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Autore: Phoenixstein    15/05/2013    2 recensioni
[I fatti si svolgono alla fine di "War of the Damned". *SPOILER* per chi segue la programmazione italiana.]
Al centro del palmo, lungo l’ansa delle due M che i Romani leggevano come Memento Mori, il supplizio della croce gli aveva lasciato in dono cicatrici spaventose, ancora rosse e tumefatte; ma il danno, il vero maleficio, stava all’interno, e non gli permetteva di avere una presa salda abbastanza su ciò che afferrava. Di notte il dolore che scivolava formicolando dal braccio in giù lo teneva sveglio; aveva come vampe venefiche che gli serpeggiavano sottopelle, per lo più acquattate in attesa durante il giorno e meschine a sguinzagliarsi al calar del sole. Le mani gonfie e sofferenti di Agron finivano col tremare di rabbia e puntualmente Nasir le serrava con dolcezza fra le sue, le muoveva e le baciava finché l’altro non sembrava recuperare la propria quiete.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Agron, Nasir
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Con le mani da uomo

 

 

 

 

In guerra non avevi la possibilità di fare progetti, di pianificare la tua esistenza. Se ti fermavi a farlo eri spacciato, perché se osavi sperare troppo o troppo poco il destino avrebbe scelto di burlarsi di te.

Il tempo era un’entità temibile di cui non disponevi a tuo piacimento; sapevi di non esserci ben saldato dentro, ma di navigarci al di sopra come su un mare in procella. Era la condizione più precaria che si potesse sperimentare, e la più detestabile se amavi qualcuno che desideravi ardentemente fosse accanto a te anche il giorno dopo.

Ma la guerra aveva visto il suo tramonto, alfine. Ed era un sollievo che l’odore del sangue raggrumato non infestasse più l’aria che respiravano. Divisa da una grande catena montuosa a sud, la verde Germania era selvosa e selvatica, tutta alberi e fiumi e vento ed era... casa, la loro nuova casa. Agron e Nasir, insieme a Laeta, Sybil, pochi sopravvissuti e alcuni fanciulli rimasti orfani, si erano rifugiati dove gli artigli ghermenti dell’Aquila non li avrebbero cercati, trovati, dilaniati.

Chiunque avrebbe affermato che non è semplice riedificare una vita sul nulla, tuttavia era da poveri stolti dirlo a due persone che avevano affrontato battaglie cruente e per davvero avevano visto ciò che era semplice e ciò che non lo era. Morire era semplice, sopravvivere e rimanere in forze per lottare di continuo no. Mettere in piedi un modesto allevamento era una facezia, a confronto. Pietra su pietra, agnello dopo agnello, in un modo o nell’altro, ce l’avrebbero fatta.

 

 

Ciò che tormentava Agron era che le sue mani non accennavano a guarire. Le ferite si erano saldate in carne lucida già da molto, ma spesso il guerriero non sentiva niente lungo pollice, indice e medio. Come se quelle dita intorpidite attaccate lì non fossero le sue, ma quelle di qualcun altro, e lui le guardava con sgomento e rassegnazione graffiarsi e rammollirsi per un lavoro che non riusciva a compiere come voleva. Al centro del palmo, lungo l’ansa delle due M che i Romani leggevano come Memento Mori, il supplizio della croce gli aveva lasciato in dono cicatrici spaventose, ancora rosse e tumefatte; ma il danno, il vero maleficio, stava all’interno, e non gli permetteva di avere una presa salda abbastanza su ciò che afferrava. Di notte il dolore che scivolava formicolando dal braccio in giù lo teneva sveglio; aveva come vampe venefiche che gli serpeggiavano sottopelle, per lo più acquattate in attesa durante il giorno e meschine a sguinzagliarsi al calar del sole. Le mani gonfie e sofferenti di Agron finivano col tremare di rabbia e puntualmente Nasir le serrava con dolcezza fra le sue, le muoveva e le baciava finché l’altro non sembrava recuperare la propria quiete.

 

 

Quei nuovi giorni con Nasir avrebbero dovuto essere dignitosi, invece gli sfuggivano come granelli di sabbia che non poteva acciuffare. A volte meditava su quanto fosse irragionevole per uno che tutta la vita aveva conosciuto fatiche e patimenti, e la cui pellaccia si era irrobustita fra tagli, lividi e scudisciate, lasciarsi abbattere da siffatta avversità; in fondo respirava ancora, viveva, calpestava la sua amata terra sotto i piedi, vedeva gli agnellini nascere e belare il loro pianto delicato, e soprattutto sapeva che Nasir non avrebbe mai lasciato il posto accanto a lui... E allora? Allora tutto, davvero ogni cosa, doveva comunque passare per le sue mani, e le sue mani erano guaste, perdute, attraversate da tremori e fitte, inservibili a chi avrebbe dovuto lavorare duramente e del proprio lavoro sostentarsi.

Ringhiava in segno di frustrazione ogni qual volta un oggetto sfuggiva alla sua presa. Vedeva brocche andare in frantumi e badili atterrare con un tonfo morbido nel terreno.

 

 

«Vieni, guardalo. Non è bellissimo?» l’esclamazione di Nasir era esalata con il diletto e la serenità di un fanciullo.

L’agnellino di pochi giorni, gracile e tentennante sulle zampe sottili, gemeva al mondo il suo sbigottimento. Il siriano lo reggeva fra le braccia assicurandosi di non farlo cadere, e lo porgeva ad Agron perché questi lo accarezzasse. Egli allungò la mano aperta verso la bestiolina canuta, ne sfiorò il cranio mingherlino e sorrise in risposta alla gioia puerile di Nasir. Soltanto metà della sua mano poteva percepire la morbidezza del pelo corto del piccolo, ma era pur sempre qualcosa.

 

 

Il germanico si sentiva troppo spesso impotente, privato della dignità di uomo. Non solo compiva fatiche immani nel tentativo di svolgere le sue mansioni come tutti gli altri, ma perfino nel tastare le carni del suo amante si trovava difettoso, incapace, derelitto. Non passava giorno che non esecrasse ancora e ancora la stirpe dell’Aquila.

Quella sera Nasir lo attendeva nel loro giaciglio, la pelle ambrata rischiarata appena dal bagliore vacillante delle candele. Teneva i lunghi capelli corvini sciolti, e questi gli lambivano le spalle come onde sulle creste sporgenti a picco sul mare. Aveva gli occhi lucenti, Nasir, soddisfatti per il lavoro di una giornata. Le sue membra, però, seppur stanche, richiedevano di essere arse da devota passione.

Ad Agron, come di consueto, mancò il respiro. Lui era la benedizione che leccava con amore ogni sua ferita; una roccia vigorosa a cui aggrapparsi, avvolta in splendide sembianze da piccolo uomo. Lo baciò assaggiandone a lungo il sapore. E fu la loro stessa anima a invischiare le lingue, a rendere quello scontro un vibrante e gagliardo esordio d’estasi. Agron gli prese il viso, si fermò, lo scrutò a lungo perché non ne aveva mai abbastanza. Le labbra bagnate e ancora socchiuse di Nasir in cerca delle sue tremavano di lussuria. Le accolse di nuovo, in un morso, e il sospiro che sfuggì alla gola del siriano suonò tanto come una supplica e tanto come un’eco di gratitudine.

Giacenti sul loro nido umile e complice, gravarono presto la stanza di respiri affannosi. Agron serbava una particolare predilezione per il collo del suo amante; lo lusingava a piccole lappate graffiandolo appena con i denti e vi mormorava contro promesse, tenerezze, oscenità.

Nasir inseguì le sue mani, Agron le ritrasse. Il siriano sentì il cuore sgretolarsi; si dava pena ogni giorno per i mali dell’altro, e il germanico si ostinava a nascondere preoccupazioni e inquietudini. Il giovane slittò al di sopra del suo uomo. Cavalcioni sul suo bacino, si gettò indietro i capelli bruni e si chinò a onorargli il petto di baci. Lo distrasse a quel modo e, sussurrandogli che lo desiderava, gli prese le mani e le condusse su di sé.

Agron scosse la testa, afflitto, ma Nasir le teneva strette fra le sue e le guidava lungo il proprio corpo. Fianchi dorati, addome snello, petto ansante, poi nuovamente in basso il percorso contrario, e le fece sostare sulle cosce che teneva ben tese.

«Non negarti di toccarmi. Amami con le tue mani da uomo. Amami, Agron. Non ti chiederò mai nient’altro. Le tue mani sono le mie, le mie sono le tue. Io ci sarò sempre a sorreggerle per te, se oseranno dubitare.»

Il germanico fu permeato da una profonda brama di pianto. Giurava, che si fottessero gli dei, di non avere un petto ampio abbastanza per contenere tutto ciò che provava per il siriano. Mosse le dita e le ancorò come poté nella pelle calda della sua ragione di vita, proprio nei lombi. «Nasir...» gemette, roco, forgiando lascivamente la “s” fra lingua e palato, nel momento in cui l’altro si calò su di lui e gli mozzò il fiato.

 

 

 

 

 

 

 

Dedico questa one-shot alla mia Manuelina aka SexyJames che oggi compie gli anni :3

You’re like the Agron to my Nasir.

 

 

p.s. Sono sicura che avete già riconosciuto la citazione ma, per la cronaca, mi sono lasciata ispirare dalla frase: “Amami uomo con le mani da uomo” dalla magnifica canzone di Renzo Rubino.

 

Un bacio a chi ha letto la storia, due a chi l’avrà apprezzata almeno un pochiiino :P

Gratitude,

 

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