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Autore: Hunter of Demons    11/05/2013    1 recensioni
Fanfiction I classificata nel contest di giugno 2012.
Originale
Autrice: Vals;
Personaggi: Semiria Duchannes
Samuel
Semiria sente il bisogno di riscoprire le sue radici, con la benedizione del marito la ragazza parte in un lungo viaggio che la riporterà sui luoghi e dai protagonisti della sua infanzia, scoprendo qualche cosa sulla sua famiglia di veramente scioccante.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autrice: Vals;
Personaggi: Semiria
Samuel

Tengo stretto tra le mia braccia il miracolo della vita: una piccola bambina profondamente addormentata.

Samuel mi accarezza delicatamente le punte dei capelli e sento che mi guarda dall’alto della sua statura, ma io non riesco a staccare gli occhi da questo piccolo esserino che sembra raccogliere in sé tutta la felicità di questo mondo.

Mio marito mi alza teneramente il mento e mi bacia; un contatto fugace, ma dolcissimo.

- Quando sarà più grande hai intenzione di raccontarle tutto quanto? –
Guardo di traverso il capellone, con aria interrogativa ad indicargli che non conosco l’argomento di cui parla.

- Intendo dire: gli dirai di chi sei parente ? – specifica Sam in risposta alla mia muta richiesta.

Instintivamente le mie mani si stringono intorno al corpicino, come per proteggerlo da una minaccia invisibile, ma incombente.
Temporeggiando, rimetto nella culla mia figlia.

- Preparo del thè – dico cambiando discorso, sperando che il diversivo faccia desistere l’hippy dal ricevere una risposta da me.
- Non saltare di palo in frasca ! – mi ammonisce lui alzandosi in piedi e prendendomi il gomito, voltandomi verso di lui.
- Quando Lei ti chiederà chi sono i suoi nonni non potrai certo fare finta di non avere sentito anche perché non ci vorrà molto prima che lei impari a parlare e tu non sarai ancora abbastanza vecchia da fingerti sorda – prosegue Sam, il tono un poco alterato, ma tutto sommato tranquillo.

In fondo è una mia decisione e lui non può costringermi, ma non posso nemmeno negare a mia figlia di conoscere le sue origini come è successo a me.

- Non ho scelta – ammetto rimettendomi ad armeggiare con la teiera.
- O meglio, ne avrei mille, ma sarebbero tutte quante sbagliate -.

Resto un attimo in silenzio, intenta nel preparare il giusto dosaggio di infuso da aggiungere all’acqua una volta che questa raggiungerà il punto di ebollizione.
Un altro tentativo di allungare i tempi.

- Quindi ? – mi incalza Samuel sedendosi al mio posto, sulla sedia a dondolo fatta di vimini intrecciati.
- Quindi quando sarà il momento le racconterò tutto – conclusi posando sul tavolo due tazze di porcellana.
- Dipende cosa intendi tu con “tutto” – insiste mio marito.
Non capisco proprio a che punto egli voglia arrivare
- Intendo ogni cosa, dal motivo che mi ha spinta a cercare nel mio passato al modo a cui sono giunta al mio obiettivo dico con un sospiro, mentre la mia memoria galoppa come un cavallo selvaggio nelle praterie di ricordi ancora troppo recenti per poter essere riposto nel dimenticatoio.

Al tempo ero incinta, ma erano i primi mesi della gravidanza ed ancora non era cominciato tutto l’iter di preparativi che mi avrebbero costretta a casa, nel letto aspettando la fatidica notte.
In realtà, ero ancora agile e scattante, ma era mia volontà non compiere movimenti inconsulti per non danneggiare il feto. Quindi mi concedevo estenuanti camminate e brevi, ma intensi allenamenti per rimanere in forma e non perdere il ritmo. Il tutto sotto il vigile occhio critico di Layla.

E fu allora, durante una delle tante e lunghe passeggiate, che fui attanagliata dal dubbio.

Come sarei riuscita a dare a mia figlia una famiglia stabile se io non ne avevo mai avuta una?
Come saremmo riusciti a fare da genitori ad una bambina quando io non conoscevo nemmeno i nomi dei miei creatori?

Avevo bisogno di risposte alle domande sul mio passato per poter vivere serenamente il prossimo futuro.

Ovviamente discussi della cosa con mio marito, anche se una parte di me avrebbe voluto partire immediatamente, senza avvisare nessuno, ma non potevo perché questo avrebbe significato un rapimento. Dopotutto mia figlia era anche la figlia di Samuel e non potevo andarmene via di casa senza alcuna spiegazione, o lasciando solo un semplice biglietto in cui spiegavo la situazione: sarebbe stato alquanto infantile.

Come previsto, il capellone era assolutamente contrario alla mia iniziativa e mi vietò fin da subito di compiere quel pericoloso e lungo viaggio, ma lui non poteva capire.
Lui aveva avuto fin da subito una famiglia a coccolarlo…che poi sia stato lui a decidere di andarsene non ha alcuna rilevanza.
Il fatto è che Sam non avrebbe mai potuto capire come ci si sente senza una madre ed un padre, sbattuta dentro un orfanotrofio ed aver vagabondato in cento città diverse senza avere un luogo a cui affibbiare l’appellativo di “casa”.

E fu proprio per questo ch’egli accettò di lasciarmi andare, consapevole della sua incomprensione nei confronti delle ragioni che mi spinsero a prendere una tale decisione.

Partii la mattina seguente, con più di un fardello oltre allo zaino a pesarmi sulla schiena.

Avevo già focalizzato la mia prima tappa, anche se non ero sicura fosse il punto giusto da cui partire.

L’orfanotrofio dove passai l’intera mia infanzia era la mia prima destinazione.
Non sapevo se vi avrei trovato qualche indizio, ma da qualche parte dovevo pur cominciare.

Fu un viaggio lungo attraverso terre di umani e lande desolate, ma fortunatamente il mio essere Superne mi concesse una resistenza maggiore alle fatiche del mio cammino.


 

Giunsi all’edificio senza aver avuto bisogno di chiedere informazioni ad alcuno, la qual cosa non mi sorprese affatto.
Avevo impresso a fuoco nella mia memoria quell’orribile caserma e provai un sinistro moto di compiacimento nell’intravedere le fondamenta scrostate e il tetto quasi del tutto assente.
Non che al tempo la casa fosse tenuta in condizioni migliori, ma certo non cadeva a pezzi.

Con forza spinsi il portone d’ingresso a doppia blindatura, ma il tempo e la ruggine avevano intaccato serrature, lucchetti e cardini; perciò, appena toccai il maniglione, questa cadde a terra con un tonfo sordo, alzando una nuvola di polvere mentre il rumore si disperdeva nel lungo corridoio dell’entrata.

Ma le mie orecchie si erano improvvisamente chiuse così come i miei occhi si erano offuscasti, entrambi trasportati indietro nel tempo di circa dieci anni.

Un vociare concitato, rimproveri alterati.
Delle bambine che, nel cuore della notte, corrono da una stanza all’altra. I loro passi attutiti dal morbido tappeto.
Un’anziana matrona, Madama Meyer, dal colletto talmente inamidato da renderle difficile persino girare il collo che insegue le monelle. La donna ne riesce a carpire una per il polso.

La piccola ha lunghi capelli rossi ed occhi talmente verdi da brillare al buio, ma in un attimo quelle grandi iridi sono piene di lacrime.
La matrona l’ha picchiata, per l’ennessima volta, come tutti i giorni.

Indispettita, l’orfanella tira un calcio negli stinchi alla Signora e scappa via correndo, rifugiandosi sotto il suo letto della sala comune, quella dove venivano ammassati tutti quei senzatetto ormai senza una sola possibilità di venire adottati.

Riaprendo le palpebre, tornai alla realtà di quella dimora affondata nella decadenza.

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Le mura sverniciate a causa dell’umidità portavano ancora su di loro i disegni di dipinti infantili.
Sul davanzale di una finestra dai vetri rotti erano appoggiati vasi di piante ormai morte da chi sa quanto e alcune porte erano sprangate con assi di legno.


Cos’era successo all’orfanotrofio? Perché era stato abbandonato ?

- Stai cercando qualcuno ? – sentii una voce dietro di me.
Mi voltai di scatto ed un anziano uomo appoggiato ad un bastone mi osservava con aria incuriosita.

- Chi ha ridotto così questo posto ? – domandai io, dimenticando completamente le buone maniere ed omettendo una risposta al quesito dello sconosciuto.

- Il tempo bambina, ma pare che su di te non sortisca alcun effetto – asserì il vecchio avvicinandosi di qualche passo.
- Dico bene ? – continuò lui, stranamente consapevole di non avere torto.

- In effetti no – risposi dando un’ultima occhiata al soffitto ormai scomparso.
- Sa che fine ha fatto Madama Meyer ? – chiesi saltando di palo in frasca, sperando che all’anziano quel nome non risultasse nuovo.

- E’ deceduta qualche anno fa – proferì l’uomo con voce incolore.

- La conosceva ? – insistetti io notando la fatica del mio interlocutore nel continuare il discorso.
Era evidente che sapeva benissimo di chi parlavo, ma non ero altrettanto certa ch’egli volesse proseguire nella discussione, quindi il mio interrogativo era un modo per verificare che il vecchio fosse in grado o meno di darmi le informazioni che cercavo.

- Certo, Gertrude era mia moglie – replicò l’uomo abbassando lo sguardo, innervosito dall’indiscrezione di quella ragazza.

- Lei è il custode dell’orfanotrofio ? – domandai io, cercando di cambiare discorso in modo da non infastidire ulteriormente l’anziano.

Lui annuì, assente, perso nella marea di mementi che in un attimo avevo fatto riaffiorare nella sua vita.

- Potrebbe gentilmente accompagnarmi al piano superiore ? – lo pregai con aria innocente.

Il vecchio, ora ripresosi, mi fissò con il sopracciglio alzato tipico dello scettico, ma acconsentì comunque a scortarmi nella visita dell’edificio in rovina, ammonendomi in tempo sui punti del pavimento da non calpestare e sulle ragnatele penzolanti da evitare.

Giunti al secondo piano, non ebbi più bisogno della guida e avanzai decisa in mezzo alle macerie come se avessi il navigatore incorporato, tanto avevo stampato nella testa la mappa del luogo.

Conoscevo ogni stanza, scalinata, scantinato e sgabuzzino di quella casa, ma non potevo certo aggirarmi lì dentro senza avere il permesso del vecchio dato che ormai mi aveva scoperto.

Senza esitazione svoltai a destra, ritrovandomi in una camera lunga e stretta dove due file di letti a castello si fronteggiavano, lasciando nel mezzo un angusto passaggio.

I giacigli erano completamente distrutti, le reti sfondate e regnava un malsano odore di sporcizia.
Ma anche in quel caso sapevo già dove andare.

Avanzai sicura fino a raggiungere il penultimo materasso sulla sinistra; il mio.
Spostai con l’ausilio delle mie spalle la struttura fino a scoprire le assi di legno del pavimento e senza pensarci inutilmente, tirai un pugno su una trave, in un punto ben preciso.

L’anziano sulla soglia non batteva ciglio e continuava ad osservarmi.

Indisturbata, continuai nelle mie azioni.

Elettrizzata, infilai una mano nella breccia e le mie dita si chiusero intorno a qualcosa di fresco e metallico.

Ne trassi una scatola quadrata, dalle decorazioni metalliche complicate.
Ne alzai il coperchio e per la seconda volta venni catapultata indietro nel passato.

Un orchidea appassita e schiacciata tra un mucchio di istantanee, un vecchio diario rilegato in una fodera rossa mangiucchiata dalle tarme, la fiala di un liquido rosso appiccicoso e un ciuffo di capelli.

L’aria sembrava ferma, immobile, così come il mio respiro.

Cauta presi la ciocca tenuta insieme con un filo di rafia e avvicinandola alla luce di una lanterna ne notai le sfumature ramate.
Mi sembrò quasi di avvertire un leggero sentore di lavanda, il profumo di mia madre, ma fu solo una mia impressione…o almeno credo.

Proseguì nella riscoperta di quei tesori nascosti per troppi anni e strinsi una foto.
Il soggetto era una vecchia donna che, mostrando il suo sorriso sdentato, teneva sulle gambe un’infanta dall’espressione sconsolata.

Il custode era già andato via da parecchi minuti, convinto che quella strana ragazza dai capelli troppo appariscenti non fosse in cerca di guai, ma solamente del ricordo di sé stessa.

Tra le mie dita lo stelo della piantina pareva così gracile che decisi di riporlo immediatamente al suo posto, evitandomi così una vagonata di lacrime dato che l’orchidea era il fiore preferito di mia zia Amelia.


 

Ricordo che quella donna era un oceano di energie e di dolcezza infinita, ma dalla sapienza incommensurabile.

Fin da piccina mi aveva sempre ripetuto di essere una creature speciale, che il mio sangue valeva come l’oro e che dovevo prendermi cura di me stessa quando non ci fosse stato più nessuno a farlo.

All’inizio credevo che fossero solo le raccomandazioni di una parente preoccupata per il futuro della nipotina, ma c’era dell’altro nelle parole dell’anziana, qualcosa di più profondo e di celato nell’oscurità e io, da bambina innocente, raccolsi il mio plasma in un flacone di vetro, ferendomi volontariamente una vena.

Finita l’operazione corsi debole, ma felice dalla mia cara Amelia, agitando l’ampolla con soddisfazione, ma mi lasciò di sasso la reazione della donna.
La zia per poco svenne, inconsapevole che avevo preso a lettere le sue frasi.

- Hai visto Ami, ora nessuno mi può fare male ! – affermai decisa, sfoggiando coraggio e la mia tipica combattività di sempre.
L’anziana mi accarezzò la testa, incapace di sgridarmi o riprendermi in qualsiasi modo.

Questo è il più bel ricordo che ho di lei ed è proprio da Amelia che decisi di recarmi, con la fiala di sangue e un sacco pieno di domande.

Attualmente, la donna risiedeva in un manicomio della città e non ci fu bisogno di attuare ricerche impossibili. Già al tempo Ami mostrava segni dimostrativi della sua degenerazione mentale.

Non osai immaginare dopo quasi quindici anni in che condizioni si trovasse.

In effetti, la zia era piuttosto peggiorata rispetto all’ultima volta.

Ora farneticava parole a caso e il suo sguardo era perso nel vuoto della sua camera da letto.
Mangiava regolarmente ed ogni giorno veniva accompagnata da una delle infermiere a fare una passeggiata pomeridiana nel giardino dell’ospizio, ma lei semplicemente non c’era.
La sua psiche era completamente assente, convinta di trovarsi in un altro mondo, forse già persino nell’aldilà.

Ma paradossalmente, Amelia non faticò a riconoscermi, nonostante le facce delle assistenti fossero per lei completamente nuove ad ogni giorno.


- Sei tornata, bambina mia – mi accolse la ormai centenaria donna facendo segno con gli occhi di sedermi accanto a lei.
- Sì, ma solo per poco – risposi io, consapevole di rattristare a quel modo la mia interlocutrice, ma non potevo darle false speranze.
La zia sospirò, facendo spallucce.
- In fondo sei sempre stata uno spirito libero – asserì lei accarezzandomi una guancia mentre un vago odore di rosa canina mi solleticava l’olfatto.

- Cosa ti porta qui ? – continuò l’anziana riponendo la nodosa mano sulle ginocchia.
- Il futuro – proferì con estrema serietà, convinta che la donna avrebbe capito cosa intendessi dire. Difatti ella annuì, conscia delle motivazioni della mia presenza.
- Giusto, bisogna prima aver compiuto un passo indietro prima di iniziare quello successivo – recitò l’anziana sfoderando la massima del giorno.

Tirai fuori dal mio borsellino la fialetta ove il liquido si era ormai rappreso.

- La conservi ancora ? – mi domandò commossa la zia allungando una delle sue scheletriche dita.

Gentilmente le porsi la boccetta ch’ella rigirò tra le mani, incredula nel riaverla ancora a sua portata

- Ami, ricordi quando dicevi che il mio sangue valeva oro ? – feci una pausa in attesa di un riscontro da parte della mia interlocutrice.
Quella fece un breve cenno con il capo ad invitarmi a continuare nel discorso.
- Perché dicesti così ? Perché continuasti a ripetermi per anni che ero speciale ? Cos’ho io di diverso ? – chiesi insistentemente, le iridi lampeggianti.

Amelia sorrise. Era un sorriso stanco, lontano, troppo consapevole di ciò che è stato e di ciò che sarà.

- Ho aspettato a lungo che tu mi ponessi queste domande, ma il destino aveva deciso di allontanarci a causa di quel terribile demone; tuttavia, in fondo al cuore, ho sempre saputo che mi avresti cercata di nuovo, un giorno – confessò la donna sospirando malinconicamente.
- La vita è crudele Semiria e non sempre le risposte ai nostri quesiti corrispondo alle nostre aspettative. Tu sei grande e ormai dovresti saperlo – si fermò un attimo studiando la mia fisionomia per rendersi veramente conto di quanto io in effetti fossi cresciuta.
- Tu sei differente perché in te scorre sangue di demone – spiegò la zia.

Io corrugai la fronte. Com’era venuta a conoscenza del trapianto? Di certo non ero stata io a comunicarle la notizia.

Feci per replicare, ma la donna mi fermò con una mano, facendomi capire di non voler essere interrotta.

- Come lo so? Be’, la mia stupida sorella, tua madre, aveva sposato un dannatissimo demone – sputò Amelia, tirando fuori in un secondo tutto il rancore e la rabbia serbati per anni dentro al suo cuore.

Io mi ressi alla sedia, quasi stessi per cadere, anche se ero diventata completamente di pietra.
I miei occhi erano sgranati e inconsapevolmente avevo smesso di respirare.

Com’era possibile tutto questo ?
Lo domandai a mia zia con un fil di voce.

La sua risata riecheggiò nella buia stanzetta, innaturalmente squillante per una donna della sua età.

Perché la mia mente non aveva riportato alcun genere di ricordo al riguardo ?
Sforzandomi per un attimo, tentati di focalizzare nella mia memoria il volto di mio padre, ma mi accorsi ben presto che la sua immagine era stata completamente rimossa e non credevo si trattasse di un mero caso del destino.

- Probabilmente non rimembri nulla perché quell’uomo è sempre stato assente – specificò lei, notando il dubbio dipinto sulla mia faccia e facendo un gesto con la mano come a sottolineare il fatto che il soggetto dell’argomento non aveva rilevanza alcuna per lei.
- Quel disgraziato era la feccia di questo mondo, così come tutti i suoi simili, un mostro come lui non si sarebbe dovuto nemmeno meritare di nascere e invece non ha fatto altro che creare disgrazie nella nostra famiglia –.

Ripresa dallo shock della notizia iniziale, mi alzai di scatto dalla sedia, infastidita dalle incomprensibili parole d’astio dell’anziana.

- Non ti permetto di parlare in quel modo di lui, dopotutto se amava mia madre non era poi una così cattiva persona e posso provarti che anche i demoni hanno dei sentimenti! – sbottai io, punta sul personale dato che, indirettamente, mia zia mi aveva dato della disgraziata.

Amelia si aggrappò al suo bastone, cercando di racchiudere la sua rabbia in quei pochi centimetri di legno steccato.
- Non sai cosa stai dicendo! Lui non era in grado di amare perché lui era il re dei demoni, Satana in persona, Lucifero o in qualsiasi altro modo tu lo voglia chiamare, Lui era il Male in persona – urlò l’anziana, alla fine trafelata per lo sforzo appena compiuto.

Un’infermiera si affacciò alla porta, ma con due improperi la zia cacciò fuori la ragazza esigendo la privacy che le spettava di diritto.

Io ero allibita. Non sapevo se credere o meno alla dichiarazione di Ami che, accecata dall’ira, avrebbe potuto forzare un po’ troppo la storia a suo favore, ma qualcosa dentro di me mi diceva che le cose non stavano affatto così.
Dentro di me avevo la sensazione che quella donna fosse l’unica ad avermi raccontato la verità in vent’anni della mia esistenza.

In fondo le cose combaciavano.
Da sempre mi sono chiesta come io possa essermi meritata il potere di controllare il fuoco, ma ora questo fatto spiegava ogni lato della mia trasformazione, il pugnale a forma di serpente, animale simbolo del diavolo, gli occhi da gatto, considerato creatura maleogurante…ogni elemento portava alla medesima conclusione ed evidentemente, il gene demoniaco già presente nel mio sangue aveva sopraffatto quello trapiantato da Layla.

Io ero nata dannata.


- Se tanto lo odiavi, allora perché non mi hai eliminato ? Perché mamma non mi ha ucciso ? – sussurrai io, la voce bassa e carica di tensione.
- Perché dopotutto eri sua figlia e noi ti abbiamo sempre amato, ti abbiamo sempre protetto poiché i demoni non avrebbero mai accettato che il loro capo avesse messo in cinta una sporca umana. Ma sfortunatamente hanno avuto la loro vendetta con la morte dei tuoi genitori, ma non in maniera completa -.
Questa volte la sua voce si era placata, sostituita da un’intonazione disperata, tremula.

- Tu sei l’anello mancante per la loro rivolta – fece l’ennesima pausa scrutandomi negli occhi per verificare che il concetto fosse penetrato nella mia mente.
- In te scorre ancora il sangue di Satana e finché tu sei in vita, loro non possono ribellarsi. Quindi scappa, nasconditi, non chiamare casa un luogo in cui non ti senti completamente sicura e fa che i tuoi familiari non sappiano nulla della tua storia -.
Le sue pupille acquose erano umide per le lacrime che stavano per scaturire da esse, ma ancora non era arrivato il momento dei piagnistei.
Dopotutto, quello era solamente l’inizio.


Trascinandomi fuori dall’ospedale psichiatrico, pregai Samuel di riportarmi a casa, la voce rotta dal pianto e la cornetta di un telefono pubblico che tremava attaccata al mio orecchio, scossa dai brividi che percorrevano il mio corpo.

Lui non mi fece domande: arrivò e basta, ma io gli raccontai comunque ogni cosa.
Lui aveva il diritto di sapere con che mostro aveva deciso di trascorrere la sua vita.

Forse io avrei dovuto prendermi le mie responsabilità e combattere questa dannata guerra, ma optai per un’altra esistenza, altrettanto faticosa e carica di impieghi sotto certi aspetti.

In fondo, fare la mamma a tempo pieno è anch'essa una battaglia quotidiana

  
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