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Autore: nes_sie    12/05/2013    3 recensioni
Un taccuino consunto, i margini dei fogli che fuoriescono disordinati, una penna stilografica e lo sguardo vispo e birichino rivolto al mondo. Questa è Allegra. Questa è la sua storia e di Sir Norwood a bordo del Titanic... perché, sì, c'erano anche loro.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alieni




14 Aprile 1912

 

Gli avrei chiesto di vederci ancora. Sì, proprio io, sfacciata e spudorata come mamma non vorrebbe mai e poi mai. Non posso rischiare che una volta giunti a New York l'ultima sua immagine impressa nei miei ricordi sia la sua schiena, mentre sbarca insieme alla sua famiglia. Dorothy non ha fatto altro che prendermi in giro, “Sta troppo in alto nella scala sociale e ha l'aria da furfante”, continua imperterrita a ripetermi, perché possa perdere del tempo con me, che sono solo una ragazzina con troppi sogni nel cassetto e fiumi di parole che non vedono l'ora di uscire e inondare il mio taccuino.
Strano che Dorothy sia rimasta così indifferente al suo fascino. 
 

 

10 Aprile 1912

 

Giovedì sera.

Io, mamma e Dorothy ci siamo finalmente imbarcate sul Titanic. Non credevo potessero esistere navi così maestose; ogni cosa, sia all'interno che all'esterno, denota sfarzo, lusso e splendore. Siamo state accompagnate nelle nostre cabine, dove erano già state disposte le nostre valigie e i nostri bauli, e subito Dorothy ne ha approfittato per occupare la toilette per il suo bagno rilassante onde evitare le rughe dovute alla giornata pesante appena trascorsa; mentre nostra madre ha tirato fuori abiti e biancheria da riporre in uno degli armadi. Io, al contrario, sono rimasta ad ammirare ciò che mi circondava, con lo sguardo perso, in adorazione, tra i baldacchini e il mobilio impreziosito di oggetti di cristallo e rifinito in oro; tutto ricordava gli sfarzi e la magnificenza della Versailles di Luigi XIV.
Versailles... è un vero peccato non averla visitata. Odierò Dorothy fino alla fine dei miei giorni, per non avermici accompagnata.
Non ho visto molto da quando sono salita qui e mi riprometterò di visitare la sala di scrittura e di lettura domani mattina, subito dopo colazione

 

 

14 aprile 1912

 

Un rumore come si fosse lacerato un pezzo di stoffa è stato avvertito dagli altri passeggeri, stasera. Incuriosita dal chiacchiericcio fastidioso dietro la porta della mia cabina, mi sono alzata dal letto e ho origliato un po'... la nave, a quanto pare, ha strisciato contro un iceberg lungo una delle fiancate e blocchetti di ghiaccio si sono staccati, disseminandosi sul ponte. Nulla di grave, comunque.
O almeno così dicono.
L'equipaggio e il Capitano assicurano che tutto è sotto controllo. Dovremmo fidarci?
La mamma e Dorothy sono appena tornate e non sembrano affatto tranquille, ma si sa che mamma si lascia prendere facilmente dalle sue crisi di nervi.

 

11 Aprile 1912

 

ma ho avuto modo di entrare in contatto con l'uomo più singolare e intrigante che io abbia mai conosciuto.
Mi trovavo con mamma e Dorothy nella sala di reception: sedevamo su delle poltrone in vimini con rivestimenti bordeaux insieme ad altre tre dame di cui non ricordo il nome. So solo che mamma aveva tanto insistito che incrociassi la gamba sinistra dietro a quella destra e tenessi le spalle dritte, come si conviene ad una signorina perbene, e mi lanciava sguardi di ammonimento ogni volta allentavo la posizione piuttosto scomoda. Le loro chiacchiere non mi interessavano; ho sempre creduto che per quanto potessimo atteggiarci ad aristocratici, indossare abiti eleganti e gioielli, saremmo sempre state diverse da loro. Sedevamo lì solo grazie a Dorothy e quelle persone non ci avrebbero mai veramente accettate nel loro piccolo mondo lustrato. Credo però di aver afferrato qualcosa su una certa Molly Brown (no, non è imparentata con noi, anche se a mamma sarebbe piaciuto), salita insieme a noi a Cherbourg e sui suoi modi che lasciavano alquanto a desiderare. Mi guardavo intorno, di tanto in tanto annuivo e sorridevo a qualche frase detta dalle nostre commensali, cosa che mi costringeva a sistemarmi in continuazione quell'odioso cappellino che mamma mi aveva obbligato ad indossare quel giorno. Era di un rosa confetto agghiacciante ed attorno era tutto un frou-frou di veletta e perline. In quel tempo, che sembrava aver smesso di scorrere, avevo imparato la disposizione delle poltrone, delle sedie, dei divani e dei tavolini nella sala, del grande pianoforte a coda messo vicino la parete in fondo, dove un uomo grassoccio vi aveva poggiato un gomito e con la mano si lisciava il pizzetto – rimirava la scollatura appena accennata della donna di fronte a lui che gli parlava – e avevo ripassato gli splendidi pannelli laccati bianchi in stile Seicento inglese una dozzina di volte. Nulla di eccezionale, insomma. Nulla di eccezionale che fosse riuscito ad interessarmi, fino a quando la mia attenzione finalmente fu catturata da un uomo appena apparso vicino alla porta di ingresso insieme ad un altro piuttosto somigliante, forse il fratello?, il quale si era avvicinato ad un gruppo di persone che conoscevo bene, dato che mamma non aveva smesso un attimo di ripetere i nomi del signor Ismay e delle signore DeWitt Bukater – la figlia, della mia età e con cui vogliono farmi socializzare a tutti i costi, dà l'impressione di una che voglia suicidarsi da un momento all'altro –, in viaggio con un certo signor Hockley, uomo d'affari americano.
Quello che mi ha colpito è stato l'essere perfettamente a suo agio in mezzo a quei signori: interveniva se interpellato e sorrideva all'occorrenza, ma era solo un sorriso cordiale e impostato; i suoi gesti sembravano seguissero un copione letto e riletto, tuttavia era così disinvolto che nessun altro con lui se ne accorgeva. Apparenza. Una maschera uguale ai volti di tutti, che nascondeva qualcosa di... diverso.
Ero così intenta a fissarlo, che ci misi un po' a capire che si fosse accorto di me. Avvampai di imbarazzo e abbassai il capo così velocemente che l'odioso cappellino si sfilò ed atterrò sul tavolino, sopra la mia tazza di tè ancora intatta. Di fronte allo sbigottimento generale dei miei commensali, mi alzai di fretta, biascicai un “Con permesso...” e mi diressi verso l'uscita della sala, in cerca di una boccata d'aria. Sentivo ancora la voce di mia madre scusarsi per la mia sbadataggine e avrei giurato di aver visto di sfuggita un sorriso divertito sulla bocca di quell'uomo. Una figura pessima, ecco cosa avevo ottenuto. 

 

12 Aprile 1912

 
 
 
Stamane, il cielo era limpido e i raggi del sole si riflettevano su ogni superficie del Titanic. Mi ero svegliata di buon ora, fatto colazione insieme a Dorothy, mentre nostra madre aveva deciso che sarebbe rimasta in cabina per colpa di un terribile mal di testa, e dopo aver lasciato mia sorella in compagnia di dame e signori che si intrattenevano con lei, chiedendole del suo lavoro, avevo deciso di approfittare dell'occasione e starmene per conto mio. Non impiegai molto a raggiungere il ponte di prima classe; era piuttosto affollato e le persone passeggiavano avanti e indietro per tutta la sua lunghezza, parlottando tra loro. Era la condizione ideale per poter scrivere: tutta quella gente, le loro voci, il picchettare dei tacchi delle scarpe sul parquet, il fruscio delle gonne, il rumore dei fumaioli a lavoro e della mia mente alla ricerca di uno spunto, un particolare che potesse attirarmi. Per mia sfortuna, nulla riusciva ad accendermi, a fare breccia in quel muro di monotonia e noia che avevo eretto inconsciamente. Sbuffai un paio di volte, mi alzai dal lettino su cui ero rimasta seduta per tutto quel tempo e raggiunsi il parapetto. Poggiai le mani sul ferro freddo e solido e sospirai sconfortata, mentre con lo sguardo seguivo le onde che si infrangevano sulla linea d'acqua della nave. Ero davvero depressa e il fatto che fossimo in viaggio da soli due giorni mi avviliva ancora di più. Non avrei potuto contare su Dorothy e le sue manie di protagonismo, né tanto meno su nostra madre, per cui avrei dovuto trovare un modo per far sì che il viaggio si trasformasse in qualcosa di più di una lenta e noiosa traversata sull'oceano, intervallata da pranzi, cene, feste e feste e feste...
Questo era ciò che pensavo, mentre a poco a poco sentivo sempre più vicine e chiare le voci familiari del signor Ismay e del signor Andrews esprimere commenti positivi sulla struttura del Titanic. Mi voltai appena e subito vidi che i due erano in compagnia di colui che mai avrei pensato di rivedere così presto e altri due signori. Era lui, quell'uomo che tanto mi aveva affascinato con i suoi modi misurati e lo sguardo impenetrabile, impossibile da decifrare. Lo seguii con gli occhi, stavolta con cautela, mentre mi passava accanto ma senza badare alle chiacchiere degli altri; aspettavo di sentire finalmente la sua voce, per sapere come fosse. Tuttavia, non aprì bocca ed annuiva con il capo di tanto in tanto. Credetti che quel giorno si sarebbe rivelato un completo fiasco e stavo accarezzando l'idea di chiudermi in cabina per il resto della giornata, quando mi accorsi che si era congedato dal resto del gruppo e si era avvicinato alla balaustra, mentre tirava fuori dalla tasca interna della giacca il portasigarette e ne estraeva una. Osservai minuziosamente ogni gesto e ogni suo movimento, dal mettersi tra le labbra rosee e lascive all'avvicinarsi l'accendino. Era del tutto rilassato e non dava alcun segno che si fosse accorto della mia presenza a pochi metri da lui. Ed io invece rimanevo lì a fissarlo, immobile, tesa come una corda di violino e il cuore che voleva uscire dal petto e la voglia di avvicinarmi con una qualsiasi scusa. La scusa, alla fine, la trovai, ma non si rivelò delle migliori. Finalmente avevo deciso di fare la mia mossa e con finta e impacciata nonchalance mi accostai a lui. Fu evidente che lui si aspettasse di vedermi così vicina, perché non diede alcun segno di stupore ed anzi mi sorrise gentile, come a volermi confermare che la mia presenza non gli dava fastidio. Tutto quello che mi venne in mente fu chiedergli una sigaretta; non mi sembrò molto convinto, ma uscì comunque dal taschino il portasigarette e, aprendolo, lo rivolse a me. Io, da perfetta idiota ma agguerrita più che mai, ne presi una senza alcuna esitazione, me la portai alla bocca e aspettai che da vero gentleman qual era lui me la accendesse. Gli attimi dopo furono così surreali che una parte di me vorrebbe non scriverla per non avere una prova su carta della mia stupidità: cominciai a tossire, prima una, poi due volte e sentii con maggiore intensità i movimenti oscillanti della nave, tanto da farmi venire la nausea. Mi disse “Sicura di essere una fumatrice? O si tratta di una recente scoperta?”, con la mano a tenermi il braccio e trattenendo a stento un sorriso divertito. Cocciuta, risposi che molto probabilmente si era trattato di mal di mare. E che, sì, ero una fumatrice abituale, io. Gli porsi la mano e mi presentai senza alcuna paura; lui, dal canto suo, la prese e la strinse, deciso. “Sir Holden Norwood ed il piacere è tutto mio, Miss.” furono le parole che mi rivolse. Mentre, raggiante, gli tenevo ancora la mano, seppi che mai e poi mai avrei dimenticato quel nome.

 

 

 

 


13 Aprile 1912

 

Sebbene il tentativo di ieri si sia rivelato abbastanza soddisfacente, oggi è andata molto, molto meglio e sono così eccitata all'idea di quello che è successo questo pomeriggio che potrei non dormire, stanotte. Dorothy ha cercato di disilludermi in qualunque modo, dal momento in cui è venuta a riprendermi sul ponte per portarmi a pranzo, congedandomi da Holden; ma non c'è verso di farmi cambiare idea. Certo, avrei preferito mostrarmi come una giovane donna a modo, invece di esibirmi in una delle mie figuracce, ma almeno ho ottenuto quello che volevo: abbiamo trascorso tutto il pomeriggio sul ponte a parlare, di me e del mio viaggio con la mamma e Dorothy, e del suo con suo padre e il fratello Cliff, intenti a coinvolgerlo negli affari di famiglia – anche se con scarsi risultati. Questo fu il mio pensiero e, quando lo esternai al diretto interessato, lui si era limitato a sorridere. Ci congedammo al tramonto, ma non riuscii a strappargli la promessa di un altro pomeriggio insieme.

 

 

14 Aprile 1912

 

vi voglio bene

 

 

L'inchiostro veniva via, lavato dalle lacrime che scendevano copiose sul viso stravolto di Dorothy. Nelle ultime ore, aveva sfogliato freneticamente le pagine ingiallite e rovinate dall'umidità del taccuino di Allegra, come se lo scorrere incessante delle parole di sua sorella riuscissero in qualche modo a riportarla in vita. Pauline, sua madre, se ne stava rannicchiata in un angolo, silenziosa e con lo sguardo perso nel vuoto, le braccia ad avvolgerle il busto come a proteggersi dal dolore che stava vivendo, vicino alla scala che dava sul ponte dove le centinaia di persone portate in salvo rimanevano inerme, a sperare che la notte passata fosse stato solo un brutto sogno, a piangere in silenzio i propri cari che non ce l'avevano fatta, a chiamare inutilmente il figlio, la madre, l'amico... illudendosi che questi avrebbero risposto.
Nel buio di quella notte limpida e stellata era stato impossibile vedere cosa fosse successo. Si malediceva e disperava, Dorothy: sua sorella avrebbe potuto salvarsi. Ci avrebbe pensato fino a quando non avesse più avuto vita, si sarebbe arrovellata per trovare un perché a quella sciagura; perché lei fosse riuscita a salvarsi e Allegra no. Ma mai avrebbe saputo quello che accadde una volta salita sulla scialuppa, che si allontanava a poco a poco dall'enorme carcassa del Titanic.

 

***

 

Allegra era rimasta lì, frastornata e disorientata; gruppi di persone sempre più folti si accalcavano vicino al ponte lance e il terrore stava impossessandosi di loro: la nave imbarcava sempre più acqua e la prua cominciava ad inabissarsi inesorabilmente. Allegra si riscosse all'urto di un ufficiale con un paio di giubbotti di salvataggio su un braccio, «Signorina, indossi il giubbotto, presto!».
Anche i membri dell'equipaggio sembravano aver perso la calma, e agitati e nervosi urlavano di allontanarsi dalle scialuppe e mantenere l'ordine. Allegra prese distrattamente il giubbotto e lo indossò, e una volta fattasi forza cominciò a pensare un modo per raggiungere una scialuppa e andarsene via da quell'incubo. Girò su se stessa un paio di volte, nella speranza di trovare uno spiraglio verso cui dirigersi ed uscire dalla calca di gente in preda al terrore; lo trovò, e spintonando da parte a parte riuscì a raggiungere la scala che dava sul ponte. Da lì vedeva lo spettacolo agghiacciante di cui era protagonista: la nave si inclinava in maggior misura e ancora più di mille persone aspettavano il loro turno per salire sulle scialuppe in qualunque modo insufficienti. Scosse la testa e in quel momento lo vide: Holden. Le mani dietro la schiena eretta e il portamento sempre elegante e aristocratico, distava qualche metro da lei; con lui, suo padre e Clifford, gli unici insieme a Mr.
Guggenheim e il suo segretario a mantenere una parvenza di dignità e contegno nonostante le circostanze tragiche. Si avvicinò a Holden così in fretta da non accorgersene nemmeno, lui la vide e nei suoi occhi per un attimo Allegra vide sorpresa e preoccupazione. «Allegra, cosa ci fai ancora qui?» le chiese.
«Mia madre e mia sorella sono appena salite su una scialuppa e non c'era più posto per me e...»
«Ritorna subito alle lance e trova una scialuppa. La nave si sta inabissando, non c'è tempo,» le disse. Aveva appoggiato le mani sulle braccia di Allegra e l'aveva guardata dritta negli occhi, mentre parlava con la sua voce ferma e rassicurante. In quel contatto, Allegra aveva trovato conforto e avrebbe dimenticato volentieri tutto, se solo il tempo si fosse fermato.
«Allegra, mi stai ascoltando? Mettiti. In. Salvo.,» scandì bene le ultime parole come a voler imprimere un concetto che Allegra non riusciva ad afferrare.
Allegra si riscosse dal lieve torpore in cui era rimasta e chiese «E tu? Tu cosa farai?», mentre lanciava uno sguardo a Sir Norwood e Clifford. Holden le rispose con una calma quasi surreale, mettendo su la sua solita espressione compita e impeccabile in grado di nascondere ogni emozione. «Io aspetterò qui, con mio padre e mio fratello. Dopo le donne e i bambini, potremo salire anche noi sulle scialuppe. Ora vai,» la esortò ancora una volta.
Allegra non era una stupida, e nemmeno una pazza suicida, sapeva che più tempo fosse trascorso e meno possibilità avrebbe avuto di trovare un posto su una scialuppa: due giorni prima, alla ricerca di ispirazione per i suoi appunti, nella noia e prostrazione che l'attanagliava per aver goduto della compagnia di Holden solo per pochi minuti, si era messa a contare le scialuppe disposte sul ponte lance ed erano solo sedici; sedici per circa duemila persone... chi avrebbe potuto immaginare che L'Inaffondabile si sarebbe trovata in quella situazione?
Sopra le loro teste, i razzi di segnalazione di pericolo esplodevano nel cielo nero cosparso di stelle fulgide e luminose, come mai prima di quella notte durante la loro breve traversata.
«D'accordo, allora i-io vado...» disse infine, gli diede le spalle e con fare incerto si allontanò da lui. Non era mai stata un tipo pragmatico, sua madre le diceva sempre che con quel comportamento infantile non sarebbe andata molto lontano e nessun uomo per bene l'avrebbe mai sposata; Gli uomini vogliono che la propria donna li degni di attenzione. Se stai tutto il giorno con il naso su quel ridicolo quadernetto e la testa per aria, sfido chiunque a prenderti in considerazione, benedetta ragazza. Le parole di Pauline riecheggiavano con forza inaspettata nella mente di Allegra, come uno schiaffo dritto sulla guancia che la riportò immediatamente al ricordo di sua madre e Dorothy, mentre si allontanavano sulla scialuppa. Un sorriso malinconico le affiorò sul viso. Le avrebbe riviste? Certo che sì. Nonostante tutto, si disse, era una persona ottimista – fin troppo! –, e se la sarebbe cavata; avrebbe scritto un libro sulla sua sopravvivenza al naufragio e sarebbe diventata la donna più famosa d'America. Sua madre, forse, non avrebbe più insistito sul cugino Carlton.
«Allegra, aspetta!»
Holden le era venuto incontro. «Sta andando nella direzione sbagliata, Miss,» disse, con un sorriso beffardo sulle labbra. «Come si fa ad essere distratti e perspicaci allo stesso tempo?» ridacchiò, e la prese per mano. Nel cuore di Allegra si accendeva un barlume di speranza.

 

 

Il cuore di Allegra batteva all'impazzata. Stretta al petto di Holden, guardava la scena che le si presentava dinnanzi: centinaia di persone, chi in coppia, da sole, o in gruppi, tentavano di aggrapparsi a qualunque parte della nave riuscisse a reggerle, e nell'aria fredda e rigida le loro urla strazianti si disperdevano. Nel cielo terso e stellato, la poppa si ergeva in tutta la sua imponenza, mentre la prua era ormai del tutto celata dalla superficie dell'acqua. Un fremito scosse Allegra e chiuse gli occhi e li strinse forte per scacciare le orribili immagini che si formavano nella sua mente.
«Non allentare mai la presa, chiaro? Mai,» le disse Holden all'improvviso. Allegra strabuzzò gli occhi e alzò lo sguardo verso quello di Holden. Nonostante tutto riusciva a mantenere il controllo di sé, anche se ora, lì, stretta tra le sue braccia, Allegra scorgeva preoccupazione, ansia e... dolore? Ricordava ancora il momento in cui Sir Norwood aveva dichiarato che non avrebbe tentato di salvarsi, qualche tempo prima. Di Clifford invece non c'era traccia. Il pensiero di lui la attraversò, ma solo per un attimo.
Non sapeva quanto ne fosse realmente trascorso, quegli attimi sembravano prolungarsi un'eternità e la luce dell'alba sembrava ancora lontana. Allegra si strinse ancora di più al corpo di Holden, sentendo la superficie liscia del salvagente.
«Holden, n-noi, noi ce la faremo.» Cercava di tenere la voce ferma, lo sguardo determinato.
Holden semplicemente le sorrise, uno di quei sorrisi sinceri e aperti che mai gli aveva visto, fino a quel momento.
Una forte scossa e poi, secchi e minacciosi, si sentirono i rumori, come strappi e fratture, della struttura della nave che si spezzava in due, il terzo fumaiolo si staccò con violenza e l'impatto sull'acqua fu devastante, mentre poco prima le luci del Titanic si spegnevano definitivamente, nascondendo alla vista di chi era già in salvo sulle scialuppe lo strazio e la crudezza dello scenario di fronte a loro.
La poppa beccheggiò su un lato e una forza potente tentò di strapparli dal corrimano di metallo freddo e scivoloso, per scaraventarli dal lato opposto. Nel frattempo, la prua, intatta, si staccava e affondava nel baratro, trascinando con sé il resto della nave. Pochi minuti ancora, e Allegra e gli altri passeggeri avrebbero saggiato l'impatto spaventoso con l'acqua nera e gelida.

 

 

Era rimasto quasi niente dell'ossigeno che aveva trattenuto, la superficie ghiacciata dell'acqua si era frantumata nello scontro violento con il suo corpo e Allegra, con uno sforzo immane, nuotava furiosamente per risalire e non morire annegata, con l'acqua sempre più gelida che le intorpidiva i muscoli, le ghiacciava le ossa e spingeva sempre più per entrarle nei polmoni.
Un ultimo sforzo e poi, finalmente, l'aria fredda che le schiaffava il viso. A fatica, fece dei respiri profondi, l'acqua salata le graffiava la gola; uno, due colpi di tosse, strinse forte gli occhi e poi una distesa di salvagenti e resti della nave apparvero alla sua vista. Il pensiero di Holden, che non era lì con lei, la attraversò. Ansia e terrore le invasero il cuore, mentre nuotava da una parte all'altra convulsamente e gridava il nome di Holden; nessuno tuttavia rispondeva, e la sua voce si dissolveva e si annullava tra le grida, i gemiti dei feriti, i lamenti delle persone attorno a lei in preda al terrore.
Si sentì strattonare con decisione, e un grido le morì in gola quando si accorse era Holden, che la trascinava con sé verso un punto preciso.
«Allegra, nuota! D-dobbiamo raggiungere quella scialuppa, presto.»
Allegra fece quanto le aveva chiesto, nonostante il freddo e il salvagente ingombrante che rendeva i suoi movimenti lenti e impacciati, mentre a poco a poco si avvicinavano a quello che sembrava il relitto di una scialuppa che si era capovolta. Non erano i soli ad averla vista: altre persone, trasfigurate dalla paura e dall'orrore, si spintonavano e si issavano l'una sull'altra senza alcuno scrupolo, tanto l'istinto di sopravvivenza ed il panico erano insidiati nel loro animo. Allegra dovette lottare contro un uomo e una donna che la urtarono con violenza e le afferrarono un braccio e i capelli nel tentativo di sovrastarla. Ancora tante urla, Allegra le sentiva vicinissime, e sentiva il respiro freddo della donna che la teneva per i capelli. Pensava non ce l'avrebbe fatta, forse Holden aveva già raggiunto il relitto, non sentiva più la sua presa, non sentiva più nulla; le braccia e le gambe le facevano male, il respiro le si mozzava. In quel momento pensò che fosse un brutto scherzo tiratole dal destino morire assiderata, quando avrebbe tanto voluto essere sotto le coperte, nel suo letto, mentre appuntava sul suo taccuino ciò che aveva visto durante il giorno, e lo scialle sulle spalle che le aveva regalato Dorothy a Parigi. Chiuse gli occhi.
«Allegra! Allegra! M-maledizione, rispondimi!» Una mano fredda sulla guancia, che le dava dei piccoli colpi, la voce rabbiosa di Holden che si sentiva sempre più nitida e chiara e la spronava a ridestarsi. «Adesso v-verranno a prenderci, c-capito? Allegra!»
«H-hold...?»
Non riusciva a parlare, né a formulare un pensiero; sentiva tanto freddo e se avesse richiuso gli occhi forse tutto sarebbe passato in un attimo. Solo un attimo.
«Allegra, r-ricordi il signor Ismay?» disse Holden d'un tratto, con una punta di ironia. «C-credo sia il pal-lone gonfiato p-più imbecille c-che io abbia m-mai con-conosciuto.»
Un risolino acuto era uscito dalle labbra di Allegra, mentre ricordava Holden e Ismay, due giorni prima, intenti a parlare confidenzialmente di affari sotto lo sguardo compiaciuto di Sir Norwood, e lo stesso Holden che l'aveva ignorata di proposito.
«G-guggenheim invece d-dovrebbe st-tare più at-tento alla s-sua amante,» continuò Holden, imperterrito.
Quelle strane confidenze, lì, sul legno ghiacciato della scialuppa premuto sul viso mentre l'acqua gelida risucchiava loro ogni energia e calore, per Allegra avevano un significato speciale: Holden finalmente era stato del tutto sincero, le aveva detto quello che pensava, senza filtri. Quel gesto, di poco conto, quando ormai sembrava che le luci dell'alba non sarebbero più apparse all'orizzonte, aveva riscaldato il cuore di Allegra più di qualunque altra cosa; sorrideva, e lacrime invisibili le solcavano il viso bianco e pallido e le bagnavano le labbra fredde e nere.
«I-il b-b-biglietto... oggi...» Un altro piccolo sforzo. Deglutì. «E-era un invit-o, a p-prendere u-un t-tè.»
«A-avrei a-ccettato v-volentiri.»
Si sorrisero. Le fronti vicine l'una all'altra, le mani incapaci di lasciarsi.

 

***

 

Solo sei persone furono salvate dall'acqua1, e tra di esse non vi era nessuno con il nome di Allegra Victoria Brown e Holden Elliott Norwood.



1. Wiki docet.

Note:

La sorella di Allegra, Dorothy, è realmente esistita ed è stata un'attrice cinematografica statunitense conosciuta come Dorothy Gibson (il cui vero cognome era Brown), che insieme alla madre si imbarcò a Cherbourg sul Titanic dopo aver finito di girare il film Berretto Rosso. La notte del disastro, Dorothy e la madre, in quanto passeggere di prima classe, occuparono la prima scialuppa che venne calata in acqua e recuperata poi dal Carpathia. Allegra, ovviamente, è un personaggio di mia invenzione così come quello di Holden.
La storia avrebbe voluto partecipare al contest “Titanic Contest- il primo di questa specie (si spera u.u)” indetto da M4RT1 e S_Lily_S, tuttavia la sottoscritta ha pensato bene di impiegare sei mesi a scriverla e tipo un anno a pubblicarla, questo perché non sono ancora molto convinta del risultato. Se l'ho pubblicata, è solo perché una certa HappyCloud ha fracassato le maracas fino a tipo due secondi fa, ma la ringrazio perché Allegra e Holden sono nati anche grazie a lei. Contenta? 
Grazie a chi passerà di qui.
Edit: tengo a precisare che la dipartita tanto tragica dei due malcapitati era richiesto dal contest. Me ne lavo le mani. u.u 

   
 
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