoprì che gli riusciva più spontaneo affezionarsi a lui. Da quando aveva visto i DVD e da quando John aveva iniziato a mostrare segni di miglioramento, scoprì che era l'ex medico militare a somigliare maggiormente a colui che aveva visto in video. Al vero John. Dunque era vero: la percentuale era cambiata, ma questo non significava che non tenesse più al John notturno e, soprattutto, non credeva che il soldato se ne sarebbe reso conto così facilmente “John.” provò a chiamarlo, liberando la propria voce da qualsiasi stilla di spocchia. Percepiva il disagio ed il senso di abbandono che colmavano la figura del soldato e ne soffrì, perché anche se le percentuali erano cambiate, lui era sempre e comunque John “Ho bisogno che entrambi guariate.”

Tuttavia il soldato non riuscì a percepire l'empatia di Sherlock “Pensi sempre a quello di cui hai bisogno tu.” avvicinò la mano destra al viso di Sherlock, iniziando ad accarezzargli le guance con una mano pesante e priva di delicatezza “Chi ti dice che io voglia guarire?”

Sherlock non provò neanche a fuggire da quel tocco, poiché sapeva che se si fosse scostato, la mano del soldato l'avrebbe comunque seguito “Sei stato tu a chiedermi di liberarti.”

“Ora non lo voglio più.” il soldato gli sfiorò il viso con lo sguardo prima di tornare ad osservargli il torace marchiato dai segni del suo passaggio. Sussurrò due parole in una lingua straniera  e quando stava per chinarsi a giocare nuovamente con la pelle candida dell'uomo sotto di sé, fu interrotto dalle parole di Sherlock.

“Mi stai dicendo che preferiresti vivere così sporadicamente, di notte, legato alla debolezza fisica della sonnolenza?” gli chiese prima di far mente locale alla ricerca del significato delle parole pronunciate dal soldato: non le conosceva, ma l'asprezza della pronuncia gli suggerì la provenienza di un qualche dialetto medio orientale.

“Pur di averti tutto per me.” si giustificò il soldato che abbandonò il pensiero precedente a favore del viso di Sherlock che continuò a studiare e a toccare con l'unica mano libera: la mancina non voleva accennare a liberare i polsi dell'altro.

Sherlock sospirò: decisamente, rimanere in una posizione forzatamente passiva non faceva per lui ed inoltre i polsi iniziavano a dolergli per la circolazione in parte bloccata. Ma resistette ancora, per John, per quella porzione di psiche che sembrava essere regredita ad un livello che per molti versi poteva definirsi più infantile “Quando guarirete entrambi, non ci sarete più tu e lui, sarete una sola persona.”

D'altro canto il soldato insisteva con il proprio punto di vista falsato da quello sporadico ma persistente episodio di paranoia e dalla insoddisfazione riguardante la propria condizione “Appunto, io non ci sarò più.”

A quel punto Sherlock perse la pazienza: non era abituato ad assecondare le persone quando avevano, raramente, ragione, figurarsi quando insistevano a mantenere un atteggiamento infantile. Ruotò dunque gli occhi verso l'alto e sbuffò “Non fare la vittima ascoltando solo le parole che ti fanno comodo. Ho detto che...”

Lo sguardo di John mutò: l'orgoglio del soldato si risentì per una specifica parola “La vittima, io?” ringhiò e liberò i polsi di Sherlock solo per poter portare entrambe le mani attorno al collo dell'altro “Sono un soldato, Sherlock.”

Sherlock non fece in tempo ad aprire e chiudere le mani per riattivare la circolazione, che si stupì nel ritrovarsi il collo ingabbiato dalla presa di John: il battito accelerò, ma non temette per la propria vita “Lo stai facendo di nuovo, stai ascoltando solo quello che vuoi tu.” le sue certezze iniziarono a vacillare quando sentì il soldato rinvigorire la stretta: faticò a deglutire ed iniziò a respirare più forte alla ricerca di maggiore aria “John... mi stai facendo male.” quando portò le mani sui polsi di John nel tentativo di sfuggire alla sua presa, si accorse di qualcosa che lo disorientò. Vide John avvicinarsi al suo volto, rapito da chissà quale visione: lo vide bloccarsi a due centimetri dal proprio viso, i nasi che si sfioravano, la già poca aria presente era condivisa da entrambi, le pupille di ambedue dilatate seppur per motivi diversi. La presa non dava segno di cedimento e Sherlock non era colpito tanto dal dolore fisico, quanto dal fatto che fossero le mani di John ad infliggerglielo “John...” chiamò ancora e invece che provare a sciogliere la presa sul proprio collo, alzò le mani sul viso del soldato, sul volto che apparteneva a colui che desiderava di più al mondo.

Quando percepì le mani di Sherlock sul proprio viso, John riuscì a distaccare il proprio sguardo il tanto che bastava per ridestarsi da quella sorta di intontimento in cui era caduto: balzò prima all'indietro, quindi di lato, scendendo dal corpo di Sherlock. Lo osservò tossire per recuperare fiato e ogni suo istinto fu annullato: non c'era il medico pronto a rimediare alla situazione e non c'era nemmeno la tempra del soldato per fargli superare quello shock. Si guardò le mani: la sinistra iniziò a tremare.

Quando Sherlock ritornò a respirare correttamente, si tirò su a sedere ed osservò John: il soldato non aveva mai mostrato segni di debolezza, non aveva mai palesato segni di paura e, soprattutto, non aveva mai dato segni di cedimento a favore dell'altra metà della propria psiche. Sapeva che John non avrebbe mai voluto fargli del male: erano capitati gli schiaffi, i morsi e le prese costrittive, ma non erano mai finalizzate ad arrecare un reale dolore fisico. Lo sapeva, così come ora vedeva i chiari segnali dei sensi di colpa verso ciò che aveva fatto e nei riguardi di quel qualcosa che doveva aver visto e che lo aveva bloccato al punto da irrigidirlo in quel modo. Fu dunque senza alcuna paura che si avvicinò a John e, in ginocchio davanti a lui, gli prese le mani tra le proprie ed si abbassò il tanto che bastava per insinuare il proprio viso tra il collo e la spalla destra del soldato.

Quando John percepì le mani di Sherlock sulle proprie, smise di tremare, per poi ricominciare quando sentì il suo viso riempirgli il collo di un calore che andava oltre la mera percezione fisica: sentì il suo perdono, che non era neanche stato necessario chiedere, scaldarlo. Sentì l'affetto sincero, di cui aveva stupidamente dubitato, avvolgerlo. E sentì qualcosa che Sherlock gli aveva donato già molto tempo addietro: gli aveva restituito il suo posto nel mondo che aveva smarrito mesi prima e che aveva riacquisto la notte stessa in cui si erano conosciuti. La trascendentale certezza di esistere perché qualcun altro ti percepisce, ti vede, ti vive. Certezza smarrita più volte nelle notti in cui si risvegliava sulla branda di un garage buio e freddo con la sola compagnia di un gatto a tenerlo sveglio. Liberò le proprie mani e le strinse attorno a Sherlock: era una presa salda, imprescindibile, ma non costrittiva. Un abbraccio che urlava il concreto bisogno della presenza di Sherlock nella sua effimera vita “Giura che non sparirai anche tu.” implorò l'uomo che mascherava con la forza la sua infinita debolezza “Non voglio più stare solo.”

Sherlock sapeva come John dovesse sentirsi: aveva ricorso molte volte alla cocaina mascherando il reale bisogno con la motivazione della noia. In realtà anche Sherlock, prima di incontrare John, si sentiva molto solo, straniero nella sua stessa casa, schiavo del proprio cervello che gli imponeva sempre la ragione a discapito del sentimento. Sapeva come dovesse sentirsi il John notturno ed era per questo che, nonostante i loro ultimi incontri si fossero fatti sempre più problematici culminando con l'aggressione di quella sera, si era sempre fatto trovare accanto a lui sul letto, dopo il suo risveglio. Aveva capito di amare il vero John, ma sapeva di provare dei fortissimi sentimenti anche per il diurno e per il notturno, perché tutti e tre avevano delle questioni irrisolte che li faceva soffrire e mai e poi mai nella vita avrebbe voluto che provassero dolore. Perché se amare significa desiderare di compiere l'impossibile per fare in modo che la tua metà non soffra alcun tipo di dolore, allora Sherlock provava quel sentimento per tutti e tre. Sherlock appoggiò dunque la mano destra sulla nuca di John e lentamente lo fece sdraiare, ma non ruppe il loro abbraccio, non lo avrebbe mai permesso. Quando poi appoggiò la fronte su quella di John, lo vide chiudere dolorosamente gli occhi: accettò quel gesto, così come accettava tutto quello che il diurno e il notturno gli donavano “Se riuscirò a liberarti...” iniziò, la voce ancora arrochita dalla precedente aggressione del soldato “Se mi aiuterai a farlo, staremo insieme per sempre.”

John annuì, ma non volle aprire gli occhi: seguì a tastoni la linea del collo di Sherlock, sfiorandolo appena, come se la sua pelle stesse bruciando. Non sentì alcuna esitazione in Sherlock, quando gli sfiorò quella parte del corpo che aveva deliberatamente ferito fino a pochi minuti prima e ciò gli creò un accenno di malinconia che gli inumidì le ciglia: il senso di colpa lo opprimeva come un macigno. Si sentì stringere di rimando e quando Sherlock gli sfiorò gli occhi chiusi con le labbra, riuscì nuovamente a parlare “Non volevo farti male.”

Sherlock annuì percettibilmente e si apprestò a consolarlo proprio come lui fece due mesi prima, dopo il grande litigio in salotto. Lo strinse forte e gli costellò il viso con leggerissimi baci: non si curò di oltrepassare il loro limite immaginario, sfiorandogli anche le labbra durante il suo passaggio. Non era un vero e proprio bacio, bensì una carezza, una coccola, un altro dolce perdono non richiesto, ma dato con amore “Lo so.”

“Scusami.” chiese John in un sussurro, perché anche se Sherlock lo aveva perdonato, il peso della sua colpa era ancora troppo grande per non essere sfogato con quella piccola, grande parola. Rimase abbracciato a lui anche quando capì che la stanchezza lo stava cogliendo: gli baciò il collo ferito una, due, tre volte, quindi lasciò che il velo del sonno iniziasse a posarsi su di lui.

“Sì.” lo rassicurò Sherlock che continuò ad accarezzargli il viso anche dopo che si fu addormentato. D'altronde, di tempo per sgattaiolare via ed impedire al John diurno di accorgersi della sua presenza nel proprio letto ne aveva a iosa: aveva tutta la notte.

 

°oOo°

 

La mattina seguente, subito dopo aver fatto colazione, John si ritrovò a gironzolare attorno alla poltrona del coinquilino, la cui ennesima occhiataccia interrogativa, lo spinse a parlare “Sherlock?”

Sherlock sbuffò teatralmente, così come finse palesemente di esser sorpreso da quel richiamo “Sì?”

John continuava a gironzolargli attorno senza smettere di puntargli addosso il proprio sguardo “Sei uscito ieri sera?” domandò dunque, gesticolando più del dovuto come faceva sempre quando doveva chiedere qualcosa di imbarazzante o bizzarro “Dopo che sono andato a dormire?”

“No.” replicò Sherlock con naturalezza riuscendo a dissimulare la sorpresa suscitata da quella domanda, ma il suo sopracciglio destro si inarcò “Perché?”

John emise un un piccolo sbuffo dal naso che arricciò per un istante “Allora cosa hai fatto al collo?” finalmente arrestò i propri passi e lo fece proprio di fronte a Sherlock verso il quale alzò l'indice della mano destra “Ieri non avevi questi segni.”

Sherlock sbuffò e dopo aver archiviato l'idea di aggiungere l'indice destro di John alla sua collezione di dita surgelate, scosse il capo “Non ho nulla.” si rimproverò mentalmente: non aveva minimamente pensato all'eventualità di nascondere i lividi che il notturno gli aveva lasciato. E dire che di trucchi ne aveva, li usava spesso per i suoi travestimenti durante i casi.

John insistette: intrecciò le braccia al petto e perorò la propria causa “Ti assicuro che hai dei lividi e...”

Shush!” intimò Sherlock che assunse la sua posa ideale: mani congiunte sotto il mento, gambe allungate, caviglie accavallate, occhi chiusi “Palazzo Mentale.” usava spesso quell'espediente quando voleva evitare le chiacchiere di John e il suo coinquilino si era ormai abituato a quel suo atteggiamento, quindi sperò di esser riuscito ad evitare quella conversazione.

John, infatti, smise di indicare i lividi di Sherlock, girò i tacchi e sparì in bagno. Tornò dopo un minuto nascondendo qualcosa in mano “Sai, è strano.” borbottò poi, non sicuro che Sherlock lo stesse realmente ascoltando. Gli si sedette di fronte e riprese il discorso “Per pura coincidenza mi sembra di aver fatto un sogno in cui strozzavo qualcuno.”

Sherlock dovette trattenersi dall'aprire gli occhi di scatto: inspirò lentamente e posò lo sguardo su John con studiata lentezza “Strana coincidenza.” concordò per non destare sospetti “Non ti ricordi nient'altro a riguardo?”

John scrollò capo e spalle “No. Siccome era un sogno piuttosto fastidioso non mi sono sforzato di ricordarlo ed è semplicemente svanito.”

Sherlock annuì e tirò mentalmente un sospiro di sollievo “Capisco.”

John stette in silenzio per qualche istante, poi parlò nuovamente “Non sono stato io, vero?”

Sherlock dovette ringraziare i molti anni passati ad ignorare i bisogni delle persone, grazie ai quali riuscì a nascondere il turbamento che la specifica domanda di John gli creò “Come avresti potuto?” si sforzò di mantenere il proprio atteggiamento neutro e distaccato, senza esagerare alcuna esternazione in positivo o in negativo.

“Non lo so.” sospirò John che, tuttavia, era sollevato all'idea di non essere stato il fautore di quei lividi ai danni di Sherlock “Non ne ho idea.”

“Perché non esiste un'idea plausibile, John.” rispose Sherlock atono, pronto a chiudersi, realmente, nel proprio Palazzo Mentale.

Ma John non sembrava soddisfatto delle risposte ricevute. D'altronde quei lividi non potevano significare altro che qualcuno aveva osato fare del male a Sherlock e l'idea non lo aggradava per nulla “Non vuoi proprio dirmi chi ti ha fatto quei segni?”

“Potrei dirtelo, ma poi dovrei ucciderti.” lo stupì Sherlock, sperando che una citazione presa da quella scatola infernale che John amava tanto potesse distrarlo a sufficienza.

John, infatti, si stupì per quella particolare esternazione “Hai guardato la televisione senza di me?”

Sherlock alzò le spalle e chiuse gli occhi: era sazio di parole “Palazzo Mentale.”

John sbuffò di nuovo, ritrovandosi a fantasticare sull'idea di poter possedere le ipotetiche chiavi del Palazzo Mentale di Sherlock per poterlo così chiudere per restauro ed avere il coinquilino presente e comunicativo almeno cinque ore al giorno. Si alzò poi e dopo essersi messo davanti a Sherlock, gli scostò delicatamente le mani da sotto il mento “Posso almeno metterti un po' di pomata su quei lividi?”

Sherlock si ritrovò a mugolare, dando così il consenso alla richiesta di John “Mmh.” piegò la nuca all'indietro e si ritrovò a pensare a quanto paradossale fosse quella situazione: le mani che in quel momento si stavano prendendo cura di lui, erano le stesse che solo poche ore prima lo avevano ferito. Ma John era anche questo, era il suo paradosso vivente. Chiuse gli occhi e non fece in tempo a rilassarsi che la voce dell'altro lo colpì.

“Sherlock, è un succhiotto questo?” domandò John, senza neanche accorgersi di aver alzato la voce di un'ottava e averle dato una cadenza aspra e inacidita: scostò un poco il colletto della maglia di Sherlock dal quale aveva visto spuntare un segno rosso e circolare.

In questo caso, Sherlock non riuscì proprio a mantenere il suo classico aplomb “Un succh... no!” smentì subito coprendo il segno col colletto della maglia.

“Esci con qualcuno?” incalzò John, rendendosi conto solo dopo aver pronunciato quelle parole quanto dovesse sembrare sciocco e, sicuramente, più invadente del dovuto.

“No!” Sherlock negò scuotendo il capo con vigore, ma vedendo l'espressione poco convinta di John, decise di cambiare tattica e di pungerlo su un nervo scoperto “Non potrei mai deludere tutte le persone che ci vedono come una coppia.” ridacchiò, pregustando la reazione che si aspettava da John.

Reazione che, di fatti, arrivò: John si ritrovò a spremere il tubetto della pomata con fin troppo vigore per l'imbarazzo che quelle parole gli avevano arrecato “Noi non siamo una coppia!” balbettò imbarazzato recuperando alla buona la crema che gli era finita sul dorso della mano.

“Ma tu sei geloso, ora.” lo stuzzicò Sherlock, divertito dall'imbarazzo di John, crogiolandosi nella sensazione che anche il diurno potesse provare gelosia nei suoi confronti. Gelosia non giustificata, ma che gli solleticava le sinapsi in messaggi di dolce piacere.

“Non dire sciocchezze.” borbottò John che dopo avergli posato la mano sotto il mento, gli alzò il volto e tornò ad osservare i segni sul collo candido di Sherlock “E non cambiare discorso. Quello è un succhiotto? Te lo ha fatto la stessa persona che ti ha fatto quei segni sul collo?”

Sherlock, il cui cervello aveva elaborato una possibile scappatoia per quella situazione, afferrò il polso di John e lo guardò con aria greve “Ebbene sì.” annuì, per poi ammiccare scherzosamente “Vuoi sapere chi è?”

John arrossì nuovamente, provando invano a divincolarsi dalla presa di Sherlock “Non che siano affari miei...” borbottò fintamente disinteressato.

“Douglas.” Sherlock trattenne a stento una risata.

John si calmò, ma finì con l'arricciare le labbra in avanti, incredulo “Douglas?” non sembrava molto convinto “I gatti non fanno i succhiotti, Sherlock.”

“Infatti non è un succhiotto: mi ha dato un morso, mi sono grattato ed è venuta fuori questa macchia.” sospirò teatralmente immedesimandosi in una delle sue migliori espressioni facciali alla 'Possibile che tu non capisca queste banalità?'. Sbuffò ancora, poi, ingigantendo la propria bugia “Questa notte ho provato a fare un esperimento che lo riguardava e... mi si è ritorto contro.”

John lo osservò a fondo, come se stesse valutando la veridicità di quanto appena raccontato da Sherlock. Quando poi udì la sua ulteriore spiegazione, sul suo volto si calò un velo di rimprovero “Cosa volevi fare al mio gatto?”

Nostro.” lo corresse Sherlock che, dopo aver reclinato il capo all'indietro, avvicinò la mano di John al proprio collo.

John non capì la risposta di Sherlock “Cosa?”

“Il nostro gatto.” specificò, disegnando un ghigno malizioso sul viso.

“Va bene, cosa volevi fare al...?” John si interruppe, rassegnandosi alle neanche tanto velate implicazioni di Sherlock e rassegnandosi all'idea che il suo amico e coinquilino avesse provato a fare il dottor Frankenstein con Douglas: d'altronde, aveva già visto e coccolato il felino quella mattina e non gli sembrava di aver riscontrato qualche strana ferita sul suo corpo. Sospirò rumorosamente e riprese a spalmare la pomata sul collo di Sherlock “Ahhh, non lo voglio neanche sapere. Ma sappi che ha fatto bene a darti una lezione.”

“Mmh.” mugugnò Sherlock che, una volta percepita la mano di John nuovamente su di sé, liberò la propria presa sul suo polso “Preferisci sempre Douglas a me.” borbottò al limite tra lo scherzo e un reale capriccio, poiché nella sua mente l'immagine del gatto e quella del soldato irlandese continuavano a sovrapporsi.

John sorrise divertito e lusingato “Chi è quello geloso ora?”

Sherlock circondò le gambe di John con le braccia: sapeva che più lo provocava e più l'amico si imbarazzava. Ma d'altro canto, più John si imbarazza e più Sherlock si divertiva, quindi portò avanti quello scherzo “Quindi ammetti che prima eri geloso?”

John si esibì in una lunga nota nasale data sia dall'imbarazzo per il gesto di Sherlock che per la verità delle sue parole “Non dovevi andare nel tuo Palazzo Mentale?” chiese poi, cercando una via di fuga che interrompesse quella conversazione.

“Questo discorso è più interessante.” Sherlock gongolò soddisfatto come non gli succedeva quasi mai e sicuramente non per merito di una singola persona che, semplicemente, si rapportava con lui con chiacchiere senza importanza. Gongolò e non era per merito di un triplice omicidio, un intrigo internazionale o un enigma senza fine, bensì per il puro piacere di condividere la propria vita con qualcuno così speciale da renderlo umano.

John non disse più nulla perché sapeva che intimamente concordava con Sherlock e perché con loro funzionava spesso così: non avevano bisogno di troppe parole per poter stare bene l'uno con l'altro, per allontanare le paure e per sentirsi al sicuro. Continuò a spalmare la pomata anche quando la superficie livida della pelle era già stata coperta interamente, chiuso in quel bizzarro abbraccio che li vide uniti per buona parte della mattinata.

 

°oOo°

 

La popolarità di Sherlock Holmes e John Watson aumentava di pari passo con il numero di crimini risolti e la fama portava con sé sfide sempre più numerose e particolari. Dalle più bizzarre competizioni di intelligenza che variavano dalle frodi finanziare e informatiche, alle più pericolose sfide lanciate da geni del crimine o corrispettivi emulatori.

Capitò infatti che a sfidare l'intelligenza del consulente investigativo fu un ammiratore del Sarto di Jermyn Street. Tutto era nato da un intensivo scambio epistolare tra il Sarto ed un giovane sostenitore del suo favoloso lavoro, il quale, una volta conosciute le dinamiche dell'arresto del suo idolo, aveva deciso di vendicarlo prendendo di mira niente meno che John.

Così nacque la figura del Riparatore, soprannome scelto dall'emulatore stesso e che la stampa adottò di buon grado, nomea che gli calzava a pennello dato il suo modus operandi. Studiava in precedenza le proprie vittime in modo da sapere per certo che sui loro corpi fossero presenti delle cicatrici, quindi non solo emulava il Sarto ricucendo la pelle dei malcapitati in modo artistico, ma sceglieva di concentrare le proprie attenzioni proprio nei punti in cui i corpi erano segnati da sfregi chirurgici, tagli, macchie, o qualunque altra cosa stonasse in quella specifica carnagione. Infine, firmava i cadaveri con una cucitura che riportava il suo nome: The Repairer.

Lo scopo del Riparatore con le sue prime vittime era niente meno che acquisire la pratica necessaria per poter regalare la sua opera d'arte al Sarto che, anche se in prigione, sarebbe venuto a conoscenza della notizia dai quotidiani. Qual piacere dunque fu per il Riparatore apprendere che il responsabile dell'incarcerazione del Sarto era stato un soldato: chissà quante cicatrici avrebbe potuto correggere, chissà quanto sarebbe stato gradito il suo regalo? Non gli restava che scoprirlo.

E lo scoprì una sera, dopo aver passato un intero pomeriggio a pedinarlo conclusosi con John che si domandava perché si sentisse improvvisamente così stanco e perché gli prudesse inspiegabilmente la parte posteriore del collo.

 

Dopo aver preso John alle spalle e avergli iniettato un sonnifero con un iniettore a penna, il Riparatore lo aveva spinto in un sudicio vicolo: attese che l'ex medico militare finisse di lottare contro il sonno trascinandosi tra i bidoni della spazzatura, quindi lo caricò su un'auto e partì verso il proprio nascondiglio.

Il Riparatore legò le caviglie e i polsi di John ai quattro angoli di un letto singolo, quindi iniziò a preparare i propri ferri del mestiere: sistemò su un vicino tavolino alcune lame di diverso taglio e spessore e, accanto, un kit di sutura maniacalmente simile a quello usato dal Sarto. Poi, quando vide che John iniziava a svegliarsi, seguì il modus operandi del Sarto, sedendoglisi a cavalcioni sul bacino per potersi muovere con maggior destrezza durante il compimento della propria opera d'arte.

Il Riparatore, infine, parlò “John Watson, il cane da compagnia di Sherlock Holmes.” lo chiamò mentre iniziava a slacciargli la camicia, ansioso di conoscere la tela sulla quale avrebbe cucito il proprio personalissimo omaggio al Sarto.

John stava via via riprendendo conoscenza, ma la verità era che si sentiva ancora molto confuso: ricordava cosa fosse successo, rammentava la puntura, il vicolo, il sudiciume dei bidoni della spazzatura, la pistola che gli cadeva dai jeans e l'ombra di un'auto, ma non riusciva ancora a dar voce ai propri pensieri.

Nel mentre, il Riparatore continuava il proprio monologo “Per colpa tua il magnifico lavoro del maestro è stato interrotto prematuramente. E dire che si stava dedicando proprio alla sua opera di spicco.” sbottonò lentamente la camicia, stando attento a non scoprire ancora la pelle di John, preferendo tenersi il dolce alla fine del proprio metaforico pasto “Sherlock Holmes, con la sua pelle perfetta.”

La pelle perfetta di Sherlock. Quel ricordo lo riportò definitivamente alla realtà, alla memoria della prima notte in cui si incontrarono, durante la quale fu lui stesso a ricucire i tagli del Sarto sulla pelle diafana di Sherlock. Provò a muovere polsi e caviglie, ignorando ancora le parole del Riparatore.

“Ma ora rimedierò al tuo errore offrendo in dono al maestro il tuo corpo.” disse il Riparatore con voce adorante e quando ebbe finito di slacciarla, allargò i lembi della camicia ed iniziò ad esaminare la pelle di John. Fu con soddisfazione che passò i polpastrelli di pollice e medio sui tagli più o meno profondi cosparsi sul busto di John “Suppongo che essendo stato in guerra tu sia pieno di cica...” si bloccò letteralmente quando arrivò a scoprire la spalla sinistra, provando un brivido di reale piacere di fronte alla cicatrice che più di tutte macchiava la pelle di John di un rosa chiaro.

John rabbrividì al tocco del Riparatore, provando istintivamente a divincolarsi quando scoprì la cicatrice della spalla che da mesi ormai cercava di ignorare pur avendola sotto il proprio sguardo. Non disse nulla, non ancora, ma percepì un accenno di rabbia crescere dentro di sé. Paura che si mischiava a collera, passato che si intrufolava senza permesso nel presente, ricordi repressi che sfidavano il muro delle sue difese.

Il Riparatore disegnò dei cerchi col polpastrello dell'indice sulla cicatrice di John, tracciando la bozza del disegno che aveva intenzione di ricamarvi addosso “Oh, buon dio.” commentò più che altro a se stesso, incurante del fatto che John gli rispondesse o meno “È anche meglio di quanto sperassi.”

John si ritrovò a combattere una lotta interiore nella quale l'istinto di ribellarsi combatteva contro la paura e la rassegnazione in cui si era crogiolato in quegli ultimi mesi. Mugolò frustrato e distolse lo sguardo dal volto del Riparatore a favore della propria cicatrice sulla quale si soffermò a sua volta.

“Questa... questa è... troppo...” balbettò il Riparatore mentre allungava una mano alla ricerca di una delle lame che aveva preparato in precedenza “Questa deve aver fatto male, vero? Ma non inizierò da lei, stai tranquillo.” avvicinò la punta del bisturi alla clavicola destra, iniziando ad incidere vicino ad una cicatrice lunga tre centimetri.

Il dolore distolse John dai propri pensieri e lo fece ringhiare un lamento sommesso. Spostò lo sguardo sulla propria clavicola e venne colpito da alcune immagini in rapida sequenza: due uomini, un corpo a corpo violento, un colpo così potente da permettere all'osso di ferire la carne dall'interno.

La voce del Riparatore riportò John alla realtà “Hai avuto l'opportunità di spararmi, prima, nel vicolo.” commentò, rivolgendosi ora direttamente alla propria vittima: con la lama, intanto, tracciava una linea parallela alla precedente sul lato opposto della cicatrice “Perché non l'hai fatto?”

John contrasse i pettorali al nuovo taglio, trattenendo il respiro anche quando un nuovo ricordò lo investì: una tenda da campo, mani inesperte su un corpo ferito, mani amiche, un abbraccio.

“Non ti salverà nessuno, John Watson.” il Riparatore lo ridestò nuovamente dai suoi pensieri mentre spostava il bisturi cinque centimetri sopra l'ombelico, su una cicatrice circolare sulla quale incise una croce “Questo posto non esiste neanche nelle mappe catastali.”

John chiuse gli occhi e dopo un'altra rapida sequenza di immagini accompagnate da un lungo fischio, li riaprì e li puntò sul Riparatore “A Sherlock non serve un quadratino disegnato su un pezzo di carta per incastrarti.” il tono si fece via via calmo e atono, lo sguardo acceso di determinazione, l'espressione spaventata stava lasciando il posto ad una corrucciata.

Il Riparatore si fermò “Ah sì?” domandò retorico, approfittando di quella pausa per pulire i tagli dal sangue che vi fuoriusciva “E come riuscirebbe a farlo, sentiamo.”

John sorrise, alimentato da una sicurezza che non pensava di avere “Seguirebbe la scia lasciata dal mio sangue.”

Il Riparatore rise di rimando, divertito dall'ingiustificata convinzione della propria vittima “Ma io non ti ho inferto alcuna ferita che sanguinasse.”

“Tu no.” l'alzata di spalle che gli venne istintivo fare, si trasformò in un leggero movimento delle braccia che mosse un poco “Io invece sono molto sbadato e ho finito col tagliarmi con un pezzo di vetro trovato per terra, nel vicolo. Sai, prima che il tuo sedativo facesse effetto.”

Il Riparatore studiò il volto di John alla ricerca di una eventuale caratteristica menzognera, ma quando non la trovò si allungò sul corpo della propria vittima e cercò sulle sue mani la ferita di cui stava parlando: quando la vide, ricordò il momento in cui, nel vicolo, lo vide armeggiare tra i sacchetti della spazzatura. Concluse che probabilmente aveva finito col tagliarsi con i vetri di una bottiglia, ma non si allarmò data l'entità della ferita “Quanto credi che abbia sanguinato questo taglio?” tornò a sedersi sul bacino di John, affrontandolo con un ghigno presuntuoso “Saranno gocce così piccole che neanche se ne accorgerà.”

Mpf.” lo schernì John “Si vede che non conosci Sherlock.” lo disse con orgoglio, perché per lui era un vero onore avere a che fare con il grande detective e un reale piacere conoscere l'uomo che vi stava dietro.

L'espressione del Riparatore mutò, divenendo notevolmente più impaziente e adirata “E comunque, tu non lo ricorderai sicuramente, ma ti ho infilato dentro la mia macchina. Addio tracce ematiche.”

“Sai qual è il bello di Londra? È piena di telecamere.”(2) più John combatteva e dimostrava di aver ragione, più si sentiva soddisfatto, nonostante la situazione non fosse delle più favorevoli “Risalirà all'auto uscita da quel vicolo e tramite le registrazioni seguirà il tragitto fino a trovare questo posto.”

Se lo scopo di John era quello di metterlo in difficoltà, c'era riuscito in pieno: il Riparatore ringhiò frustrato ed avvicinò la lama alla cicatrice sulla spalla sinistra “Non arriverà mai in tempo.” sibilò mentre iniziava a tracciare i contorni di quel pezzo di pelle.

La sicurezza di John vacillò un poco quando le azioni del Riparatore lo costrinsero ad abbassare lo sguardo sulla cicatrice “Te l'ho detto.” sentì il dolore, ma scoprì che non era neanche lontanamente più forte della fiducia che riponeva in Sherlock e che lo aiutava a sperare per il meglio “Non lo conosci proprio per niente.” sussurrò prima di essere investito da un ricordo tanto potente quanto ferocemente incatenato dalla propria psiche. Erano solo lampi rapidissimi, così veloci da non riuscire a discriminare l'entità delle immagini: c'erano solo macchie verde scure, sangue e sabbia. E se da una parte la paura voleva spingerlo a distogliere lo sguardo da quelle immagini, il coraggio che stava via via nascendo in lui voleva approfondire quel ricordo. Tuttavia, non fece in tempo a decidere se abbandonarsi a quelle immagini o fuggirvene.

Mentre il Riparatore era impegnato ad incidere con più rabbia e meno precisione la cicatrice sulla spalla di John, poterono udire dei tonfi che, col senno di poi, entrambi i presenti in quella stanza poterono ricondurre a porte che venivano aperte con ben poca grazia.

Quando fu il turno della porta di quella stanza, ciò che John e il Riparatore videro fu l'espressione furente di Sherlock che, seguito da alcuni Yarder, non fece altro che dimostrare la tesi dell'ex medico militare: il detective era arrivato in tempo, ma il suo sguardo non era soddisfatto bensì carico di collera e di desiderio di vendetta. Ignorò John, infatti, quando con una rapida occhiata si sincerò dell'entità delle sue ferite e si buttò, letteralmente, sul Riparatore.

Per prima cosa, Sherlock spinse il Riparatore oltre il letto, lontano da John e ignorando i richiami di Lestrade e degli altri Yarder iniziò a picchiarlo con calci e pugni: nel suo sguardo non c'era più solo ira, bensì disperazione, senso di colpa e molto altro ancora. C'era biasimo,ma non nei confronti del Riparatore, quanto verso se stesso, poiché nella sua geniale mente non facevano che risuonare le parole di Mycroft. Il suo maledetto fratello aveva avuto ragione anche quella volta. Ci vollero tre Yarder per allontanarlo dal Riparatore, ma nessuno di loro riuscì ad impedirgli di scalciare e provare ad inveire contro il serial killer già privo di sensi. Ci volle la voce di John per bloccarlo.

“Sherlock!” urlò l'ex medico militare mentre Lestrade si apprestava a liberargli polsi e caviglie e solo quando vide il consulente investigativo immobile e ricettivo riprese a parlare, abbassando anche il tono di voce “Non mi aiuterai uccidendolo.”

Sherlock si bloccò, ma sfortunatamente se le parole scelte da John contribuirono a fermarlo, dall'altra parte non fecero che alimentare il proprio senso di colpa. Si scrollò di dosso i tre agenti e attese in silenzio che i paramedici si occupassero di John.

“Preferirei fare da solo, grazie.” li stupì John che accettò solo delle bende per fermare la fuoriuscita di sangue: l'idea che altri sconosciuti gli mettessero le mani addosso non lo esaltava e comunque quei tagli era superficiali, quindi potevano attendere. Alzò poi lo sguardo su Sherlock e capì: intuì il suo senso di colpa, ma in quel momento era a sua volta preda dei propri pensieri per potersi occupare anche dei suoi. Quelle immagini, quelle diapositive proiettate dalla sua memoria censurata gli davano molto su cui pensare, quindi si limitò ad invitarlo a prendere un taxi quando fu pronto a muoversi.

 

Il viaggio in taxi fu silenzioso: entrambi erano rivolti a pensieri di diversa natura, ma in egual modo impegnativi.

John non poteva fare a meno di rievocare le immagini scatenate dalla propria psiche mentre il  Riparatore gli infliggeva quei tagli. La familiare sensazione provata durante quello che doveva un flashback, mentre quelle mani amiche si prendevano cura di quel taglio sulla clavicola e la più spiacevole impressione percepita quando il Riparatore si occupava della cicatrice sulla spalla. Alzò istintivamente la mano sulla fasciatura e premette il tanto che bastava per provare dolore, ma non sovvenne più alcun ricordo. Alzò dunque lo sguardo su Sherlock, ma l'altro non lo ricambiò.

Solo quando furono quasi giunti a Baker Street, il consulente investigativo diede forma ai propri pensieri “Aveva ragione Mycroft.” il labbro inferiore si inarcò all'ingiù e tremò appena “Non riesco a prendermi cura di me stesso, figuriamoci di te.”

John non fece in tempo a rispondere che il taxi si fermò: Sherlock scese dalla vettura e si precipitò dal portone, quindi su per i diciassette gradini.

 

Dopo che John ebbe pagato il tassista, salì le scale e chiuse la porta dell'appartamento dietro di sé: si guardò attorno e vide che non c'era traccia di Sherlock negli spazi comuni. Non era in cucina, non nel salotto, non nel soggiorno o in bagno: in compenso la porta della sua stanza era chiusa, presumibilmente a chiave.

Sospirò. Non aveva voglia stare in compagnia in quel momento, avrebbe solo voluto chiudersi in stanza e cercare di rievocare i ricordi e le sensazioni ispirate dal suo precedente scontro col Riparatore: sapeva che erano memorie riguardanti la guerra e non era del tutto entusiasta all'idea di rivivere quegli episodi. Episodi che non ricordava, ma che sapeva per certo dovessero essere spaventosi al punto da essere relegati in un angolo buio del proprio cervello. Cosa sarebbe successo se fossero riaffiorati del tutto? La paura sarebbe sparita o, al contrario, aumentata?

Non ricordava nulla del servizio militare, nulla. Era come se il suo cervello fosse un computer e fossero stati estratti tutti i dati concernenti la leva. Ricordava che era come se si fosse risvegliato nell'infermeria del campo dopo un lunghissimo periodo di sonno, ma a quel punto aveva rifiutato di tentare di rievocare qualsivoglia memoria riguardante Mainwand. Poi, un giorno, una volta tornato a Londra, quando aveva provato a ricordare qualcosa, si era accorto che non conservava alcuna memoria riguardante l'intero servizio di leva. Aveva in mente solo un nome: Mainwand. Per il resto, conservava solo sensazioni negative, percezioni spaventose, istinti che gli facevano venire la pelle d'oca. Molti militi provarono a parlargli di quella famosa ultima missione, ma lui aveva sempre glissato evitando istintivamente l'argomento.  Aveva anche mentito a Sherlock a riguardo: gli aveva detto che non era pronto a parlarne, ma la verità era che non ricordava nulla e, semplicemente, non voleva ammetterlo di fronte al suo coinquilino e amico. Il suo coinquilino e amico.

John sospirò nuovamente: era vero, non aveva particolarmente voglia di interagire con qualsivoglia persona in quel momento, ma sapeva che Sherlock era rimasto molto scosso dall'accaduto. Sapeva anche che si sentiva in colpa e che, probabilmente, era già alla ricerca di una dose di cocaina nei propri cassetti per cercare di dimenticare le sensazioni spiacevoli provenienti da quella che considerava come un errore, un qualcosa di cui sentiva di essere responsabile. E John non poteva permetterlo: Sherlock aveva già fatto molto per lui, quindi era giunto il momento di ricambiare.

Dopo aver preso un asciugamano pulito e il kit di sutura, bussò alla porta della camera di Sherlock sperando vivamente che non avesse già trovato sollievo nella soluzione al sette per cento. Non ricevette risposta, quindi provò a chiamarlo a voce “Sherlock?”

Sherlock era rannicchiato nel letto con il volto schiacciato contro il cuscino: non se la sentiva di affrontare John, non dopo quello che aveva rischiato di subire a causa di quella che reputava una sua mancanza. Non gli avrebbe mai dovuto permettere di uscire di casa da solo con l'emulatore del Sarto in circolazione, non con l'istinto del soldato ancora sepolto in lui.

“Sherlock, per favore.” tentò nuovamente John: gli tornarono in mente le parole che l'amico aveva pronunciato in taxi e scosse il capo prima di posarlo sull'uscio al posto del proprio pugno “Non è vero che non sai prenderti cura di me.” lo pensava veramente, non c'era alcun bisogno di fingere di provare veramente quei sentimenti “Senza di te sarei ancora in quel garage, Sherlock. E no, non ero al sicuro lì dentro. Credevo di esserlo, ma la verità è che ero in balia di me stesso e tu lo sai bene.”

Il volto di Sherlock emerse dal cuscino sul quale strofinò la guancia mentre ascoltava le parole di John: era così tipico del diurno sacrificare le proprie necessità a favore delle sue. Sherlock sapeva che John avrebbe preferito somatizzare l'accaduto da solo come accadeva sempre dopo un caso, quindi, se proprio in quella circostanza si offriva di condividere con lui i propri pensieri, era sicuramente per consolarlo. Perché il John diurno poteva essere molte cose, ma certamente non era stupido. Non era stupido, insensibile ed egoista. Era tutto il contrario. E ora si offriva per donare conforto proprio a lui.

“Sherlock...” chiamò ancora John che pensò attentamente alle parole giuste che avrebbero potuto smuovere il consulente investigativo “Non riesco a ricucirmi da solo, sai?” mentì in quel frangente, ma non gli importava che Sherlock potesse accorgersene o meno “Ho bisogno del tuo aiuto.”

Sherlock si alzò da letto e, avvicinandosi alla porta, mostrò inevitabilmente i movimenti della propria ombra a John: si appoggiò con la fronte alla superficie lignea dell'uscio e rifletté. John sarebbe certamente riuscito a ricucirsi da solo. Forse non sarebbe stato semplice, ma era sicuro che ce l'avrebbe fatta. Quindi lo stava facendo per consolarlo, era ovvio. E gli era grato per questo, ma gli premeva sapere se il suo adorato John diurno avesse veramente bisogno di lui in quel frangente. Non voleva una magra consolazione, bensì una certezza. Non disse nulla, dunque, attendendo egoisticamente l'ennesimo primo passo da parte di John.

“Sherlock.” John lo chiamò quando vide l'ombra dell'amico muoversi dall'altra parte della porta: si appoggiò a sua volta, cercando invano il calore di Sherlock “Potrei ricucirmi da solo, è vero. Ma farei un brutto lavoro senza di te.” ammise dunque, per poi posare le labbra sulla porta in un gesto che riuscì a compiere solo perché nascosto alla vista dell'altro. Inoltre, più invocava l'aiuto e il bisogno di Sherlock, più quello stesso pensiero prendeva forma “Ho bisogno di te come di nient'altro e nessun altro al mondo. Non solo ora, ma da quando hai pronunciato il mio nome per la prima volta, quella lontana notte nel garage.”

Le parole di John ebbero il potere di convincere Sherlock ad aprire la porta: quando non vi fu più il legno dell'uscio a dividerli, il consulente lo guardò a lungo ed in silenzio prima di proferire verbo “Ho giurato che ti avrei protetto e invece guarda cosa ti è successo.”

Non vi era più una porta fisica a dividerli, ma John poté ancora percepire un muro invisibile ma tangibile separarli “Affinché non mi accada niente, non dovrei neanche fare niente.” sorrise e porse asciugamano e kit di sutura a Sherlock “Sai che noia? Povero Johnny.” (3) ridacchiò, sperando di riuscire a contagiare anche l'altro con quel motto di spirito.

Sherlock assottigliò lo sguardo “Johnny? Non ti sei mai rivolto a te stesso chiamandoti così.” osservò, ricordando invece molto bene chi era solito chiamarlo così. Douglas lo chiamava in quel modo, almeno stando a quanto il vero John raccontava nei suoi video-log.

John colse quel dettaglio solo perché glielo fece notare Sherlock: annuì, dunque, con una alzata di spalle “Mi è venuto fuori così.” si giustificò, continuando a porgere quanto aveva in mano all'amico “Mi aiuti?” chiese, riuscendo infine ad inoltrare quella richiesta guardandolo negli occhi.

Sherlock riuscì finalmente a sorridere, quindi annuì ed invitò John nella propria camera da letto.

 

“Devo aver paura a chiederti come mai sei così bravo a suturare?” John ruppe il silenzio dopo i primi punti cuciti da Sherlock che, dopo averlo fatto appoggiare allo schienale del letto con la parte superiore del busto, aveva iniziato ad occuparsi dell'incisione a forma di croce che il Riparatore gli aveva impresso sulla vecchia cicatrice circolare al centro dell'addome.

Sherlock sorrise appena “Ho fatto pratica sui cadaveri al Bart's.” cercò di non mostrare il proprio interesse verso il torace di John che per la prima volta vedeva interamente scoperto: col notturno era sempre lui quello che finiva irrimediabilmente senza maglia, quindi nutriva una profonda curiosità verso il corpo di John “E su me stesso, prima che avessi un assistente che, guarda caso, è anche un medico.” continuò sospirando di sollievo: a giudicare dalla quantità di cicatrici che John aveva dalla cintola al collo, era stato un vero miracolo che fosse arrivato in tempo affinché il Riparatore intaccasse solo tre di esse.

John annuì leggermente, quindi, in attesa che l'altro si spostasse sulla cicatrice all'altezza della clavicola destra, si concentrò sulla sensazione tanto piacevole quanto inaspettata di avere le mani di Sherlock sul proprio corpo. Era un tocco che non era per nulla malizioso, bensì riverente, quasi distaccato, ma che lo imbarazzava leggermente: non poté proprio fermare la propria pelle che, stimolata a livello sensoriale, si increspò appena “Scusa.” arrossì e distolse rapidamente lo sguardo.

“Non ti preoccupare.” lo tranquillizzò Sherlock che, d'altro canto, faceva molta fatica a mantenere professionale il proprio tocco. Deglutì e dopo aver inclinato entrambi i polsi sopra la clavicola di John, mugolò frustrato “Penso che... sai...” indugiò appena, quindi scavalcò i fianchi di John in modo da trovarsi di fronte ai tagli che avrebbe dovuto suturare “Non è mia intenzione imbarazzarti e non vorrei in alcun modo ricordarti ciò che il Riparatore ti ha fatto e ciò che il Sarto fece con me prima di lui, ma da qui riesco a ricucirti meglio.”

“Tranquillo.” sussurrò John “Lo capisco.” evitò il viso di Sherlock, ma non poté fare a meno di posare lo sguardo sui fianchi di entrambi così vicini tra loro, sulla curva della schiena del consulente piegata in avanti verso di lui, i riccioli selvaggi così vicino al proprio viso. La tentazione di alzare le mani sui fianchi di Sherlock cessò nel momento in cui lo sentì tastare i due tagli: indirizzò rapidamente lo sguardo sulla cicatrice e chiuse gli occhi alla ricerca dei ricordi che sperava di sbloccare. Ma non gli sovvenne nulla, così mugolò frustrato voltandosi verso il comodino.

Sherlock alzò rapidamente le mani verso l'alto “Ti ho fatto male? Non ti ho anestetizzato abbastanza?”

“Cosa?” domandò John, distratto dalla reazione dell'altro “No, no. Tranquillo, Sherlock.” gli sorrise tranquillo prendendogli delicatamente i polsi e avvicinando nuovamente le sue mani al proprio corpo “Stai facendo un ottimo lavoro.”

Sherlock inarcò il sopracciglio destro “Allora cosa è stato?”

John scosse il capo mentre suggeriva a Sherlock di riprendere la sutura appoggiando le sue mani sulla propria clavicola “Nulla.”

“John.” mugugnò Sherlock, per poi riprendere il proprio lavoro con calma e precisione “Non farmelo dedurre, so che ti dà fastidio quando lo faccio.”

John aggiunse la mancina alle mani di Sherlock, aiutandolo a tenere chiusi i due lembi di pelle del taglio inferiore “Non potrei semplicemente conservare per me questo segreto?”

Sherlock schioccò la lingua sul palato “Se fosse l'unico segreto che conservi per te potrei anche chiudere un occhio, ma sappiamo entrambi che mi nascondi molte cose.” non se l'era lasciato fuggire, era pienamente cosciente di ciò che aveva detto: era da qualche giorno ormai che provava ad introdurre quel discorso con discrezione e John non aveva mai protestato, quindi non provò alcuna remora nel proporlo all'amico.

“Non dipende da me.” a John, invece, quella confessione fuggì con forza dalle sue labbra: per troppo tempo aveva mantenuto quel segreto e l'evidenza di quella gaffe era disegnata sul suo volto stranito e biasimevole nei riguardi di nessuno se non di se stesso.

Sherlock bloccò i propri movimenti ed alzò solo lo sguardo dalla ferita al volto di John “Tu non ricordi nulla.” non era una domanda, bensì la risposta ad uno dei suoi maggiori quesiti riguardanti John. Dunque era vero: John non stava fingendo. Non era veramente in possesso dei propri ricordi riguardanti la leva. Dunque Mainwand era solo un nome per lui? E Douglas? Un nome così importante da affiorare inconsciamente nella sua memoria? A volte era frustrante per Sherlock constatare quanto poco sapesse di John dopo tutti quei mesi di convivenza.

John, d'altro canto, usò la risposta più gettonata usata in quel contesto “Non voglio parlarne.” mugugnò istintivamente per poi avvicinare le mani a quelle di Sherlock, provando a togliergli dalle mani l'ago che stava usando per suturarlo.

“Ma è successo qualcosa, oggi.” protestò Sherlock che si lasciò derubare del proprio strumento, in quanto totalmente coinvolto dalla  nuova rivelazione “Cosa è successo, John?” domandò dunque. Sentì nascere nel centro del petto un senso di inquietudine che lo agitò non poco: si rese improvvisamente conto di una eventualità a cui non aveva pensato. Il John diurno, il suo John, quello che sentiva più vicino a sé, era sulla via della guarigione. Stava dunque per sparire. Quella parte di lui che amava così tanto, quella dolcezza che gli donava così incondizionatamente sarebbe sparita, ma sarebbe sopravvissuta con l'apparizione del vero John? Dai video-log che aveva visto, d'altronde, la personalità del vero John sembrava molto più simile a quella del notturno, eccessi di malizia a parte. Ma era anche vero che in quel tipo di confessionali non era plausibile che apparisse il lato tenero di quel soldato così giovane e forte. Dolcezza che, plausibilmente, avrebbe riservato nell'intimità del privato. Ma se il vero John non fosse stato così affabile? O, peggio, se lo fosse stato, ma non avesse voluto più avere niente a che fare con lui? Sherlock sapeva di essere molto difficile da sopportare e il John diurno era un autentico miracolo di pazienza e sopportazione, ma se fosse solo uno dei lati del suo carattere portato all'estremo tanto quanto lo era la malizia per il notturno? Sherlock si ritrovò improvvisamente in difficoltà di fronte a ciò che desiderava e a ciò che sarebbe stato giusto fare per John. Il suo lato prepotentemente egoista stava lottando con quello timidamente e scomodamente innamorato “Dimmelo, dimmelo ti prego.” mugolò mordendosi l'interno delle guance in un gesto frustrato.

Dopo aver concluso col primo dei due tagli inferti all'altezza della clavicola, John iniziò ad occuparsi del secondo, dimostrando empiricamente che era perfettamente in grado di suturarsi da solo. Ma la preoccupazione che percepì nel tono di voce di Sherlock, gli confermò quanto la sua presenza accanto a Sherlock in quel particolare frangente fosse necessaria “Perché vuoi saperlo con tutta questa smania?” domandò poi, interrompendo i propri gesti. Alzò lo sguardo su un affranto Sherlock e non capì tutta quella apprensione.

“Voglio sapere se è cambiato qualcosa.” sussurrò Sherlock, palesando il proprio malessere anche fisicamente, rannicchiandosi nelle spalle e facendosi piccolo piccolo: come spesso succedeva quando provava una sensazione di inquietudine, emergevano una radicata attitudine alla paranoia e al disagio, gli stessi sentimenti che provava quasi sempre in presenza di Mycroft. Ma, a differenza di quando interagiva col fratello, con John si sentiva libero di mostrare le proprie debolezze non  in modo aggressivo, ma con una disperata ricerca di attenzioni che sfioravano i capricci più disparati “Qualcosa che possa influire sul nostro rapporto.” quando John ebbe finito di suturare anche la seconda ferita sulla clavicola, cercò le sue mani con le proprie, impedendogli di dare attenzioni ai tagli sulla spalla.

John era abituato alle fisime di Sherlock che aumentavano in maniera esponenziale in concomitanza con determinati fattori: l'astinenza dalla cocaina era la componente principale della paranoia, prima soltanto alle occasioni in cui incontrava Mycroft, per poi passare ad una prolungata assenza dai casi, fino ad arrivare a sporadici momenti di malinconia collegati a giornate passate a distanza l'uno dall'altro per qualsivoglia motivo. E mano a mano che il tempo era passato, John aveva imparato ad assecondare Sherlock che, ultimamente, cercava sempre un approccio affettuoso per dipanare il proprio malessere e, in fondo, non gli dispiaceva affatto. Mentre all'inizio della loro convivenza lo imbarazzava qualsiasi forma di contatto fisico, via via che il tempo era scorso si era abituato ad affettuosità che, pur restando del tutto caste e platoniche, si erano fatte sempre più accentuate, frequenti, ma soprattutto spontanee. Non si imbarazzò, dunque, quando sentì le proprie mani catturate dalla presa di Sherlock: si preoccupò solo di stare attento che l'amico non si pungesse con l'ago. Sospirò, tuttavia, non riuscendo a intuire totalmente l'entità della preoccupazione di Sherlock  “Non penserai mica che una volta scoperto cosa è successo a Mainwand, io... boh...” non sapeva neanche lui cosa potesse pensare quella buffa testolina, come amava chiamarlo la Signora Hudson “Che sparirò?”

Le pupille di Sherlock divennero piccole come due spilli: il timore che fosse il paradossalmente consapevole inconscio di John a parlare lo atterrì improvvisamente “Sparirai...” strinse possessivamente le mani di John, legandolo all'universo a cui apparteneva che non era quello fisico, ma quello intimo della sua stessa persona.

“Non sparirò, Sherlock.” John scosse il capo e, ignorando il dolore, lo tirò a sé tramite il legame saldo delle loro mani: gli allacciò le braccia attorno alla vita e gli permise di fare lo stesso all'altezza del proprio collo “Sarò solo un uomo con tutti i suoi ricordi. Anche quelli spiacevoli.”

Sherlock chinò il capo fino a toccare la fronte di John con la propria. Sentiva un morboso bisogno di contatto fisico: era frustrato, Sherlock, profondamente inappagato dal punto di vista fisico. Avrebbe voluto amare John in modo così forte, prepotente, senza fiato. Avrebbe voluto possedere il diurno e farsi prendere dal notturno, ma sarebbe stato così ingiusto, così sbagliato nei riguardi del vero John. Ma il pensiero che, una volta risolta la dissociazione, il vero John potesse rifiutarlo e negargli l'amore che sperava ardentemente, si era ormai radicato nelle profonde fondamenta del suo Palazzo Mentale. Chiuse gli occhi ed iniziò ad accarezzargli la nuca con le dita che erano delicate come quelle di un violinista, ma avide come quelle di un uomo che anelava la sua metà mancante “E se tu dovessi sparire?”

“Non me ne andrò solo perché tu hai mi hai guarito, Sherlock.” bisbigliò John chiudendo a sua volta gli occhi: Sherlock non era mai stato così vicino al suo viso, non in quel modo. Il leggero panico si unì all'imbarazzo e non avere più uno sguardo sul mondo lo aiutò a tollerare quella vicinanza. Sentì il cuore pompare più forte e con lui udì anche il tamburellare del sangue che gli rimbombava da un orecchio all'altro. Deglutì e si sforzò di dare forma al pensiero che occupava la sua mente “Anzi, proprio perché sei stato tu ad aiutarmi, io...”

Sherlock era piuttosto divertito dal ribaltamento dei ruoli tra giorno e notte: mentre col notturno era lui a dover fuggire dall'eccessiva malizia dell'altro, col diurno era tutto l'opposto. Era lui a condurre i giochi, seppur in maniera molto più delicata “Cosa?” domandò riaprendo gli occhi di fronte a quelli chiusi di John sui quali premette le labbra, non troppo forte da dargli fastidio, ma abbastanza da fargli sentire il proprio attaccamento.

John sobbalzò appena a quel contatto “Non... non...” stentò qualche momento durante il quale la propria presa attorno ai fianchi di Sherlock si rinvigorì più per una tensione muscolare che per un reale bisogno, ma alla fine riuscì a confessare “Non vorrei andarmene mai via da te.”

Sherlock adorò, letteralmente, le parole di John: si allontanò dal suo viso qualche istante per poterlo osservare e studiare al meglio, ma scoprì che i suoi occhi erano ancora chiusi. Aveva notato che quando erano così vicini John evitava sempre il suo sguardo e un po' ne era dispiaciuto: avrebbe voluto così tanto annegare in quella laguna, in quei lapislazzuli che erano pieni di sentimenti. Di paure, di titubanze, ma anche di gioia e dolcezza. Dolcezza che riservava solo a lui e che contribuì ad allontanare la malizia che lo stava governando “Io...” sussurrò alla ricerca di quelle parole affettuose che non era mai stato avvezzo a trovare e a usare “Ormai sono abituato a te.” esordì infatti il consulente che, nonostante lo provasse, non riusciva proprio a parlare d'amore “Per la colazione, la casa, i casi, le cure mediche...”

John aprì lentamente gli occhi dopo il lungo tergiversare di Sherlock che elencava in maniera pragmatica e apparentemente disinteressata la lunga lista dei motivi per cui l'ex medico militare era importante per lui. Sorrise intenerito, perché sapeva che quello era il modo più sincero con cui Sherlock avrebbe mai dimostrato il suo affetto per lui “Ho capito, Sherlock.” lo fermò dunque tra un 'Lavi i miei vetrini' e un 'Solo tu sai fare il the come piace a me'. Lo osservò, perché era abbastanza lontano dal suo viso per riuscire a farlo e sorrise “Grazie.”

A Sherlock sembrava che ogni volta che John gli sorrideva, ogni mese di tristezza e solitudine della sua esistenza scivolasse via dai suoi ricordi. Mugolò sottovoce, quindi prese tra le mani un ago pulito e si accinse a suturargli i tagli sulla spalla. Solo dopo qualche minuto di pace in cui anche John sembrava essere tornato completamente tranquillo, riprese il discorso interrotto in precedenza “Dunque... Hai ricordato qualcosa oggi?”

“Solo immagini rapide, indistinguibili. Collegate a queste due cicatrici.” mormorò e, nello specifico, quando Sherlock ricominciò a prendersi cura dei tagli, non poté fare a meno di confrontare le sensazioni provate con lui con quelle rievocate durante lo scontro con il Riparatore. Le immagini erano state molto rapide, ma le percezioni provate erano rimaste impresse nella sua memoria. Le mani di quel soldato sulla propria clavicola, inesperte ma forti; quelle di Sherlock decisamente più abili e più delicate. L’atmosfera nella tenda afghana tesa ma amichevole; quella in camera di Sherlock decisamente più rilassata e sicuramente più intima. Gli occhi del soldato, languidi e sinceri; gli occhi di Sherlock, innamorati ma pieni di segreti. Ed era proprio quel velo di mistero che turbava almeno in parte la mente di John.

La voce di Sherlock lo riscosse dai propri pensieri “Ti aspettavi di ricordare qualcosa nel momento in cui ti avessi toccato queste cicatrici?” domandò il consulente investigativo che poi appoggiò l'ago a favore di garze e scotch.

John annuì ed aiutò l'amico a tenere ferme le garze mentre gli copriva i tagli suturati “Col Riparatore è successo.”

“Sarà stata l'adrenalina, John.” spiegò Sherlock con innaturale pazienza. Non riscontrando alcuna protesta da parte di John, non scese dai suoi fianchi una volta concluse le fasciature “Ho sempre pensato che l'adrenalina potesse guarirti ed ora sta effettivamente funzionando.”

“E adrenalina sia!” proruppe John, battendogli la mancina sul sedere in un gesto che non riconobbe totalmente come proprio. Mugolò imbarazzato, infatti, distogliendo lo sguardo per qualche istante “Senza tagli e psicopatici che mi mettono le mani addosso, possibilmente.” aggiunse in tralice, giusto per non perdere completamente il filo del discorso.

Sherlock rise di gusto per quel gesto che, gli parve, nacque totalmente spontaneo. Dunque il vero John era così? Un ripieno di dolcezza con alcuni exploit di improvvisa malizia? Nonostante la paura di perderlo, Sherlock era impaziente di conoscere il vero John, non vi erano dubbi a riguardo. Avrebbe voluto ricambiare quel gesto, ma vide l'uomo sotto di sé rimuginare su chissà quale pensiero: non era più l'imbarazzo per quella pacca, era qualcosa di più profondo e radicato “John, che c'è?”

John negò una qualsivoglia risposta scrollando il capo, ma di fronte all'insistenza dell'amico cedette: si voltò e nonostante la vicinanza del suo viso riuscì a sostenere il suo sguardo “Sherlock, mi nascondi qualcosa?”

Sherlock indietreggiò un poco con capo e spalle, ma si sforzò di mantenere le sue solite apparenze “No.” negò con finta noncuranza, ma come accadeva ogni volta che il John diurno trovava il coraggio per esprimere le proprie opinioni o rimostranze, rimase almeno in parte abbagliato dalla luce che illuminava fieramente i suoi occhi blu.

John reclinò appena il capo e regalò a Sherlock un sorrisetto consapevole “Bugiardo.”

Sherlock piegò il capo di rimando, studiando il sorriso di John, cercando l'ombra del notturno in quell'espressione consapevolmente caparbia. Ombra che non trovò: il suo John diurno stava guarendo molto rapidamente negli ultimi tempi e Sherlock doveva accettarlo nel bene e nel male. Si stupì, tuttavia, di fronte alla certezza di John: se era veramente e giustamente sicuro che gli stesse mentendo, conosceva anche l'entità delle sue bugie? Sherlock non poté fare a meno di chiedersi se il diurno fosse venuto a conoscenza del notturno. Sarebbe stato così terribile? Sherlock era persuaso che sì, probabilmente il suo adorato e integerrimo diurno non l'avrebbe presa bene. Quali sarebbero state le conseguenze? La conferma della supposizione di John si disegnò inevitabilmente sul viso di Sherlock che avrebbe voluto chiedere, domandare, subissarlo di domande, ma dalle sue labbra uscì solo il nome di colui che, da sette mesi a quella parte, era ormai diventato il suo pensiero fisso “John?”

John sospirò di fronte a quella conferma “Io lo so che mi nascondi qualcosa.” allungò le mani su quelle di Sherlock e le strinse appena, rassegnato di fronte a quella condizione che riguardava entrambi, consapevole delle motivazioni dell'amico, impotente di fronte alla forza del proprio inconscio e ai fantasmi delle proprie paure “E so anche che non lo fai per cattiveria, ma per timore che io possa andarmene.”

Sherlock si sentì colpevole e confuso: si domandò da quanto tempo John fosse a conoscenza di quello che credeva fosse un segreto. Ma la verità era troppo grande per poter essere spifferata in quel frangente ed era lui ora, dei due, ad aver paura. Una paura che gli congelò la capacità decisionale “John.”

La presa di John sulle mani dell'altro si rinvigorì “Sherlock. Stai attento.” lo avvertì: il tono era fermo e serio, ma la costanza del contatto fisico che andava cercando rimarcò una certa dose di comprensione che, sentiva, non gli mancava mai. Alzò lo sguardo e per la prima volta affrontò gli occhi di Sherlock senza timore “Una bugia è come una palla di neve, più rotola e più s'ingrossa. Posso sopportare una grossa palla di neve, ma non una valanga.”

Sherlock indietreggiò un poco di fronte allo sguardo diretto di John: aprì la bocca sorpreso e impiegò qualche istante per riprendersi da quella visione. Impiegò altrettanti secondi per ripescare dal proprio registro mnemonico le parole pronunciate da John e quando le ebbe riascoltate sentì un morso alla bocca dello stomaco che manifestava i propri rimorsi. E lo giurò a se stesso, nuovamente: promise che avrebbe pensato ad un modo per confessare tutto a John. Erano ormai settimane che procrastinava quell'impegno, da quella mattina in cui John dimostrò chiaramente di avere dei ricordi, seppur sfocati, dei loro incontri notturni. Lo giurò e spergiurò, ma rinviò ancora quel momento. D'altronde, come avrebbe potuto farlo in quel momento? Con lo sguardo di John finalmente ancorato al suo, con le loro mani allacciate, con i loro corpi così a stretto contatto? No, non era il momento. Fu egoisticamente, quindi, che Sherlock eluse le parole di John giustificandosi a sua volta con una frase fatta, ma quanto mai efficace “È meglio una bugia detta al momento giusto che una verità al momento sbagliato.”

John scrollò il capo con un sorriso, ma rispettò la volontà di Sherlock proprio come lui aveva sempre sopportato la sua di non parlare del servizio militare e delle sue paure. E, a sua volta, non poté fare a meno di rispondergli con un altro proverbio “È meglio una verità che uccide che una bugia che illude.”

Sherlock apprezzò sia la decisione di John che la sua prontezza di spirito “La gente direbbe meno bugie se la realtà rendesse di più.” osò a parole, così come nei fatti: slacciò la presa delle loro mani solo riportargli le proprie attorno al collo.

“Mpf. L'abbiamo fatto diventare un gioco, dunque?” John si concesse quella domanda retorica per somatizzare la vicinanza di Sherlock che era sempre più prossima. Ma trovò il coraggio per osare a sua volta, aiutato dal clima ludico che quella conservazione aveva preso: lo spinse un poco verso di sé aiutandosi con le mani che erano libere di muoversi sulla schiena di Sherlock in una carezza delicata, ma che non era mai stata così audace da parte sua “Una bugia ne rende necessarie molte altre.”

Sherlock non si preoccupò di nascondere un mugolio che mormorò direttamente sul viso di John, a pochi centimetri da quegli occhi che lo stavano ancora guardando e trovò belli e consapevoli come mai fino a quel momento. Scese ulteriormente fino a raggiungere l'orecchio di John al quale bisbigliò “Ci sono bugie tanto commoventi da meritare di essere credute.” ed era vero, Sherlock lo pensava sul serio. Perché il John diurno poteva anche essere una bugia, poteva non esistere veramente e sarebbe potuto sparire da un momento all'altro, ma era la sua bugia. Ed era così bella la sua esistenza, che non ci sarebbe stato nulla di grave a credere che fosse vera. E a sperare che, una volta riunite le due metà di quell'anima immensamente buona, quella parte sopravvivesse.

John non poté capire il vero significato delle parole di Sherlock, ma sapeva che il consulente investigativo non parlava mai a caso. Lo sentì percorrere con le labbra la lenta strada che dal suo lobo si immetteva sulla mandibola fino ad arrivare sul mento sul quale si fermò qualche istante prima di risalire ancor più lentamente. Non trovò la forza, la voglia, né tanto meno un motivo per fermarlo, soprattutto quando lo sentì scontrargli le labbra in quello voleva sembrare un gesto fortuito, ma che ebbe l'intenzionale potere di seccargli la gola in un istante. Deglutì con difficoltà e ritrovò la capacità di parola solo quando riconobbe nello sguardo di Sherlock quella luce caratteristica che contraddistingueva il suo lato giocoso. Mugolò in cerca di una risposta sagace che portasse avanti il gioco che aveva dato il via a quell'episodio tanto particolare quanto piacevole, ma il suo cervello non lo aiutò “Mmh... non ne so più.”

Sherlock sorrise per molti motivi. Perché non sentì John ritrarsi neanche un attimo di fronte alle sue particolari cure, neanche in quel momento, quando gli spettinava i capelli corti e tendenzialmente ordinati. Perché era riuscito a cancellare la tensione dalle menti di entrambi, nonostante non si fossero mai avventurati in un contatto così intimo. Perché gli occhi di John erano ancora ancorati ai suoi, anche se Sherlock poteva leggere una costante e fin troppo accentuata attenzione a ciò che stavano osservando. E perché aveva vinto quel gioco, soddisfacendo così anche il proprio lato più infantile “Quindi ho vinto io?”

Il costante rammarico di John di non sentirsi un uomo completo in quanto privato di buona parte dei propri ricordi, era distante in quel momento, lontano, spinto via con prepotenza dalle sensazioni che provava e che, in quel momento, erano più forti di qualsiasi paranoia, di ogni paura, di tutti i fotogrammi che la sua memoria menomata gli avrebbe potuto proporre. Alzò il viso e lasciò che le labbra di entrambi si scontrassero in un nuovo contatto fintamente casuale, come pretesto di una rivalsa per quel gioco che, in fondo, nessuno dei due aveva perso “Come sempre, Sherlock.” e solo quando vide l'altro pronto a ribattere, decise di pretendere per sé l'ultima parola, almeno in quella occasione. Non c'era più casualità in quell'incontro, non più un movimento fintamente fortuito: la pressione che le labbra di John esercitarono su quelle di Sherlock era qualcosa di propriamente voluto, che non lasciasse scanso a qualsivoglia equivoco. Non fu nulla di eclatante, niente di esagerato, ma non per questo fu meno significativo.

Quando John si staccò dalle sue labbra, Sherlock non poté fare a meno di analizzare anche quanto appena accaduto: era stato un bacio semplice, dato con una pressione leggera che nascondeva un velo di insicurezza. Era stato così dolce ed etereo che Sherlock stentava a credere che fosse realmente successo. I suoi lontani e sporadici esperimenti nel campo sentimentale non annoveravano neanche lontanamente un'esperienza del genere e non poteva che essere felice per quella novità e per la persona con la quale era avvenuta.

Nessuno dei due disse più nulla, non era necessario. Sherlock smontò dal bacino di John solo per sdraiarglisi accanto, alzando le braccia per accompagnarlo affianco a sé: lo chiuse nel proprio abbraccio protettivo e lo cullò quando l'effetto dell'anestesia sparì lasciando spazio al dolore che i tagli gli provocavano. Si addormentarono insieme per la prima volta, Sherlock e il John diurno, col consulente investigativo che non dovette temere di addormentarsi, ma soprattutto di risvegliarsi, nello stesso letto assieme al suo coinquilino e amico.

 

La notte fu tranquilla per entrambi. John attraversò tutte le fasi del sonno senza alcun intoppo, ma non vi fu alcun episodio di sonnambulismo: il notturno non si sarebbe presentato neanche quella volta. Tuttavia Sherlock, pacifico dormiente tra le braccia di John, non sembrò accusarne la mancanza.

 

°oOo°

 

John è sullo schermo del portatile di Sherlock, ma nonostante il video-log sia partito da due minuti e ventisette secondi, il soldato non ha ancora spiccicato parola. La camicia mimetica che indossa e sulla quale spiccano una croce rossa ed un caduceo, è aperta e lascia intravedere una canottiera bianca sotto la quale spicca la pelle bronzea fasciata all'altezza della clavicola. Il volto è visibilmente stanco e i movimenti secchi di arti e postura suggeriscono una vena di nervosismo animare la persona del medico militare. È uno degli ultimi filmati, il numero cinquantanove: la data è molto vicina a quella del massacro di Mainwand.

“Oggi c'è stato un litigio al campo base. Tra Doug e quell'idiota di McPhearson.” (1)

John sbuffa e beve un sorso d'acqua da una bottiglietta di plastica.

“E... tutto è iniziato da quella testa calda di Douglas. O meglio, Doug ha ceduto alle provocazioni di McPhearson. Non ci posso ancora credere, se ci ripenso. È così infantile a volte! Per un motivo così stupido... Capiamoci, anche io mi sarei arrabbiato, ma non avrei affrontato la situazione in modo così irruente.”

John si prende una piccola pausa. Sembra essere una giornata molto calda, infatti, prima di riprendere a parlare, John si leva la giacca con non poca fatica e rimane in canottiera.

“Praticamente McPhearson ha iniziato a dire cose del tipo che siamo dei codardi perché stiamo valutando l'idea di congedarci. E figuriamoci, Doug è scattato come una molla.”

John sbuffa ancor più sonoramente e l'espressione seria e contratta si scioglie via via in un sorriso, seppur tirato.

“E Doug che, diciamocelo, ce l'aveva con McPhearson dal campo di addestramento, ha subito risposto alla provocazione giustificandosi poi con me dicendomi 'Johnny, lo sai come siamo fatti noi Irlandesi'. E quindi se le sono date di santa ragione.”

John scrolla il capo, ma il sorriso non è ancora sparito dal suo viso. Poi muta nuovamente espressione, tornando serio.

“Siamo qui da più di cinque anni e abbiamo visto orrori indescrivibili. Sia sul campo che fuori dalle trincee, nelle carovane e nei villaggi. Siamo stanchi e feriti sia nel corpo che nello spirito. Quindi perché dovremmo giustificarci con quell'idiota di McPhearson se vogliamo tornare alla civiltà? Ho ucciso molti uomini nelle file nemiche e ne ho visti altrettanti morire. Amici, gente che mi stava simpatica o semplicemente che indossava la mia stessa uniforme. Ho il sonno leggero e dormo con la pistola sotto il cuscino...”

John ha la bocca ancora aperta, ma sono così tante le motivazioni che si ferma. Rimane in silenzio per qualche istante, poi riprende a parlare.

“Ero partito per completare degli studi che ormai ho concluso. Ero partito perché mi sentivo solo e ho trovato degli amici, dei fratelli con cui condividere dei momenti che non siano di paura e di tensione... quindi perché, McPhearson dei miei stivali, dovrei giustificarmi con te? Tu rimani pure qui finché non tornerai a casa avvolto dalla Union Flag e...”

John si morde il labbro e si accinge a correggere le proprie stesse parole.

“No, non volevo dire questo. Ma oggi sono un po'... nervoso. E stanco. E... quindi niente, Doug gli ha detto più o meno le stesse identiche cose che pensavo anche io. Compresa la cosa del tornare a casa... sì, insomma, in quel modo. Stupido Doug! E figuriamoci, l'altro ha reagito e c'è stata una rissa tremenda scaturita da tutta la tensione accumulata in questi tempi. E poi, quando è uscito il Colonnello...”

John si mette le mani nei capelli al ricordo.

“Quando è uscito il Colonnello... cosa non ha detto a tutti quanti! Doug e McPhearson sono in punizione, ora. Sono andato a trovare Doug prima di venire qui ed era ancora furibondo. È in isolamento, quindi siamo riusciti a parlare con calma solo con la scusa delle medicazioni. A volte è come un bambino, per i primi cinque minuti non voleva parlare neanche con me. Poi si è sciolto, allora gli ho pulito la faccia che era piena di sangue e sabbia: ha due tagli, uno sul labbro e uno sullo zigomo destro, ma nulla di grave.”

John fa spallucce ed il sorriso nasce nuovamente sul suo volto.

“Allora gli ho detto che era stato un imbecille a cedere alle provocazioni di quell'altro scemo e lui ha mugugnato qualcosa sotto voce e poi ha svelato che oltre alle cose sopra citate aveva anche, citandolo parola per parola, 'osato offendere la nostra amicizia dicendo che due soldati non devono fare i froci e allora l'ho preso così tanto a calci nelle palle da fargli venire le tonsille gonfie' e allora...”

John scoppia a ridere ripetendo la battuta di Douglas circa testicoli e tonsille. Poi si calma e scuote leggermente il capo.

“A fare i froci. Che classe, quel McPhearson. A parte la parola in sé che è offensiva e a parte che anche se fosse non ci sarebbe nulla di male e a parte che non sarebbero comunque affari suoi...”

John inspira a lungo, cercando nuovamente la calma.

“Sono un sacco di 'a parte', questi. Ma a parte questo, per l'appunto... forse ai soldati non è permesso avere dei sentimenti? Li rende forse meno forti? O forse sono proprio questi sentimenti a renderli umani? Se io, essere umano, soldato, non avessi dei sentimenti mentre tolgo la vita ad un nemico, allora cosa ne sarebbe di me? Cosa sarei, io? Una macchina? Io, che non sono un semplice soldato, inoltre, sono medico militare...”

John si ferma e abbassa lo sguardo sulla propria divisa: accarezza la croce rossa e il caduceo coi polpastrelli di pollice e indice.

“Sono un medico. Voglio tornare a casa e curare le persone, fare ciò per cui ho studiato. Non voglio più uccidere. Non è bello. Non è bello per niente. Neanche se è un nemico, neanche se è stato lui per primo a tentare di uccidere te.”

John tira un lungo sospiro e si stropiccia gli occhi tra pollice e indice prima di tornare ad accarezzare il bastone alato, simbolo della sua professione.

“Doug mi ha raccontato la storia del caduceo, di questo bastone alato sul quale sono attorcigliati due serpenti. Me l'ha raccontata tempo fa, una delle prime volte che l'ho ricucito. A lui piacciono i simboli, quindi sa molto a riguardo. E niente, mi ha raccontato che può essere visto come il bastone del dio greco Hermes, usato come simbolo per dirimere le liti e come funzione mediatrice. Gli ambasciatori degli antichi greci e romani usavano un bastone del genere per proclamare la propria volontà al dialogo e il proprio diritto all'inviolabilità. Come si suol dire, no? Ambasciator non porta pena. Così acquisì una valenza morale, poiché rappresentava la condotta onesta e al tempo stesso la salute fisica della persona. Suppongo sia per questo che è stato adottato in molte culture come simbolo per i medici, i farmacisti e, insomma, la gente di questo campo di appartenenza. E Doug me l'ha raccontato perché dice che mi calza a pennello: un medico moralmente retto. Poi mi ha preso in giro tre ore ridendo del suo stesso 'moralmente retto', ma questo è Doug e dobbiamo accettarlo per quello che è.”

John inspira e rialza lo sguardo verso la telecamera.

“Tra me e Doug non c'è nulla, ma mi infastidisce il fatto che anche il solo pensiero di una nostra eventuale relazione possa essere motivo di scherno. Io voglio veramente bene a Doug e non mi vergogno a passare la maggior parte del mio tempo con lui. Non mi vergogno a cercare un abbraccio in lui e, caro McPhearson dei miei stivali, non mi vergogno a dire che quando ci congederemo andremo a vivere insieme, a Londra. Perché vogliamo, perché possiamo e perché... beh sarebbe l'occasione ideale per confermare o smentire questa storia, no?”

John fa istintivamente spallucce, ma solo quando inizia a provare dolore si ricorda della propria ferita alla clavicola. Fa una smorfia e si accarezza la spalla.

“Doug non mi piace fisicamente. Che Dio me ne scampi e liberi, è troppo peloso! Tutto peloso e rosso: sembra un gatto! E a me piacciono le donne, ne sono sicuro. Ma mi piace così tanto a livello caratteriale che non me la sento di escludere a priori un nostro coinvolgimento futuro. E credo che anche per lui sia lo stesso. Non ne abbiamo mai parlato esplicitamente, ma so che lo pensa. Gesù, meno male che qui sono tutti uno più brutto dell'altro, non sarebbe il momento ideale per farsi venire una crisi di identità sessuale. Ma di una cosa sono sicuro: non ho mai desiderato baciare Doug!”

John scoppia a ridere e i suoi occhi blu brillano per la prima volta dall'inizio di quel video-log. Torna poi ad accarezzarsi la clavicola.

“Mi ha ricucito Doug: eravamo troppo lontani dal campo base e dovevamo assolutamente fermare la fuoriuscita di sangue. Tremava, poverino. Era preoccupato: la ferita mi faceva un male cane. Voi, psicologi e psichiatri da strapazzo, che non siete neanche dei veri medici, vi rendete conto della forza che quel bastardo afghano ha esercitato per riuscire a ferirmi in questo modo? Avete idea del colpo che ho subito? Stavo soffrendo come un cane e a Doug tremavano le mani perché aveva paura di farmi male a sua volta e io a cercare di tranquillizzarlo, ma non ci riuscivo! Era in preda al panico! E allora l'ho abbracciato, il mio Doug, finché non ha messo di tremare. E poi ce l'ha fatta. Mi ha ricucito e siamo riusciti a tornare al campo.”

John guarda per caso l'ora sull'orologio e sussulta.

“Miseria, quanto diamine ho parlato questa volta? Vi ho dato troppo materiale, psichiatri miei, non ci capirete più niente. Quindi vi faccio lo schemino.”

John alza ironicamente la mancina e inizia a enumerare i punti aiutandosi con le dita.

“Uno: Doug ha litigato con quel coglione di McPhearson quindi ora è in isolamento, ma io cercherò di andare a trovarlo lo stesso perché... Due: il coglione sopra citato dice che siamo due frocetti e... Tre: in fondo potrebbe esserlo, ma sapete quanto me ne può fregare di meno in questo momento? Infatti... Quattro: ci congederemo molto presto e andremo a vivere insieme a Londra e magari... Cinque:  scoprirò che le storie con le mie precedenti fidanzate non funzionavano perché in realtà avevo bisogno di un fidanzato, quindi... Sei: ancora tre missioni e addio Afghanistan! Oh... Sette: Doug dice sempre che non bisogna contare le ultime missioni perché porta sfiga, ma... Otto: notizia dell'ultima ora... io non credo alla sfortuna e... Nove: basta, la finisco qui, che non lo so mica se voi psichiatri sapete contare fino a... Dieci.”

John sorride, ammicca e spegne la telecamera.

 

°oOo°

 

Quella sera John si era addormentato sul divano: lui e Sherlock avevano corso tutto il giorno dietro a due rapinatori di gioiellerie ed il risultato, oltre alla cattura dei due criminali, era un'incommensurabile dose di stanchezza fisica.

Avevano cenato assieme verso le nove e, mentre John credeva di poter resistere per almeno due puntate delle repliche del Doctor Who, si era addormentato a metà della prima abbracciato al cuscino patriottico che usava come poggiatesta.

Sherlock registrò mentalmente le ore di sonno di John, quindi, dopo due ore trascorse dietro ad un esperimento che coinvolgeva diversi tipi di muffe, tornò nel salotto e attese. Erano trascorse due settimane dall'ultima volta in cui aveva incontrato il notturno. Era stato un incontro piuttosto tranquillo durante il quale non aveva parlato molto: si era limitato a qualche debole approccio fisico accompagnato da ancor meno parole, nessuna delle quali utile alle molteplici domande alle quali Sherlock non aveva ancora trovato risposta. Non aveva insistito, tuttavia, percependo il velo di tristezza che soggiogava l'animo del notturno come una patina indelebile. Non era certamente nella natura di Sherlock, il non insistere, ma che John fosse un'eccezione l'aveva capito ormai da tempo.

Per quanto si fosse affezionato al diurno, a Sherlock mancava comunque quella parte del notturno che lo aveva tanto affascinato: quella sfrontatezza, quello spirito, quel suo modo spavaldo e a volte persino oltraggioso di affrontarlo, erano le caratteristiche del suo carattere che più adorava e che desiderava veder riaffiorare al più presto.

Fu con un sorriso, dunque, quando vide John sedersi sul divano ed iniziare a sbarbarsi: si alzò dalla poltrona e si appollaiò sul tavolino di fronte al divano ed attese che l'episodio di sonnambulismo terminasse. Quando accadde, John si guardò attorno spaesato e solo quando si accorse della presenza di Sherlock accanto al divano riuscì a calmarsi: si sdraiò nuovamente, ma evitò lo sguardo diretto col consulente investigativo, preferendo tenere il viso rivolto verso lo schienale del divano.

Sherlock inarcò entrambe le sopracciglia, quindi scese dal tavolino e si arrampicò sul divano con la grazia di un felino: insinuò il braccio destro sotto quello di John e gli si appoggiò alla schiena fino a posargli la guancia sinistra sulla tempia. John accettò quella nuova posizione, ma non accennò a ricambiare quelle attenzioni. Fu allora che Sherlock aprì bocca “Che cos'hai?”

Un lungo sospiro anticipò la risposta di John “Sto sparendo.”

Sherlock mugolò una lunga nota nasale che concluse strofinando le labbra sul collo di John “Ma ora sei qui.” cercò a tastoni la mano dell'altro che, quando trovò, strinse nella propria intrecciando tra loro le dita “Il John che conosco io non si arrende di fronte a nulla.”

John scrollò il capo “Mpf, il John che conosci tu.” rispose alla stretta di Sherlock nonostante il malumore: quindici giorni di lontananza erano decisamente tanti “Quale dei tanti?”

Sherlock sbuffò, ma intimamente era contento di ritrovare nel notturno un po' della spavalderia che lo contraddistingueva “Sai cosa intendo.” decise di provare a stuzzicarlo mordendogli la stessa porzione di collo baciata in precedenza “Parlami.”

John mugolò per la sorpresa, quindi assecondò il volere di Sherlock voltandosi fino a ritrovarsi supino sul divano: gli cinse le spalle con il braccio destro e gli permise di appoggiarglisi addosso con una buona parte del corpo. Rimase tuttavia in silenzio e con lo sguardo rivolto verso il soffitto per diversi minuti: stava accarezzando stancamente la schiena di Sherlock quando finalmente si decise a parlare “Lui sa.”

A Sherlock non risultò difficile capire a chi John si stesse riferendo: fu invece decisamente più arduo somatizzare la notizia. Il diurno era veramente a conoscenza del notturno o era l'ennesimo scherzo del soldato? Si impose la calma, aiutandosi con il costante contatto fisico con il corpo di John, sua nuova dipendenza “Lui sa, cosa?”

Via via che il contatto fisico con Sherlock si faceva più costante e approfondito, più il soldato ne cercava ancora, corrotto appieno dalla profonda malizia che lo aveva sempre contraddistinto “Di me.” ringhiò, ma quell'accenno di rabbia non era rivolto a Sherlock “Di noi.” aggiunse poi, mostrando in un debole abbraccio anche un moto di possessività che tuttavia era solo una pallida ombra della propria originaria e morbosa gelosia.

Nonostante la preoccupazione, il raziocinio di Sherlock non poté fare a meno di catalogare gli atteggiamenti del notturno che erano sempre più sfumati. Ma anche Sherlock stava, ad un livello più sottile, guarendo. Quindi oltre al raziocinio intervenne anche la sfera sentimentale che identificò l'attaccamento del notturno nei suoi confronti: ne gioì, poiché ne sentiva la mancanza. Tuttavia, l'idea che John, in tutta la sua persona, stesse guarendo, lo emozionava e spaventava al contempo “Ne sei sicuro?” chiese in un sussurro, iniziando una lenta, istintiva e quasi inconscia scalata sul corpo del soldato “Non me ne ha parlato.”

John, data la vicinanza, evitò lo sguardo diretto di Sherlock, ma non poteva assolutamente fare a meno di osservarlo in volto verso il quale alzò la mancina in una carezza che, se un tempo poteva definirsi sostanziosa e molto concreta, in quel momento era molto più simile ad uno sfioramento reverenziale “Sospetta.” si corresse, dunque, non facendo nulla per impedirgli di sdraiarsi sul proprio corpo “Non è sicuro al cento per cento.”

“Come lo sai?” la domanda di Sherlock arrivò nel momento in cui aveva finito di sistemarsi sul soldato in modo che i loro corpi coincidessero morbidamente l'uno sull'altro. Sherlock era felice di poter predominare sul corpo del soldato: non che gli dispiacessero i momenti in cui il notturno gli imponeva la propria fisicità, ma a volte avrebbe semplicemente voluto impostare le regole del gioco e dominare quel corpo che tanto desiderava. Corpo che, quando aveva a che fare col più docile e accondiscendente diurno, non si sentiva completamente libero di profanare.

“È lui ora quello forte dei due.” spiegò il soldato che accettò di buon grado l'iniziativa di Sherlock: con le mani scese fino a posargliele sulle natiche che strizzò con forza prima di massaggiarle più morbidamente. Mugolò frustrato al pensiero che se Sherlock si fosse offerto in maniera così spudorata all'inizio dei loro incontri, la loro relazione fisica sarebbe stata notevolmente più eccitante e approfondita rispetto agli sfregamenti e ai tocchi a cui si erano limitati “Ha dei ricordi dei nostri, ormai sporadici, incontri.”

Sherlock mugolò fin troppo forte per quel tocco che era nulla rispetto a quelli che il notturno era solito caricare di erotismo: era l'evidenza oggettiva che il suo bisogno per il corpo di John era cresciuto a pari passo con la guarigione “State guarendo...” sussurrò mentre tornava alla ricerca del collo del soldato al quale si attaccò con le labbra e un accenno di denti.

“Senza dubbio.” sospirò John chiudendo gli occhi sotto le attenzioni di Sherlock e limitando le proprie nei suoi confronti. Non riusciva ad approfittare completamente della situazione, non con quel chiodo fisso che era conficcato al centro dei suoi pensieri “Ho assistito al bacio.” confessò dunque, mostrando il sottile confine che lo divideva dal diurno: condividevano lo stesso corpo e parte dei pensieri, ma era evidente che la sfera affettiva che li coinvolgeva nei riguardi di Sherlock fosse completamente separata; un corpo, due anime, entrambe ed uno solo per Sherlock Holmes. Per questo interveniva la gelosia, per questo sussisteva il costante e morboso bisogno di reclamare Sherlock come una proprietà.

Ma Sherlock, geniale nella sfera razionale ed oggettiva della comune esistenza, non riusciva a scorgere il fine disequilibrio emotivo che spaccava la psiche di John. Fu con leggerezza, dunque, che affrontò quell'argomento, sopraffatto dai suoi attuali bisogni “Come mai tu non sei mai riuscito a farlo?” riemerse dal collo del soldato sul quale, pur trattenendosi, lasciò l'impronta del proprio passaggio: un esiguo e apparentemente trascurabile numero di puntini rossi disposti sulla linea di una immaginaria circonferenza “Te l'ho chiesto una volta, ma non mi hai mai risposto.”

John lasciò la mano destra sulla natica sinistra di Sherlock, mentre con la mancina risalì sul suo volto in una lenta carezza: aprì poi il palmo col quale gli coprì il viso, arrampicandosi sulla fronte fino a raggiungere i capelli neri entro i quali infilò le dita divaricate grazie alle quali riuscì a tirargli i ricci fino a fargli reclinare il capo all'indietro “È personale.” mormorò come unica spiegazione prima di deliziarsi per la visione del lungo collo di Sherlock teso e fantasticamente appetibile.

Sherlock lasciò totale libertà al soldato, crogiolandosi nella sensazione offerta dai muscoli del collo allungati e dai capelli tirati abbastanza da far formicolare la cute della testa. Ricambiò appoggiandosi sui cuscini del divano con i palmi aperti e inarcando la schiena in modo da creare un costante contatto e una leggera frizione tra i loro bacini. Non aveva intenzione di andare fino in fondo, ma giocare col notturno gli era sempre piaciuto, persuaso del fatto che colui che andava a provocare era niente meno che la sfera libidinosa appartenente al vero John. Tuttavia, una volta ascoltata la risposta del soldato, ritornò alla sua precedente posizione, catturando anche la mancina del soldato tra le proprie mani per poter piegare il collo correttamente “Stai scherzando?”

John chiuse gli occhi e respirò più pesantemente nel momento in cui Sherlock aveva osato sfregare le loro erezioni l'una sull'altra. Deglutì a fatica e, pur provando l'impulso di sopraffare l'esile corpo del consulente investigativo, sentì una forza maggiore premere dentro di sé: non poteva farlo, non sarebbe stato giusto. Non gli era permesso farlo. Si sentì frustrato per quell'istinto consciamente presente, ma intimamente represso da una forza che, in fondo, conosceva molto bene. Riaprì gli occhi e scosse il capo all'indirizzo di Sherlock “No. È un motivo personale.”

Le sopracciglia di Sherlock si inarcarono: il notturno era sempre stato piuttosto propenso a fornirgli le risposte alle domande che non osava porre al diurno e ciò gli era di considerevole aiuto dato che John era l'unica persona, a parte Mycroft, con il quale le sue capacità deduttive erano alquanto limitate. Nello specifico, il rifiuto a dipanare questo particolare mistero lo infastidì “Cosa significa che è un motivo personale?” non che Sherlock non credesse che fosse una ragione riservata, ma era il fatto che il soldato non volesse condividerla con lui che gli suonava non solo strana, ma anche oltraggiosa. Loro erano coinquilini, amici, molto più che amici. E John era il suo tutto, quindi Sherlock non capiva come potesse essere possibile che esistesse qualcosa di personale che non potesse condividere con lui.

Così come Sherlock apprendeva con sconcerto che il soldato non potesse e non volesse condividere tutto con lui, John sorrideva per la consapevolezza che lo stesso consulente investigativo era il primo a tenere per sé una valanga di segreti. Sorrise per quella contraddizione: era così tipicamente sherlockiana. Il soldato, il cui carattere era stato in parte imprigionato dal suo stesso subconscio dopo mesi di lotte, riuscì a mantenere la calma e la pazienza. Liberò senza fatica la mano che Sherlock teneva stretta nelle proprie e toccò con la punta dell'indice il centro della sua fronte, nel punto in cui le sopracciglia inarcate formavano delle piccole rughe d'espressione “Mi distruggerebbe.” sussurrò e la tentazione di guardarlo negli occhi fu fermata solo dalla potenziale paura che ne derivava.

“John, non puoi essere così ermetico.” si lamentò Sherlock che, dopo aver scostato il viso, imprigionò nuovamente la mancina di John nella propria. La appoggiò poi sulla propria guancia: adorava la consistenza della pelle delle mani di John. I calli causati dalle armi usate durante il servizio militari gli suggerivano il vissuto di un uomo col cuore di un leone e la morbidezza dei movimenti gli raccontavano la storia di un medico buono e gentile. Crogiolandosi in quel tocco, la voce gli uscì flebile e languida “Aiutami a capire in modo che io possa aiutarti.”

John scosse il capo, ma non negò a Sherlock la carezza che andava cercando “Mi distruggerebbe.” ripeté soltanto. Il tono era calmo, ma fermo: se era una bugia, allora John sapeva recitare molto bene.

Sherlock capì che la paura del soldato era fondata, che era fermamente convinto dell'esistenza di un reale pericolo. Quello che non intuì era cosa lo spaventasse a tal punto. Che fosse la guarigione? Il notturno era davvero convinto di sparire una volta riunitosi col diurno? E se il diurno fosse venuto a conoscenza del proprio attuale stato psichico, avrebbe a sua volta temuto quell'inconveniente? Sherlock non poté fare a meno di chiedersi se tutto ciò avrebbe potuto ostacolare la guarigione di John “Distruggerebbe solo te o anche gli altri?”

John inarcò gli angoli della bocca in un sorrisetto infastidito “Perché, se distruggesse solo me, varrebbe la pena saperlo?”

Sherlock gli scoccò una delle sue migliori occhiatacce supponenti “Non fare l'idiota.”

Il soldato sospirò: sciolse la propria presa dal fondoschiena di Sherlock e liberò anche l'altra mano dalla presa del consulente investigativo. Si mosse poi sotto di lui, come se si trovasse all'improvviso in una posizione scomoda dalla quale non desiderava altro che fuggire “Non so cosa accadrebbe, Sherlock.”

Ma Sherlock non aveva alcuna intenzione di lasciarlo andare: lo bloccò meglio che poté tra il divano e il proprio corpo e ci riuscì solo perché il soldato, che un tempo lo avrebbe sopraffatto completamente, si arrese dopo pochi tentativi di reale determinazione “Perché dici che ti distruggerebbe?”

John iniziò a mugolare qualcosa a bassa voce e, continuando a scuotere il capo in un gesto di negazione, confessò il proprio cruccio “Perché sarei completamente vulnerabile.”

Sherlock si immobilizzò: arricciò le labbra verso l'esterno e studiò il volto di John in cerca delle caratteristiche di una persona che racconta qualsivoglia menzogna, ma, a parte il fatto che il soldato evitasse il suo sguardo diretto, non trovò nulla che confermasse quella tesi “Vulnerabile... nei confronti di chi?” chiese dunque, approfittando di quel momento di sincerità del proprio interlocutore.

John spostò lo sguardo in direzione del pavimento: non era una confessione facile,  soprattutto per una personalità orgogliosa come la sua. Dimostrarsi debole di fronte a Sherlock per colpa di quel qualcosa che aveva dominato fino a poco tempo prima. Di quel qualcuno. Tuttavia, per Sherlock averebbe fatto di tutto: anche mettersi a nudo, persino mostrarsi debole rinunciando addirittura alla giocosa, eppur seriamente coinvolta, supremazia nei suoi confronti. Inspirò a lungo, quindi tornò ad osservare Sherlock in viso “Del vero me.”

A Sherlock si seccò la bocca in un istante. Dunque il vero John era già presente nello sfondo del diurno e del notturno? Era così vicino alla vita reale? Aveva assistito agli episodi della loro vita? I litigi, le carezze più o meno innocenti, il bacio? Il bacio. Il bacio gli fece tornare in mente la domanda principale, quella da cui era partita quella pazzesca confessione, quindi tornò quel quesito provando a dissimulare il reale sconvolgimento che quella notizia gli aveva arrecato “Baciarmi ti renderebbe debole nei confronti del vero te?”

A quel punto John mugolò scocciato “Non è questione di baci, Sherlock.” sbuffò qualcosa riguardo alle capacità deduttive di Sherlock che, quando si trattava di lui, si abbassavano ridicolmente “Com'è possibile che proprio tu non capisca?”

Neanche a dirlo, Sherlock si sentì incredibilmente piccato dall'affermazione di John. Nemmeno lui poteva osare ridicolizzare il suo ingegno. Assottigliò uno sguardo battagliero verso di lui e gonfiò il petto sparandogli addosso la propria risposta in tono acido “Se non è questione di baci allora...” ma fu interrotto da John.

John gli soffiò via dal petto tutta l'aria con la quale si era impettito e gli lavò via la sua espressione arcigna nel momento in cui lo spinse verso di sé fino a che le loro bocche si incontrarono. Lo fece ad occhi chiusi, quindi gli baciò il contorno inferiore delle labbra prima di centrarle in pieno ed approfondire quel contatto che era nell'aria da molti mesi. Sorrise sulle labbra di Sherlock quando  si sentì ricambiare il bacio con una impazienza ed un appetito che somigliavano molto ai suoi: gli infilò le mani tra i capelli e, come se si trovasse di fronte ad uno specchio, percepì anche la propria capigliatura strattonata leggermente dalle agili e sottili dita dell'uomo che aveva sopra di sé. Era incredibile: lo stava baciando, lo voleva da mesi e avrebbe continuato per tutta la notte, ma al contempo sentiva un fastidioso senso di malessere che partiva dal centro della fronte e si irradiava verso il resto del proprio corpo. Sentiva che in qualche modo stava commettendo un errore e al tempo stesso si domandava come potesse essere anche solo lontanamente sbagliato baciare, desiderare, desiderare di possedere Sherlock che sembrava altrettanto smanioso di ricambiare le sue premure. Ma lui era un soldato e l'istinto prevaleva su tutto il resto: allontanò il viso di Sherlock dal proprio tirandogli i capelli con non molta grazia. Lesse lo smarrimento sul volto di Sherlock, quindi distolse lo sguardo e si giustificò alla bene e meglio “Visto? Non è per i baci.”

Anche dopo diversi istanti dopo che si furono staccati, Sherlock emise solo tanti piccoli gemiti che gli servirono sia per riprendere fiato, che per scaricare parte dell'adrenalina derivata da quel bacio. Il suo John l'aveva baciato: che meravigliosa esplosione di senso di appartenenza! A tutto: al mondo, a se stesso, a John. Ne voleva ancora, ne voleva ancora, ne voleva ancora: questo urlava il suo cervello che non poté fare altro che riscontrare la differenza tra il bacio col diurno e il bacio col notturno. Il diurno: dolce, inizialmente incerto, le labbra appena premute. Il notturno: un'esplosione di vigore, un bacio umido e approfondito, sicuro e destabilizzante; fin troppo impetuoso a tratti. Un'altra cosa a cui Sherlock non riuscì a non pensare era come sarebbe stata la fusione tra quei due bacio. 'Oh, buon dio' commentò intimamente di fronte a quell'epifania afrodisiaca. Dovette attendere ancora qualche istante prima di recuperare il filo del discorso: si trastullò con la lingua la bocca impastata dal piacere prima di parlare “Per cosa, allora?”

Ma più Sherlock dimostrava di non capire, più John sentiva crescere la frustrazione: non solo sarebbe sparito, ma se ne sarebbe andato senza che il suo unico amico avesse compreso la sua più grande paura “Non è davvero possibile che tu non l'abbia capito.”

Sherlock rimase in silenzio, studiandolo, ma dovette ammettere non senza fastidio che la critica di John era vera: non riusciva a dedurre pressoché nulla quando si trattava di lui. Reclinò il capo di lato e fu colto di sorpresa quando John, vedendolo distratto, riuscì a scrollarselo di dosso: si appoggiò al pavimento con le ginocchia e con il palmo sinistro e più di ogni cosa fu colpito da quello che poteva sembrare un rifiuto, ma che celava in verità l'ennesimo meccanismo di difesa di John. Lo aveva capito dalla costante contraddizione che muoveva i fili di John come se fosse una marionetta: sentiva il suo affetto, percepiva il suo desiderio, ma era altrettanto sicuro del fatto che una forza più grande di lui lo stesse frenando. E quella forza non poteva essere altri se non il vero John. Ma cosa, esattamente, il vero John stava frenando? Cosa non gli andava bene? Forse la loro relazione? Mentre si poneva quell'agghiacciante quesito, Sherlock si inginocchiò davanti al divano, di fronte al volto del soldato che continuava a cercare, a rincorrere, come i polmoni cercano l'ossigeno, come qualcosa di cui non si può fare a meno.

Il soldato era stanco: sentiva il sonno avvicinarsi e con esso la prospettiva di una nuova battaglia tra forze psichiche “Si sta liberando.” ansimò sfinito, voltandosi stancamente verso Sherlock: lo osservò con occhi lucidi e malinconici, occhi che pronunciavano un silenzioso addio.

Sherlock provò un leggero timore di fronte a quello sguardo “John?” gli prese il volto tra le mani e fece toccare tra loro le fronti, scoprendo quella del soldato fredda di madido sudore: lo riscaldò col proprio fiato e gli sfregò le guance tentando di tenerlo sveglio il più a lungo possibile.

“Sherlock...” sussurrò il soldato che non resistette oltremodo alla tentazione di guardarlo negli occhi per la prima volta: fu strepitoso e al tempo stesso spaventoso. Strepitoso perché gli occhi di Sherlock, visti da così vicino, gli ricordavano quelle pallide sere nel deserto afghano, quando iniziavano a vedersi le prime stelle nonostante il sole non fosse ancora calato del tutto. Spaventoso per il mostro che vi vide all'interno: una furia sorridente, un ribelle che voleva vendetta, una fiera così calma da provocare brividi di autentica paura.

Sherlock ricambiò lo sguardo, stupendosi nel ritrovare in quello di John accenni di reale terrore. Quella non era semplice paura di sparire, era qualcosa di più. Era come se John vedesse un nemico di fronte a sé, era come se...

'Oh...'

Un monosillabo che gli risuonò nelle pareti del Palazzo Mentale di Sherlock finché John non si allontanò rapidamente e riprese a parlare.

“Sherlock.” lo chiamò il soldato che, dopo diversi istanti di smarrimento, si sdraiò e chiuse stancamente gli occhi “Che cosa siamo noi?” mormorò con un fil di voce.

Sherlock tenne per sé l'enorme deduzione che lo aveva investito, preferendo salutare il soldato in quelli che, aveva compreso, sarebbero stati gli ultimi istanti in cui l'avrebbe visto sveglio “Coinquilini, amici.” iniziò, per  poi appoggiare il profilo destro sul torace di John, osservando il suo viso, gli occhi chiusi, le labbra morbide ma serrate. Alzò la mancina sulla sua guancia e gliela accarezzò morbidamente “Anime unite per sempre.

Il soldato sorrise per quella risposta. Oh, Sherlock gli sarebbe mancato davvero tanto. Alzò debolmente la mancina sul volto dell'altro, accarezzandogli lo zigomo affilato col pollice “Anche quando non ci sarò più?”

Sherlock decise di smettere di provare a convincere il soldato di quel fatto di cui lui, invece, era sicuro: non sarebbe sparito, non doveva succedere e non sarebbe accaduto. Lo vide sereno nella sua rassegnazione, quindi annuì beandosi di quella carezza così morbida e dolce “Il sempre prescinde lo spazio ed il tempo.”

John sorrise “Come un TARDIS.” biascicò, sempre più prossimo ad addormentarsi.

“Sì.” Sherlock era divertito dalla costante passione per il Doctor Who che era emersa nel diurno, nel notturno e persino da alcuni video-log del vero John “Posso rimanere?” chiese poi, ma non ricevette alcuna risposta.

Il notturno si era addormentato e Sherlock non se la sentì di rimanere ad osservarlo per il resto della notte: appoggiò con delicatezza la mano di John sul petto del soldato e, dopo averlo osservato per quella che sarebbe stata l'ultima volta, sparì nella propria camera da letto.

 

°oOo°

 

Il tardo pomeriggio del giorno seguente, John stava sistemando il soggiorno. Sherlock era stato particolarmente irrequieto e sembrava che nella casa fosse imperversato un ciclone: vestiti e libri erano disseminati per tutta casa, sul muro erano comparsi fori di proiettile, il tavolo era stato spostato e persino il teschio umano era relegato in un angolino polveroso. Anche Douglas era particolarmente arzillo, contaminato dall'agitazione che gli aveva trasmesso Sherlock: saltava da una parte all'altra della casa lanciando miagolii giocosi e al tempo stesso bassi ed inquietanti.

John aveva rinunciato in partenza a provare a discutere con Sherlock, persuadendosi del fatto che fosse semplicemente una giornata no e che il malumore sarebbe passato da solo così come era venuto. Cercava invece, paradossalmente, di ragionare con Douglas che saltava da un angolo all'altro della casa spuntandosi le unghie sui mobili e facendo cadere la maggior parte degli oggetti con cui entrava in contatto.

“Douglas! Basta!” urlò quando il gatto, saltato agilmente sulla libreria, fece cadere volumi più o meno antichi, soprammobili e altri oggetti di vario genere.

John sbuffò e si chinò per raccogliere i primi libri caduti a terra: scostò i volumi più leggeri quando la sua attenzione fu attirata da una cartellina semi nascosta. Sembrava uno di quei fascicoli dei casi irrisolti che Lestrade regalava a Sherlock di tanto in tanto, quindi ne fu incuriosito. Quando la estrasse dal cumulo di fogli, libri e soprammobili, si bloccò quando vide il nome 'Mainwand' inciso a lettere maiuscole nella parte alta della copertina: sentì il respiro accelerare, ma riuscì a vincere la moltitudine di sentimenti che lo stavano sconvolgendo e aprì il fascicolo.

Durò tutto pochissimi secondi: evitò il DVD, vide le foto, osservò il volto di Douglas, lesse le parole sottolineate con l'evidenziatore e l'unica che cosa che riuscì a fare fu urlare il nome di Sherlock con tutta l'aria che aveva nei polmoni.

 

 

________________


(0) Il titolo del capitolo è una citazione di Padre John Powell (non so chi sia, sinceramente, l'ho trovata su wikiquote)
(1) Myka, Pete e McPhearson sono tre personaggi di “Warehouse13” un telefilm che mi intrippa un casino e a cui ho voluto fare questo piccolo omaggio

(2) Citazione dal Doctor Who, ep 7x07 “The bells of Saint John” e che starebbe molto bene anche addosso a Mycroft <3
(3) Citazione da "La ricerca di Nemo"

 

   
 
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