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Autore: FairLady    14/05/2013    8 recensioni
La perdita di una persona cara è quanto di più doloroso un essere umano possa provare. Spesso causa un trauma che scava in fondo al proprio essere e porta in un limbo dal quale è difficile uscire. A volte le persone cercano semplicemente di andare avanti, di riempire quel vuoto, quell’enorme solco, con altre cose, sapendo comunque che certe perdite non potranno mai essere rimpiazzate.
Seconda Classificata al contest "When I can see you again?" indetto da Darllenwr sul forum di EFP
Terza Classifica al contest "I sogni son desideri...o no?" indetto da D.A.95 e valutato da Fefy_07 sul forum di EFP
Ottava Classificata al contest "Era un sogno - Seconda Parte" indetto da Fabi_Fabi sul forum di EFP
Quarta Classificata al contest "Donne Du Du Du" indetto da BlackStorm91 sul forum di EFP
Revisionata
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sveva correva a perdifiato. Correva e rideva, così tanto da non avere più sensibilità alla mascella. Rideva scompostamente, spensierata; di quelle risa tipiche solo di un momento felice. Rideva la bocca, ridevano gli occhi. Rideva tutto il suo corpo da bambina gioiosa che aveva ogni cosa pur non avendo niente. Niente, oltre lui. Lui che, per lei, era ogni cosa.
Le spighe di grano, dorate e luminose, ondeggiavano pigramente sotto al sole di luglio, sferzate dalle minute ma potenti falcate di due bambini in gioco. Si piegavano per poi tornare, non si sa come, alla loro posizione originale, continuando a godere dei caldi raggi di quel pomeriggio limpido e afoso.
«Sveva, aspettami! Non lasciarmi indietro.»
Vasco cercava di stare al passo della cugina che, era risaputo, possedeva una velocità fuori dal comune. Ci provava, ma appena pensava di riuscire a sfiorarla, questa sembrava schizzare via come una scheggia. Si distinguevano a malapena i pois bianchi delle sue ballerine verdi.
Sveva continuava a ridere, senza ormai sapere più il perché di quella ilarità.
D’un tratto i suoi occhi guizzarono alle sue spalle. Non sentiva più la sua voce chiamarla. Non vedeva più lo smeraldo dei suoi occhi vispi guardarla con aria di sfida.
Inciampò in qualcosa e rovinò al suolo, sbucciandosi i palmi delle mani contro la terra grumosa e secca d’estate. Li sentiva bruciare e non aveva più la forza di alzarsi. Restò lì, sdraiata in mezzo alle alte spighe gialle, con il petto che si gonfiava e sgonfiava aritmicamente, assecondando l’ansia che sentiva crescerle dentro…
 
«Ogni notte faccio lo stesso sogno. Ogni notte identico.» Sospirai, cercando di placare l’angoscia che sentivo dentro. «Mi ritrovo sempre in quel punto, col panico nel cuore per l’improvvisa sparizione di Vasco e mi sveglio ansante, sudata e …»  inchiodai sulla congiunzione, incapace di andare oltre.
«E…» – la dottoressa attese pazientemente che proseguissi, ma le parole mi morivano in gola, una dopo l’altra. Così, le porsi le mani con i palmi all’insù, per permetterle di vedere i graffi che li segnavano; alcuni di un rosa tenue, i più vecchi, già in via di guarigione; altri più rossi, simbolo di continuità di quei sogni strani, dolci e inquietanti al tempo stesso. 
La psicologa, una graziosa signora di mezza età con due grandi occhi turchesi, fissò lo sguardo incredulo nel mio, quasi rassegnato.
«Come te li procuri, questi?» mi domandò, turbata, evitando di accettare qualcosa che una donna di scienza come lei non poteva permettersi di prendere in considerazione.
Le restituii un’occhiata accigliata e ritrassi le mani, nascondendole l’una nell’altra, con un misto di vergogna e risentimento. Verso di lei, che non poteva capire; verso di me, che mi ero illusa potesse farlo.
«Fa niente, lasci stare. È meglio che io vada.»
La dottoressa liberò un sospiro e guardò il quadrante del piccolo orologio che portava al polso.
«L’ora non è ancora finita, Sveva. Possiamo chiacchierare ancora un po’, se ti va.»
M’incurvai, incassando il capo nel petto. Non avevo più voglia di parlarle di quella storia, non sarebbe stato utile a nessuna delle due, ma non avevo nemmeno intenzione di perdere metà di quei cento euro che, con tanta fatica, mi ero guadagnata, per cui, sbuffando rumorosamente perché capisse quanto mi fossi offesa, alzai le gambe e tornai a sdraiarmi sulla chaise longue.
«Come ti sei sentita quando Vasco è venuto a mancare? Avevate un buon rapporto, immagino.»
Roteai gli occhi, alzandoli al cielo.
«Mi ha già fatto questa domanda almeno un milione di volte. Per quanto tempo ancora vuole sentirsi dare le stesse risposte?» le berciai contro, scocciata.
Mi sentii in colpa nell’attimo immediatamente successivo per quella risposta maleducata e indisponente. Non era affatto da me; non era un comportamento che mi fosse mai appartenuto. Forse parlavano la frustrazione e la paura. La prima albergava in me da quando erano iniziati quei sogni destabilizzanti; la seconda… la seconda da quando avevo visto quei graffi, la prima mattina.
Ma la psicologa era perfettamente in grado di gestire questo tipo di malumori e non si scompose affatto.  
«Forse, allora, è il caso che tu chiuda gli occhi e parli di ciò che ti mette più a tuo agio. O qualcosa che avresti voluto esternare ma che, fino ad ora, non hai avuto il coraggio di dire.»
Chiusi gli occhi, come mi aveva consigliato, e presi un lungo respiro, espirando poi lentamente in cerca di un rilassamento che sapevo non sarebbe mai arrivato.
Mi venne in mente, in quell’istante, una frase che avevo letto qualche tempo prima, in metro, mentre sbirciavo come al solito sul libro della ragazza che sedeva accanto a me.
«Qualcuno una volta ha scritto: il sogno è un fenomeno misterioso, è l'unica via che ha l'uomo di incontrare le persone scomparse, parlare con loro, provare forti emozioni, fino a piangere con loro.
Quando lessi queste parole pensai che non ero stata io a vederle; erano state loro a trovare me. – sentivo che, finalmente, il fiume di parole era pronto a sgorgare – Ho pensato che fosse la cosa più vera che avessi mai sentito.»
In quel momento, la voce di Vasco, mi sfrecciò nel cervello.
«Sveva, aspettami! Non lasciarmi indietro.»
Il mio corpo si tese, raggelato per quella novità. Ero sveglia e potevo sentirlo!
«L’ha sentito anche lei?» chiesi scioccamente alla dottoressa. Lei sgranò nuovamente gli occhi.
«Cosa, Sveva? Cosa dovrei aver sentito?» mi domandò, con lo stesso tono che si usa con gli stolti.
«Ah, al diavolo!» mi alzai di scatto, conscia del fatto che non mi avrebbe mai creduta, né capita.
Cosa poteva saperne lei della disperazione di perdere qualcuno di così caro e del desiderio incontrollato di saperlo ancora presente, come se non se ne fosse mai andato? Non poteva, non era possibile!
Al diavolo quella pomposa laurea appesa al muro, al diavolo i suoi occhi turchesi pieni di compassione e al diavolo lei. Corsi fuori come una furia, senza fare attenzione al mondo intorno a me.
Avrei solo voluto sentirlo di nuovo.
 
Correva lungo il marciapiede bagnato. Ogni volta che il piede toccava l’asfalto consumato, uno spruzzo d’acqua le bagnava le ballerine verdi con i pois bianchi, diminuendo sempre più l’aderenza della pelle umida al plantare scivoloso.
Le era bastato l’ennesimo sguardo di riprovazione della dottoressa per correre fuori dallo studio, fregandosene della sua presunzione e delle cinquanta euro che se ne stavano volando via col vento. 
«Sveva, aspettami! Non lasciarmi indietro.»
Quella voce la ossessionava ancora, eppure non era nel loro solito campo di grano, non correva sorridente e spensierata, no. Era in una piccola stradina, di un piccolo paese, e pioveva a dirotto. Non avrebbe dovuto sentire la sua voce chiamarla a quel modo.
Lo sguardo cadde ai suoi piedi. Le ballerine verdi e i pois bianchi!
Sveva inchiodò davanti ad una vetrina e guardò il suo riflesso. Di fronte a lei c’era una bambina di dieci anni, con due lunghe trecce castane e gli occhi neri, grandi e contenti. La pioggia battente la inzuppava da capo a piedi ma non aveva freddo, né ne sembrava disturbata. Anzi, era divertita.
In quel momento al suo riflesso se ne aggiunse un altro, che entrò in scena di corsa e si fermò proprio accanto a lei. Era un bambino di sette anni, con i capelli corti neri e due incredibili occhi verdi, grandi e contenti. Era piegato in avanti, con le mani appoggiate alle ginocchia ricurve, e prendeva fiato, sorridente.
«Hai visto, Sveva? Finalmente ti ho raggiunta!»
 
Aprii gli occhi e la prima cosa che vidi fu il sole.
Riconobbi il familiare prurito delle spighe di grano che pizzicano la pelle e mi resi conto di essere distesa nel campo che, per un paio d’estati, fu nostro, e nostro soltanto. 
Mossi le mani su e giù un paio di volte, godendo del venticello fresco che mi accarezzava e leniva l’afa causata dai raggi di mezzogiorno. Mi accorsi che i palmi non dolevano più e i graffi erano miracolosamente spariti. Non mi chiesi il perché.
Sentii scricchiolare le spighe, sotto al peso di qualcuno che si stava sedendo accanto a me. Voltai lo sguardo, riparando gli occhi con la mano per non farmi accecare dalla luce che proveniva da nord.
«Vasco, - sussurrai, con il petto che mi si riempiva di stupore e inspiegabile rassegnazione - alla fine mi hai presa!»
«No, Sveva. – mi rispose. Nei suoi occhi un lampo di costernazione comparve per un attimo, per poi lasciare posto ad una gioia senza tempo. La sua mano prese la mia, lasciando che le nostre dita si incastrassero perfettamente. Mi sorrise, come solo lui era in grado di fare, infondendomi una pace mai sentita prima. “Sei stata tu a raggiungermi. Adesso staremo insieme, per sempre.» 
   
 
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