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Autore: ArashiHime    28/11/2007    16 recensioni
E' la storia di un rifiuto e una lotta tra egocentrismo dilagante. Casse audio del computer che addobbano alberi di natale, email in birmanico (spacciato per inglese) e una storia che ormai molti pensano possa avverarsi...
Guarda e Impara Tom...Guarda e impara...
Genere: Romantico, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Grazie a tutte

Grazie a tutte...
...beh vorrei dire qualcosa di più, ma sembra che ormai non ci sia più tempo. Non c'è più tempo di nulla.
Ho scritto questo capitolo proprio pensando alla clessidra di sabbia che scocca spietata i suoi granuli eterni, e che non perdona e non attende.
Ho scritto ascoltando sempre My Immortal, pertanto ciò che le mie dita avranno creato è ciò che speravo i personaggi non mi avrebbero indotto a descrivere mai.

Tutto questo è la mia storia.
Spero che vi piacerà...

____________________________

Capitolo 22

Durante tutto il tragitto che ci condusse da casa mia all’unico grande aereoporto fiorentino –il giorno dopo- io e lui parlammo solamente italiano. Sinceramente non capii mai se per Tom quello fu solo un modo come un altro per non farsi capire dal ben famoso Saki –alla guida della grande automobile nera dai finestrini oscurati che ci venne a prendere sotto il portone del mio appartamento-, oppure una sorta di ultima stranissima voglia “all’italiana” ...Ciò di cui tuttavia mi sarei ricordata per sempre, ne ero sicura, era la sua voce baritonale stranamente addolcita nella pronuncia della mia lingua, e quell’inconfondibile profumo di tabacco dolce mischiato al dopobarba che ogni mattina era solito mettere dopo le sue più che irritanti ore di toiletta.
Un vizio che –anche di questo ero sicura- avrei sentito orribilmente la mancanza...
« ...Federica... » Sussurrò il mio nome come se quella, in quell’unico istante, suonasse come la sua unica verità e forma assoluta di alta poesia, e io –dal canto mio- quasi ispirata dalla sua voce di cui avevo cominciato a sentirmi irrazionalmente gelosa, non potei che voltarmi istantaneamente a lui, stringendo tra le dita piccole e bianche la mia borsetta rosso valentino che si sposava più che perfettamente con l’abito di pizzo nero e la mia nivea carnagione. « ...Ti invierò delle e-mail. Potrò? »
Che domanda sciocca –pensai tra me e me sorridendo quasi intenerita da quella forma di infantile dolcezza. La risposta era talmente ovvia, talmente scontata, che per un attimo sperai che lui la potesse leggere nei miei occhi, nella mia espressione...
...ma quel ragazzo che sedeva a pochi palmi di distanza da me non si voltò in mia direzione. Preferì continuare a guardare fuori dal finestrino dinnanzi al quale la nostra realtà svaniva in un susseguirsi di intense strisce cromatiche: Il volto sul palmo della mano. Il viso serio spento in un’espressione annoiata...
« Si » Risposi allora io, distogliendo lo sguardo che concentrai sulla mia scura visione del futuro. « Ti risponderò stavolta... » Aggiunsi un attimo dopo, quasi per ironizzare, sperando di poter veder nascere sul suo volto –almeno in ultimo- uno dei suoi soliti sorrisi al quale non sapevo proprio resistere...ma tutto ciò che ottenni fu solo una smorfia falsamente allegra e tirata artificialmente, e i suoi occhi nocciola puntati nei miei per un attimo che reputai eterno e durante il quale riuscimmo a dirci tutto quello che avremmo voluto, ma non potuto, in quella macchina nera e veloce...
Tutto.
« ...Grazie allora. » Disse in un sussurro strozzato, abbassando lo sguardo sulle mie mani rigide prima di riportarlo al finestrino alla sua sinistra.
« Prego » Risposi io apatica...e per la seconda volta in due giorni, mi riscoprii a definirmi orribilmente patetica…

…E la macchina continuò ad accelerare…


·¨¤ººº¤¨·


Vedere l’aeroporto completamente vuoto, ad eccezione delle guardie di polizia poste rigidamente ad ogni entrata ed uscita, mi lasciò addosso un’orribile senso di inadeguatezza a causa del quale non potei fare a meno che inchiodarmi al centro della grande sala d’entrata. Ferma.
Alzando gli occhi al cielo, cominciai ad osservare quasi affascinata ogni tabellone spento degli orari, degli arrivi e delle partenze, e nonostante non era sicuramente la prima volta che mettevo piede in quel posto, il sentire il forte profumo di fumo e fiori che saturava l’aria, mi provocò un capogiro a cui resistetti solo aggrappandomi alla mano di Tom, protesa verso di me…
…perché lui era lì. Gli occhi persi nei miei. Le mani in mia direzione a stringere le mie dita immobili, e un’espressione indecifrabile dipinta sul volto da adulto che ormai possedeva.
Stringendo le sue mani calde nelle mie, cominciai ad accarezzarne dolcemente il dorso, lasciando scivolare i miei polpastrelli lungo i nervi e i tendini in rilievo che avevo sempre amato e che da sempre mi avevano provocato forse insensati, ma irripetibili batticuore…tuttavia, quella volta, nel seguire il contorno delle sue dita, tutto ciò che ottenni fu solo un leggero brivido e una sensazione di soffocamento che reputai addirittura fastidiosa. Nulla di più.
Una sensazione vuota. Priva ancora una volta di quella poesia di cui sentivo disperatamente la mancanza, e che avrei fatto di tutto per riottenere...
« …tutto bene principessa? » Mi domandò accennando ad un sorriso, e stavolta si rivolse a me con un tono di voce pacato e tranquillo, abituale persino in quel pizzico di ironia di cui non faceva mai a meno.
« Si, grazie » Risposi prontamente io, ricambiando gentilmente il sorriso offertami…e anche il mio timbro di voce era tornato quello di sempre. Allegro. Spensierato.
Sia in me che in lui sembrava di punto in bianco non esserci più nessuna traccia di quell’oppressione che aveva mangiato costantemente il nostro animo in macchina, durante il viaggio che ci aveva condotti lì. Entrambi avevamo cominciato improvvisamente a scherzare e giocherellare come avevamo sempre fatto durante quel lunghissimo mese estivo, tra pizzicotti delicati e piccole provocazioni maliziose. Sorrisi e linguacce…
…ma probabilmente, dovevamo ancora comprendere entrambi cosa ci avesse spinto ad acquistare quelle prese di posizione, e per quale motivo nel nostro animo vigesse la più pacata delle maree.
Entrambi dovevamo capire…ma guardandoci l’un l’altra –solo per un brevissimo istante- comprendemmo che…no. Forse era assurdo…
Nessuno di noi avrebbe mai ottenuto un responso a quell’enigma sentimentale dalle troppe domande.
Nessuno.
Tanto meno io

« …Tom »


…Silenzio…

Il motivo per il quale, come nato dal nulla, nella mia mente comparve il testo di una melodrammatica poesia, ero sicura fossi destinata a non capirlo mai…eppure, quando sentii distintamente la voce di Bill Kaulitz baciarmi le orecchie con soffusa bellezza, le parole di quella cruda e incalzante poesia furono le uniche a placare istantaneamente il mio animo, lasciandomi la possibilità di vestire ancora una volta quella lucidità di cui –in quel momento più che mai- avevo terribilmente bisogno.

« oh… »

…Disse solo quello, e io in un primo istante –incantata dallo splendore di due metà separate l’una di fronte all’altra- mi riscoprii persino a sorridere…commossa o forse dolcemente rassegnata a quella mancanza di originalità che, se gli inizi di quella fiaba mi avevano inorridito, con il tempo avevo imparato ad amare.
Infondo Tom non era un ragazzo particolarmente esagitato. Non amava slanciarsi in manifestazioni strepitosamente sensazionali o in esibizioni uniche e mozzafiato. Ciò che voleva esprimere lo trasmetteva con un sorriso dolce e uno sguardo pacato…
…non era il tipo da mettersi a urlare per il solo fatto di ritrovarsi dinnanzi al gemello amato, a solo qualche metro di distanza. Non era il tipo da lasciare tutto e slanciarsi ad abbracciare quell’unica persona di cui aveva sentito decisamente troppo la mancanza. Non era il tipo da ridere o arrabbiarsi senza motivo, accecato da una cascata di emozioni che non sapeva distinguere e interpretare…
…Era piuttosto il tipo dal sorriso gentile –quasi imbarazzato. Era il tipo che dopo aver innocentemente alzato una mano in segno di saluto, compiva i primi incerti passi con lo sguardo puntato sulle mattonelle grigie del pavimento –pentito, sofferente- fin quando non era proprio quell’unico fratello a richiamarlo, a protendere verso di lui una mano, a sorridere con gentilezza –senza remore o rimpianti…
…E allora si. Era quello il momento.
Era quello l’unico istante che lo spingeva ad avvicinarsi con passo sempre più spedito e con un sorriso sempre più caldo. Ad afferrare quella mano con gioia incontenibile, stringendola con egual nostalgia…ed era sempre quello che –solo dopo aver guardato quei lineamenti così simili ai suoi e di cui dipendeva così ingentemente- lo sospingeva a protendersi in un abbraccio.
Un abbraccio impacciato. Duro ma dolce. Acerbo ma maturo.
Un abbraccio da uomini.

…E io, di fronte a quell’amore, mi sarei voluta abbracciare da sola; anche solo per colmare silenziosamente il dolore che sentivo nascere dentro, e a cui sapevo non sarei resistita mai.
« Bill… » Pronunciò quel nome con un sorriso, quasi assaporandone il suono che davvero per troppo non aveva sentito.
« Tom » Ripeté l’altro, chiudendo gli occhi e stringendo le spalle del gemello « …Sei tornato » Mormorò con voce spenta un attimo dopo, mentre un sorriso disperato gli si dipingeva sul volto…un sorriso che accolse un silenzio di solo qualche attimo. Un solo battito di ciglia…
…poi fu il chitarrista stresso a stringere a sé il fratello, in un gesto di spontaneo affetto.
« Si » Mormorò Tom, a fior di labbra. La voce tirata, le mani calde posate sulla schiena. « Sono tornato…scusami » …e immaginai che fosse solo una mia impressione vederlo così teso.
Del resto, come potevo capirlo, vedendolo solo di spalle?
« …scusami, sono tornato. Scusami. Scusami… »
…E lo ripeté ancora tante e tante volte.
E ogni volta, io lo ripetevo con lui.
“Scusami Bill” …scusami, davvero, ma...
“Scusami, non andrò mai più via da te” …ti prego, ti supplico…
“Ti voglio bene sopra chiunque altro” …non me lo portare via…
…No…
…Ti prego…ti prego…
« …Ti supplico… » Sussurrai improvvisamente con voce rotta, senza nemmeno rendermene conto. Non mi ero neppure accorta di tenere le mani orribilmente avvinghiate al petto, e le ginocchia premute le une contro le altre –come se quel gesto potesse darmi l’equilibrio che temevo mi avrebbe presto abbandonato-
…proprio come un orribile film anni 50 dalla pellicola sbiadita e rovinata. Uno di quei cortometraggi a scatti, dove la bella donzella protagonista veniva abbandonata dall’amore della sua vita che partiva per chissà quale guerra senza ritorno.
Una di quelle pellicole brutte dove non c’è mai un lieto fine, ma un solo sfocato “END” a caratteri cubitali che slitta sotto gli altri fotogrammi alla conclusione del bagno di lacrime.
Già. Proprio come un film così…uno di quelli che odiavo da sempre, e che da sempre mi ero rifiutata di vedere.
Osservai le mie scarpe per qualche attimo, sicura di star affogando in una vasca di sensazioni che non comprendevo e di cui avevo schifosamente paura…e quando finalmente mi decisi ad alzare lo sguardo –intimorita forse dall’idea che lui potesse scomparire prima ancora che avessi il tempo di salutarlo- trasalii nel rendermi conto che quegli occhi nocciola cerchiati di nero erano immobili su di me.
Bill Kaulitz, ancora avvinghiato al fratello, mi osservava silenziosamente dalle spalle della sua altra metà.
Lo sguardo tagliente. Il sorriso da lince. L’espressione viva di una soddisfazione che io, stordita, non compresi…
…e poi un sussurro.
Lento. Puramente interpretato.

“Me lo riprendo”

(.........)

…Non ho capito. Io non devo aver capito –pensai questo mentre Bill si allontanava e guardava in volto il gemello, sorridendo raggiante prima di indicargli l’altro capo dell’aeroporto dove solo in quel momento riconobbi le sagome di Gustav, Georg e David, il loro manager.

Me lo riprendo?
Era a tal punto arrivata la gelosia…?
Ero a tal punto arrivata...io?

Scossi la testa, portandomi entrambe le mani al ventre mentre vedevo la figura alta di Tom seguire Bill lontano da me; e fu quando abbassai la testa che mille domande –come cadute dal cielo- mi offuscarono la mente e stordirono i sensi:
Cosa avevo fatto? Perché avevo tolto l’unica cosa importante a Bill? Perché ero arrivata di punto in bianco? Perché era successo tutto quello? Perché io parlavo di loro come se li conoscessi da sempre? Cosa mi istigava ad amarli come parte di me?

…Chi ero io?

Silenzio.
Mille domande. Troppe risposte.
Incoerenza mentale. Follia momentanea.

« Federica… »


…La sua voce giunse alle mie orecchie improvvisamente, quasi insensatamente, ovattata com’era dalla disperazione che ormai mi aveva condotta sul lastrico della morte…tuttavia mi fu impossibile non alzare immediatamente lo sguardo, e ritrovare in un solo istante i suoi occhi e la sua bocca. Il suo volto.
« Federica » Ripeté Tom, distante da me di qualche metro. Le mani strette alla maglietta. Lo sguardo colmo di quello che avrei definito terrore. Disperazione. Rabbia. Gioia
…un caleidoscopio di emozioni a cui non avrei saputo far fronte, mai.
« Tom… » Mormorai io di rimando, e pregai che quelle che sentii bruciarmi gli occhi non fossero lacrime…
…Ma quante possibilità avevo di non piangere in quella circostanza?
Quante possibilità? Quale percentuale? Quale minuscola parte di me voleva mantenersi lucida a sorridere sarcastica e a dire “Addio” con una strafottenza irritante…?
Quale?
« …Principessa… » Mi accorsi che la sua voce era leggermente strozzata solo quando me lo ritrovai a pochi passi di distanza, e quell’unica constatazione bastò per terrorizzarmi. Ferirmi.
« Stai male? » Chiesi all’istante come accecata da una disperazione più ampia delle altre…e ovviamente non potei non sorridere quando mi interruppi, sovrastata dalla sua voce baritonale che –slanciata dal timore- mi chiedeva la stessa identica cosa.
Mi guardò in silenzio, sorridendo anch’egli per la medesima presa di coscienza; proprio quella che ci bloccava entrambi l’uno di fronte all’altra, troppo abbracciati nel nostro rispettivo sentimento da rimanere storditi da quell’insistente profumo d’arancia e vaniglia…troppo disperati dell’idea di non sentire più il calore dell’uno o dell’altro…troppo soli alla sicurezza che sarebbe passato tanto o forse troppo prima che qualcun altro avrebbe fatto accesso –bussando educatamente- nella bolla d’aria che ci avvolgeva e dolcemente vegliava…
troppo tutto. Perché non si potevano porre dei limiti alla confusione di sentimenti che in quel momento albergava in noi, come un cassetto disordinato dal quale si estrae frettolosamente i capi del mattino.
« …Allora io vado… » Mormorio sconnesso. Desiderio infranto.
« Si… » Nulla di più. Nulla di meno. Che altro? « …Fa buon viaggio… »
« Ti invierò una mail! » Speranza vuota. Realtà cruda.
« Ti risponderò » Libro aperto su un futuro non disegnato.
« Sempre? » …si?
« Sempre » …si.
…Mi riscoprii a domandarmi perché nei film o nei libri, nei racconti o nelle poesie, nelle canzoni o nei quadri…proprio in un momento del genere la protagonista o il protagonista trovano sempre qualcosa d’effetto da dire con il sorriso sulle labbra e un bagaglio di sogni da far invidia a chiunque.
Mi domandai perché nei film si, e in quel momento no? …cosa avevo che non andava?
…Perché proprio in quell’istante non sapevo cosa dire…?
Alzai lo sguardo, annaspando e affogando nel mio vuoto mentre le spalle di Tom mi venivano rivolte e quel ragazzo troppo alto e snello si allontanava da me a grandi e precise falcate, come se ormai fosse disgustato o troppo disperato all’idea di trascorrere un qualsiasi altro istante in quel luogo. Con me.
Perché doveva finire in quel modo? …perché doveva finire?
Cosa c’era che proprio malediva il mio essere e la mia vita? I miei gesti e il mio amore?

…il mio amore?
Cosa c’era.
Il mio amore.
Cosa c’era che non andava.
Perché.
Era lui.
E nessuno più.
Solo lui.
Era lui. Il mio amore.
IL MIO UNICO AMORE.

« TOM! » Strillai con tutto il fiato che avevo in gola, e me ne fregai delle lacrime che cominciarono a strozzarmi la gola o ad offuscarmi la vista. Me ne fregai delle gambe tremanti o delle mani disperatamente protese nel vuoto. Dello sguardo livido o degli urli strazianti…
…corsi solo verso di lui, più veloce della dea del vento. Corsi come non avevo mai fatto, come forse non avrei fatto mai più. Corsi. Corsi.
Riuscii solo a correre…
« TOM! » Urlai di nuovo, piangendo ancora di più quando vidi lui voltarsi di scatto e allargare le braccia pronto a prendermi. « TOM! TOM! TOM!! » …E lo ripetei una. Cento. Mille. Duemila. Infinite volte.
Gli saltai al collo, stringendolo a me, piangendo disperata, urlando il suo nome. Lo strinsi più forte che mai, incurante che avrei o meno potuto togliergli il fiato. Incurante del morto imbarazzo. Incurante di tutto.
« TOM! » Strillai ancora, quasi istericamente, e lui mi strinse tra le braccia –come una bambina capricciosa che non vuole posare il suo giocattolo preferito.
Mi strinse a sé con una forza inaudita, sprofondando il suo volto contratto tra i miei capelli color del miele, soffiando in essi come se quell’unico gesto gli proibisse di urlare a sua volta, di spezzarmi o farmi del male…
« TOM! TI PREGO! » Singhiozzai come una mocciosa in cerca di certezze che ero sicura non avrei avuto, e quando il ragazzo si alzò e i miei piedini a malapena toccarono il suolo…non potei fare a meno che stringermi con maggior enfasi a quelle spalle e quella schiena, come se quella fosse la mia unica sponda di sopravvivenza. La mia unica vita.
« Chiedimi di non partire » Lo sentii supplicare con il viso profondo tra i miei capelli setosi. La voce rotta. Disperata.
« NON PARTIRE » Urlai immediatamente io, singhiozzando e stringendolo sempre con più forza…sentivo ormai le braccia sciogliersi e il fiato mancare. Sentivo i miei muscoli gemere e la mia mente vacillare…
…ma poco importava. Perché quel momento non sarebbe mai più tornato e dovevo e volevo viverlo.
Non sarebbe più tornato.
Mai più.
« …Non posso lasciarti » Gemette Tom, alzandomi di qualche altro millimetro da terra.
« Non devi farlo » Piansi io, quasi rimproverandolo di un gesto che sapevo prima o poi sarebbe sarebbe avvenuto.
« …Non posso » …ma devo, vero?
« Devo dirti una cosa » Esclamai immediatamente, senza lasciarlo andare, piangendo come una piccola idiota senza cervello né anima.
« Anche io » Scattò improvvisamente Tom, e ogni suo soffio era uno schiaffo addolorato. Una sofferenza che cresceva…
…ma era inevitabile, ed entrambi lo sapevamo.
Entrambi sapevamo che quella scena di seconda mano sarebbe presto finita. Con tutte le conseguenze del caso. Tutte.
Non ci sarebbe stato un “poi” né un “mai” …ci sarebbe solo stato un “niente” …
…perché è quello ciò in cui saremmo caduti entrambi.
Quando le nostre spalle si sarebbero voltate le une alle altre, e i nostri fili del destino sarebbero stati recisi con un paio di forbici affilate…
…sarebbe stato solo il “nero”, solo la “fine” …
nulla di più.
« …Prima te » Singhiozzai io, tentando di trattenere quelle convulsioni vergognose.
« No » Protestò Tom, trovando ancora da qualche parte la voglia di ribattere. Di giocare come un tempo. « Mi vergogno »
« …Demente » Piansi io di rimando. Gli occhi lividi e gonfi da un rivolo di dolore che non sembrava placarsi.
Un rivolo di sangue che non si sarebbe mai fermato.
Che mai avrebbe sanato la ferita ormai aperta e dolorante.
Per sempre.
« …Insieme » Propose dopo un attimo di silenzio il chitarrista, stringendomi senza sosta. Incurante degli occhi forse allucinati o forse addolorati di chi ancora lo attendeva.
« Insieme » Accordai io, cercando di raccimulare in una manciata di istanti quella dose di coraggio o quel pizzico di lucidità, di calma e serenità che sapevo di dover ancora avere.
…ma era inutile. Davvero. Lo era.
Perché era quasi follia ripetere quell’unica parola che sapevamo non si sarebbe avverata mai. Sapevamo che dirla non avrebbe provocato che altro immenso dolore, eppure contemporaneamente, non potevamo fare a meno di sperare in un miracolo. In una sorta di sogno senza fondamenta, destinato a crollare come una casa di paglia e aria…
…non potevamo, però, farne a meno. Realmente. Non potevamo.
« Al mio tre » Sussurrò Tom, con voce spenta e tremante.
« Al tuo tre » Ripetei io come un automa, conficcando quasi le unghie nella sua schiena. Inspirando con tutta la mia forza il suo profumo pungente. Il suo amore profondo. Il suo essere unico…

« Uno »
…sorrisi e ricordi…
« Due… »
…origine e conclusione…
« TRE »
…unica, indispensabile, manciata di verità e poesia…

« TI AMO »


…E lo dicemmo insieme, io piangendo, lui quasi ringhiando. Lo dicemmo con una semplicità infantile. Con il sorriso sulle labbra e le lacrime masticate assieme alla dolcezza della comprensione.

…Lo dicemmo così.
In due sole parole.
Come il più classico dei film…

…e quella fu decisamente la fine…

…Perché quando infine lui se ne andò, e io vidi quell’aereo perdersi nell’immensità del cielo…
Quando i miei occhi videro il mio corpo scivolare a terra, e la mia anima cadere assieme ad esso...
Piangere silenziosamente e desiderare la morte…
…fu la più perenne e dovuta delle speranze...

  
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