Il cane e la bambina
Brown, in fondo,
era un cane. La sua memoria era breve, non poteva ricordare chi l’aveva lasciato
in quell’angolo sporco, nel capanno. Sapeva solo di avere freddo. Percepiva un
odore di umido, un odore cattivo, di cui non ci si poteva fidare. Era
confuso. Uscire da lì era la cosa più ovvia, più giusta, ma c’erano pareti, e
pozzanghere, e strani rumori. Così aveva scelto di accucciarsi al buio e
rimanere in attesa.
Certo, di sicuro
prima o poi le cose sarebbero andate meglio. Magari sarebbe tornata quella luce
che scaldava e rincuorava. Forse doveva proprio attendere tempi migliori.
Brown non sapeva
cosa fosse la tristezza, eppure provava qualcosa di molto simile ad essa. E
noia, forse. I cuccioli, anche se lui ne era all’oscuro, giocano e saltano tutto
il giorno. Ne aveva voglia, quello sì. Ma c’erano i pericoli a
ricordargli di rimanere fermo. Qualcosa che riusciva a percepire.
Era rimasto almeno
un giorno intero lì, nel fango. Nessuno gli aveva insegnato cosa fare per
mettere a tacere i morsi della fame, così aveva leccato un po’ in giro,
d’istinto. Il sapore dell’acqua sudicia non era certo piacevole, ma sapeva di
averne bisogno. Aveva bevuto, molto, sentendo le forze che si affievolivano e la
voglia di correre sempre meno pressante. Doveva conservare le forze, la luce
sarebbe tornata.
Ed era tornata, in
effetti. All’improvviso.
Aveva sentito dei
passi. Qualcosa stava correndo lì vicino. Aveva abbaiato, usando le ultime
forze. La voce, scaraventata fuori dalla gola, che graffiava e bruciava. E quel
qualcosa aveva spalancato la porta del capanno, in un modo così semplice che
Brown era rimasto stupito. La barriera che per lui sembrava invalicabile, per
quel qualcosa era un gioco da ragazzi.
E quel qualcosa era
una bambina.
Brown non aveva mai
conosciuto una bambina, prima. Imparò in fretta che una bambina è qualcosa di
soffice, tiepido, avvolgente. La bambina l’aveva preso fra le mani e aveva
sorriso, gli aveva fatto sentire la sua voce, in risposta ai guaiti di sollievo.
La sua salvatrice
l’aveva riempito di carezze, di baci, nonostante il fango che lo ricopriva.
Aveva slacciato il suo grembiule per avvolgerlo ed asciugarlo. Aveva spostato
della legna per rendere il posto un po’ più accogliente. Si era data un gran da
fare, continuando a parlare. Brown non riusciva a capire cosa dicesse, ma il
tono era calmo e pacato. Quella bambina parlava a voce bassa, lentamente,
scandendo le sillabe come se volesse davvero fagli comprendere. E sorrideva
sempre.
Era bello, quel
tepore.
Ma poi era andata
via. Aveva richiuso la porta, e Brown si era affaticato a grattarla e morderla e
graffiarla, perchè lui non voleva che lei andasse via. Aveva leccato ancora un
po’ le pozzanghere e poi si era gettato sul panno, accucciandosi al meglio. Era
riuscito ad addormentarsi solo dopo molto tempo.
Con suo enorme
sgomento, aveva scoperto che la bambina non era scomparsa. C’era quindi un
mondo, dietro quella porta. Un mondo dal quale lei veniva. Pieno di luce... e di
cibo. Era tornata l’indomani, infatti, portando con se’ pezzi di pane, una
brodaglia tutta da succhiare, acqua tiepida con cui l’aveva massaggiato per
portar via le macchie di terra. Brown aveva morso e leccato, si era scaldato
nell’acqua e si era lasciato asciugare docilmente. Aveva abbaiato con
riconoscenza alla fine, sentendo la pancia piena ed un fantastico calore
profumato intorno a lui.
La bambina, scoprì,
si chiamava Jennifer. Lo ripeteva in continuazione, per insegnarglielo. E lui,
da quel momento, sarebbe stato Brown. Gli piacevano quei suoni, scodinzolava
felice mentre lei correva e gli urlava “Brown! Brown!” per incitarlo a seguirla.
La sua bambina era
stupenda e la vita cominciava a sembrare divertente.
Brown non aveva mai
visto altri esseri umani, prima. O almeno non ne ricordava. Quando Jennifer
portò con se’ un’altra bambina, tenendola per mano e saltellando, Brown si
spaventò un po’.
Era stata una
giornata dura: nel capanno si era intrufolato un topo, che Brown aveva accolto
con una vaga isteria, ululando e correndo a nascondersi sotto i panni. Si era
sporcato tutto, a rimanere tremante in mezzo al fango. Così, quando andando
incontro alla sua bambina ne scoprì un’altra, non fu molto contento.
La nuova bambina
somigliava molto a Jennifer, ma gli occhi erano diversi. Lo aveva guardato con
disprezzo, e Brown non conosceva cosa fosse quell’atmosfera tesa.
“E’ questa, la
sorpresa?” aveva detto la bambina nuova, indicandolo, con una strana smorfia.
Jennifer aveva annuito con eccessiva allegria.
Non era un buon
segno.
Brown aveva capito,
però, che la sua bambina voleva molto bene a quell’altra, e così aveva tentato
di avvicinarsi. Lei si era chinata per osservarlo, mantenendo un’espressione
schifata.
“Puzza. Fa davvero
ribrezzo.”
E dal tono Brown
aveva capito che non erano parole d’affetto.
Quando Jennifer si
era un attimo voltata, per risistemare i panni che l’intrusione del topo aveva
trasformato in una pozzanghera sudicia, la nuova bambina lo aveva afferrato e
aveva stretto forte. Troppo forte. Brown si era lasciato sfuggire un guaito,
prima di svincolarsi e scappare al sicuro.
Quella bambina lo
detestava. Ne era certo.
Nei giorni
successivi, in cui Brown non la rivide più, ogni tanto gli tornò in mente quel
suo odore forte, dolce, quasi eccessivo. Ben diverso da quello soffice di
Jennifer.
Ma, a dirla tutta,
non se ne preoccupava.
La sua bella
bambina veniva a trovarlo tutti i giorni. Lo accudiva con gioia, gli parlava a
lungo, lo grattava proprio nei punti giusti. Passarono mesi così. Mesi in cui
per Brown la vita era facile ed allegra.
Poi, una mattina,
la porta si aprì in modo diverso dal solito.
Brown si sollevò
per sbirciare, un po’ insonnolito. Non era l’orario giusto. E quella non era
Jennifer. Lo percepiva dai gesti, dalla voce, dall’odore. Gli odori.
Alla porta c’erano
tante bambine, tutte diverse, che ridevano e parlavano fra loro sottovoce. In
testa, la bambina nuova, quella che lo odiava, con un enorme sacco in mano.
Brown iniziò a
ringhiare. Quella faccenda non gli piaceva.
“Uno sporco sacco
per uno sporco cagnaccio!” gridò Wendy, e all’improvviso tutte le bambine gli
furono addosso. Confuso, terrorizzato, Brown abbaiò e ululò e cercò di scappare,
ma senza capire come si ritrovò nel sacco. Qualcuno lo chiuse. Era in trappola.
Brown, in fondo,
era un cane e così venne preso dal panico. Se avesse mantenuto la calma avrebbe
potuto lacerare la tela con i denti, ma non lo sapeva e così prese a muoversi,
senza riflettere.
Il primo colpo
venne così di sorpresa che non avvertì nemmeno dolore. Rimase immobile, a
chiedersi cosa fosse stato.
Al secondo colpo
iniziò a capire. Pericolo. Non importa perchè.
Fuori dal buio,
risate e urletti stridenti. Ricominciò a muoversi.
Terzo colpo, e fece
male. Sentiva qualcosa di viscido scivolare sul suo corpo. Ad occhi spalancati
ficcò il muso verso l’uscita del sacco, senza riuscire ad aprirla.
Dopo il terzo, i
colpi divennero troppi per essere distinti. Il dolore crebbe e crebbe, la
sensazione di qualcosa di caldo che scivolava via. Brown iniziò a non poter più
respirare. Continuò a spingere e grattare nonostante le fitte lo facessero
sobbalzare ogni volta.
Poi un lampo,
qualcosa di insopportabile. Guaì con tutta la forza rimasta, si fermò. Aveva
capito. Era inutile. Non l’avrebbero lasciato uscire.
Qualsiasi fosse il
motivo, quella bambina aveva deciso di ucciderlo. Questo riusciva a capirlo,
anche se era solo uno stupido cane.
Si abbandonò,
strinse la tela con i denti per sfogare il male che provava, e dopo un sospiro
profondo il dolore sembrò andar via, le risate si fecero lontane, l’odore del
suo sangue coprì tutto.
Solo in quel
momento, mentre moriva, mentre Wendy si chinava per controllare che fosse
davvero morto, la sua stretta lacerò la tela strappando un lato del sacco e
riempendolo con la luce tiepida del giorno.