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Autore: Fatelfay    15/05/2013    2 recensioni
...Dopo l’Afganistan credevi che non si potesse provare più dolore di quello che ti poteva causare una pallottola che ti distruggeva una spalla. Dopo quello, ti eri detto che saresti riuscito a sopportare qualsiasi ferita. Tua sorella, il tuo passato, la gamba erano niente a confronto. Era una delle tue certezze e tu ne avevi davvero poche...
...Lo vedevi. Lo sentivi. Lo percepivi. Ti faceva stare bene. Ti veniva a salvare di notte, a volte. Ti abbandonava di notte, a volte. Ti faceva a pezzi di notte, a volte...
...Temi di avere le allucinazioni. Temi di essere definitivamente impazzito...
Post-Reichenbach, naturalmente.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'John: Il Vuoto'
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Disclaimer: i personaggi del telefilm “Sherlock” della BBC non sono di mia proprietà. Tutto ciò che ho scritto è fonte solo della mia immaginazione e non è a scopo di lucro. Insomma, lo sappiamo tutti a memoria…

A volte… tu… ancora



A volte lo vedevi ancora. Un’ombra agli angoli delle strade, dell’azzurro lucente tra le luci al neon, una macchia bianca nelle vetrine nere dei negozi chiusi. A volte lo sentivi ancora. Un “John” sussurrato alle tue spalle, un “vieni qui” ordinato da lontano, un “addio” nel buio di camera tua. A volte lo percepivi ancora. Il suo profumo in bagno, le sue dita sottili sulle tue mani, i suoi passi leggeri sulle scale. A volte provavi ancora qualcosa per lui. Qualcosa che era diverso dal vuoto. A volte era dolore. A volte era rabbia. A volte era mancanza. A volte era solo un pianto che ti lasciava con gli occhi bollenti e la gola muta. Non avevi mai chiesto niente in tutta la tua vita. Solo due miseri desideri: “ti prego, Dio, non farmi morire.” “Ti prego, fai un miracolo. Non essere morto. Smettila con questa farsa.” Alla fine non riuscivi proprio a giudicarti egoista e nemmeno una vittima. Ti sentivi solo e abbandonato e privo di qualcosa di importante. Lui. Non riuscivi neanche a pronunciare il suo nome. L’analista ti aveva obbligato, aveva dovuto tirarti fuori dallo stomaco quelle due parole, che erano un intero mondo, un’intera esistenza, usando le pinze. Ti aveva fatto male, avevi sentito un dolore fisico. Mai tanto distruttivo come quella figura volante, quell’angelo nero cadente nel cielo bianco di Londra. Smettila. Bloccasti i ricordi prima che ti invadessero, prima che ti costringessero a respirare affannosamente alla ricerca di ossigeno. Dopo l’Afganistan credevi che non si potesse provare più dolore di quello che ti poteva causare una pallottola che ti distruggeva una spalla. Dopo quello, ti eri detto che saresti riuscito a sopportare qualsiasi ferita. Tua sorella, il tuo passato, la gamba erano niente a confronto. Era una delle tue certezze e tu ne avevi davvero poche. Ma da quel “Addio, John.” la tua sicurezza era stata fatta volgarmente a brandelli e spazzata via come neve dal sole. Insieme a quella se n’era andata anche l’altra: la sicurezza che lui fosse incredibile e che non potesse sparire così. Non dopo che ti aveva distrutto la prima certezza: quella che ti potevi fidare solo di te stesso e dovevi arrangiarti da solo. Da quando avevi incontrato lui, avevi capito che la tua vita era una vita a due che comprendeva per forza anche lui. E lui ti aveva lasciato. Si era… non riuscivi a dirlo. Lui. Una semplice parola che ti stava uccidendo.
Fingevi. Fingevi così tanto che appena ti chiudevi in camera le gambe ti cedevano e arrivavi a malapena al letto prima di cadere. Mrs. Hudson, Lestrade, talvolta anche Mycroft si preoccupavano per te e tu sorridevi. Non dicevi niente. Scuotevi solo la testa alle loro insistenti domandi del tipo “ti serve qualcosa?”. Non aprivi bocca per non mentire, ma li ingannavi comunque con quei silenzi. Vivevi ancora al 221b di Baker Street, Mycroft pagava anche per suo fratello. Lui, quel bastardo che lo aveva venduto per “il Governo Britannico”. Il cervellone potente aveva venduto suo fratello a un bastardo solo perché il citato bastardo non parlava. Non gli avevi più parlato e avevi insultato le sue assistenti quando erano venuti a prenderti a sorpresa per portarti ad un colloquio con Mycroft. Lestrade si era ritrovato un livido sul viso invece. Ciononostante, non avevi visitato le carceri. Non che ti importasse veramente delle conseguenze. Ti sarebbe andato bene anche di uscire un giorno di casa e cadere sullo zerbino con un buco in fronte o nel petto. Anzi, forse sarebbe stato meglio: avresti smesso di sentirti un plancton in mezzo al mare in tempesta. No, a pensarci bene era meglio non ingannarsi: molto probabilmente lui sarebbe riuscito a renderti insopportabile anche il post-morte. Lo odiavi forse. No, ad essere sincero almeno con te stesso, almeno a te lo dovevi, non lo odiavi. Non riuscivi ad odiarlo nonostante tutto, come anche non riuscivi a credere che lui ti avesse ingannato, che lui fosse un impostore. Non riuscivi a fare nessuna delle due cose semplicemente perché non potevi. Lui te lo aveva vietato con se stesso ogni giorno. “Nessuno può fingere di essere così idiota per tutto questo tempo.” Parole tue. Una frase a cui non potevi smettere di credere, perché era semplicemente vera. Ma lui non era invincibile come credevi tu. E allora ti chiedevi se anche quella non fosse una semplice bugia. Ma non potevi cedere adesso o non ti saresti più alzato da quel letto fino a quando la signora Hudson non fosse salita e non avesse urlato e non avesse chiamato la polizia e un sacco nero non ti avesse precluso ogni luce, un attimo prima che la terra ti accogliesse. Lo sapevi e per quello, quella stupida speranza che lui fosse vero, ti stavi trascinando avanti e fingevi. Solo per lui. Perché la tua vita era diventata a due comprendendolo come parte integrante di te, anche adesso che quella parte era svanita dolorosamente.

Lo vedevi. Lo sentivi. Lo percepivi. Ti faceva stare bene. Ti veniva a salvare di notte, a volte. Ti abbandonava di notte, a volte. Ti faceva a pezzi di notte, a volte. Eppure quando il campanello squillò, corresti tu alla porta a rispondere. Speravi fosse lui, ci credevi, ci contavi, ne avevi di bisogno. Apristi la porta e vedesti dei capelli neri disordinati e due occhi azzurri e un volto magro e pallido e un cappotto nero e una sciarpa blu e morbida. Una ventenne più bassa di te aspettava di entrare. Non era lui. Le chiudesti la porta in faccia e risalisti le scale per camera tua, senza rispondere alla curiosa signora Hudson. Il campanello suonò di nuovo e tu corresti di nuovo giù per le scale, nonostante la gamba ti urlasse nel cervello che stava male, che aveva bisogno di lui. E tu già speravi, già credevi, già ci contavi, già sentivi il tuo bisogno diventare intollerabile, aspettando di essere esaudito. Apristi la porta e trovasti ancora quella giovane ventenne.
-C’è…?-
- No!- Gridasti e chiudesti di nuovo la porta. Non potevi sopportare di sentire quel nome uscire dalla bocca altrui. Non riuscivi neanche tu a dirlo. Tranne all’analista che ti aveva torturato per fartelo sussurrare. Solo quando dormivi riuscivi a sopportare quel suono. Tornasti in camera tua e ti chiudesti dentro come un adolescente che odiava il mondo e non voleva parlare con i suoi genitori, credendo che loro non lo avrebbero mai capito.
Lestrade veniva a farti visita. A volte lo incrociavi per strada e lo vedevi sorridere, ma quando i suoi occhi si posavano su di te, vedevi che la tristezza e il dolore lo aggredivano prepotenti. Anche Mycroft quando ti parlava non sorrideva e rimaneva serio. Ma non più come prima, quando lui era vivo. Adesso “il Governo Britannico” lasciava che nella sua voce e nei suoi occhi passasse consapevolmente un po’ di dolore e di colpa. Quello che non sapeva, era che la piega intorno alle sue labbra non se ne andava mai via quando parlava con te e proprio quella riga ti indicava che lui vedeva in te ciò che aveva tradito, ciò che aveva venduto, ciò che aveva buttato via come briciole di pane. E per questo lo odiavi, ma più di tutto provavi pietà e disgusto per lui e non facevi niente per nasconderlo quando dovevi incontrarlo. Proprio non capivi perché, al posto di vendere la vita di suo fratello a quello psicopatico, non lo avesse lasciato solo nella sua cella. Odiavi anche Lestrade. Lo odiavi e provavi pietà e disgusto per lui e forse, ma solo forse, un po’ di compassione. Perché lui non gli aveva creduto. Tu invece sì. Anche se un minimo di dubbio ti aveva sfiorato, tu non avevi mai smesso di credere in lui, di fidarti di lui, di seguirlo, di proteggerlo come meglio potevi. Non avevi smesso di preoccuparti per lui. Invece il poliziotto, aveva seguito i suoi due sottoposti idioti, e tu non ti spiegavi il perché. Avrebbe potuto semplicemente mandare a quel paese Donovan e Anderson, che avevano pure una relazione illegale in quanto colleghi, e la cui idiozia era stata dimostrata più volte da lui. Lestrade avrebbe dovuto fidarsi di lui e non ascoltare quei due cretini. Lo aveva sempre fatto. Tranne quella volta. E tu non riuscivi a perdonarlo, perché quando tutti erano contro di lui, tutti o quasi, tu eri l’unico ad essere rimasto. Non eri stato proprio l’unico, ma eri stato quello più vicino a lui ad essere rimasto. Se solo anche il poliziotto e il Governo Britannico avessero usato il cervello e il cuore invece che delle stupide legge superflue e pure trascurabili, lui sarebbe ancora vivo. Lui sarebbe ancora con te. Ma loro non l’avevano fatto. E tu non l’avevi salvato. Tu non lo avevi impedito, non lo avevi aiutato. Non eri arrivato abbastanza in tempo, non lo avevi capito. Lo avevi lasciato solo. Lo avevi insultato. E questo ti stava uccidendo anche se nessuno lo sapeva. Tu ti sentivi in colpa. L’ultima speranza di evitare quel cataclisma era nelle tue mani e tu l’avevi vista e non l’avevi stretta. Tu non eri rimasto. Per questo ti sentivi più in colpa di tutti gli altri anche se non lo avresti mai detto a nessuno. Neanche la tua analista lo sapeva. Quel piccolo pezzo di storia era solo tuo, nella tua mente e nel tuo cuore. E molte delle lacrime che versavi erano solo per quello. Avresti solo voluto capirlo. Avresti solo voluto sentire la sua voce chiamarti e trattenerti. Lui non lo aveva fatto e tu non lo avevi ascoltato. Lui aveva detto qualcosa che avrebbe dovuto farti capire che non dovevi andartene, che dovevi rimanere, ma tu non avevi colto quella sfumatura. Non avevi neanche sentito quel piccolo, primo addio che ti aveva detto. Non avevi usato quell’istante per dire le tue ultime parole. Alla fine, avevi solo sentito le sue ultime parole e tu non avevi potuto dire nient’altro che le cose più importanti, quelle che speravi, che credevi, te lo avrebbero riportato intero, vivo e vegeto. Quelle parole che ti avrebbero dato il tempo necessario per dirgli anche tutto il resto. E adesso che ci ripensavi, avresti dovuto dirgli tutto il resto proprio in quel momento, prima che lui diventasse un bellissimo angelo caduto. Prima di vedere le sue lacrime sul quel viso pallido e magro e quegli occhi che racchiudevano tutto un mondo e tutto un insieme di parole e pensieri non detti. Ma lui lo sapeva. Lui aveva già progettato tutto. Non sapevi perché ma non aveva voluto coinvolgerti. Non aveva voluto averti accanto. Ma alla fine aveva chiamato te. Aveva voluto avere te alla fine di tutto. E forse questo era il tuo modo di ingannarti, ma credevi che lui volesse te, perché eri l’unica persona che era sempre stata, da quel vostro primo incontro, accanto a lui.
Lestrade venne a trovarti. Non gli dicesti molto. Più che altro lui voleva assicurarsi che tu stessi bene, per quanto tu potessi. Alla fine anche lui soffriva e quegli incontri erano gli unici in cui potesse lasciarsi andare allo sconforto. Alla fine anche Lestrade aveva rincominciato a credere in lui. Solo che adesso era ormai troppo tardi. Mycroft invece era ancora pentito e lo vedevi che ciò lo torturava nel profondo, ma lui era “il Governo Britannico” e molto probabilmente, anzi sicuramente, non si sarebbe fatto uccidere da quello. Mrs. Hudson invece cercava di rimanere sempre allegra e andava avanti. Ogni tanto si guardava indietro e vedeva te, ancora intrappolato in lui, e i suoi occhi e le sue labbra diventavano tristi. Le ricordavi tutto di lui e tu non pensavi che fosse un bene. Avevi pensato di trasferirti, ma non volevi lasciarlo andare, non potevi, non ci riuscivi. Se solo ci pensavi sentivi che ti stracciavi dentro, che ti strappavi. I soldi di Mycroft, poi, sembravano volerti tenere lì. O darti la possibilità di rimanere lì. Per quello lo ringraziavi un po’, ma non glielo avevi mai detto. Finché non rimanevi solo nella tua camera buia, con le persiane chiuse e le tapparelle abbassate, i soldi del “Governo Britannico” erano più un risarcimento, molto effimero per giunta, per la sua bastardata. Tu avevi ancora bisogno di quel posto anche se più che aiutarti, ti bloccava, non ti lasciava andare avanti. Ma tu non volevi continuare, perché avevi paura di dimenticarlo. Avevi paura di perderlo. Anche se sapevi che in tutto l’universo e in tutti gli universi paralleli, nei quali forse lui era ancora vivo ed era accanto a te o tu eri una donna, non ci sarebbe mai stato lui. Il tuo lui. E tu volevi solo quello. Niente di più, niente di meno. Nient’altro. Ma lui non c’era.

Un giorno suonarono al campanello. Scendesti i gradini con calma, aiutandoti con il bastone. Apristi la porta e guardasti con occhi vuoti e annoiati chi ci fosse sull’uscio. Ricci neri e disordinati. Viso pallido. Guance incavate. Zigomi alti. Lineamenti fini. Occhi pungenti e azzurri, che tiravano al grigio. Corporatura esile. Altezza sopra la media. Un cappotto lungo e nero, vecchio e usato. Una sciarpa azzurra, morbida, allacciata davanti, usata e vecchia. Sbattesti la porta e ti ci appoggiasti contro con la schiena. Poi facesti girare il chiavistello. Avevi il respiro accelerato. Il campanello suonò di nuovo. Mrs. Hudson si fece curiosa ma tu non le rispondesti. Il campanello suonò ancora. Tu guardasti attraverso lo spioncino. La persona era ancora lì, identica a quando avevi aperto la porta.
- John, chi è alla porta?-
- Mrs. Hudson, può venire un attimo qui?- Temi di avere le allucinazioni. Temi di essere definitivamente impazzito. Tu lo vedevi. Tu lo sentivi. Tu lo percepivi. Tu lo volevi ancora intorno a te. Tu volevi la sua presenza e tutto ciò che lo riguardasse ancora al suo posto nella tua vita. Perché la tua vita era a due e comprendeva anche lui. Ma lui non era vivo. Lui non c’era più. Era solo cibo per vermi. E quello fuori dalla porta doveva essere solo un’allucinazione o un grande stronzo. Mrs. Hudson intanto non era ancora arrivata. La chiamasti di nuovo, la voce ti tremava e usciva stridula e forzata dalla tua gola. Lei arrivò con calma, cercando di non accentuare il dolore all’anca.
- Che c’è John? Non ti senti bene? Hai una brutta cera.-
- No, Mrs. Hudson, non si preoccupi. Potrebbe invece guardare fuori dalla porta e dirmi se c’è qualcuno qua fuori? E se c’è qualcuno, potrebbe dirmi chi è o almeno com’è?- L’anziana padrona di casa ti guardava male. In effetti, dovevi capirla: la tua richiesta era un po’ strana, non ti faceva proprio sembrare normale. Non che tu lo fossi mai stato davvero. Tu insistetti e lei ti accontentò. Aprì la porta e guardò fuori e tu lo vedesti di nuovo. Poi lei lo chiuse e corse in cucina gridando:- Perché non me l’hai detto prima? Avrei tirato fuori la torta dal frigorifero.- Lei era felice. La sua voce sembrava allegra. E questo tu non riuscivi proprio a capirlo. Rimanesti a fissare la porta mentre Mrs. Hudson prendeva il telefono e chiamava qualcuno. Non sapevi ancora chi. D’altronde, non la stavi ascoltando. Guardavi il pomello della porta. Non capivi e non sapevi che fare. Alla fine non decidesti, ma agisti senza motivo. Prendesti la maniglia e la girasti con calma. Poi dischiudesti la porta con lentezza quasi morbosa. Rivelasti la sua figura lentamente, un millimetro alla volta, finché non si stagliò sull’uscio. Cappotto nero, lungo e usato. Sciarpa blu, morbida e vecchia. Corporatura esile e troppo alta. Capelli ricci e neri. Viso pallido. Zigomi alti. Lineamenti fini. Occhi azzuri-grigi penetranti, fissi su di te. Fissi su di te. Fissi nei tuoi occhi. E per un attimo non ci credesti e dubitasti. Non credevi e dubitavi con tutto te stesso perché ti stava facendo così male che era infinitamente peggio di tutto quello che avevi già passato in guerra e a causa sua. Eppure quel dolore ti piaceva in fondo. Almeno lui era lì. Forse. Se non era un’allucinazione. Non parlava. Non sembrava neanche respirare, non batteva nemmeno le ciglia, non muoveva gli occhi. Alzasti lentamente una mano e prima che te potessi accorgere, gli toccasti la spalla. Il cappotto era morbido. Lui non reagì. Forse ti stavi immaginando tutto, forse eri definitivamente impazzito. Eppure ti andava bene così. Preferivi avere almeno quello, se quello era lui, davvero lui e non solo una pallida copia. Le tue dita scivolarono sulla sciarpa blu che era davvero morbida come credevi. Poi risalirono il collo e la guancia sbarbata. La sua pelle era morbida anche se un po’ tirata sugli zigomi taglienti. Sentivi anche la tempia sotto il tuo lieve tocco. Le tue dita si immersero in quei capelli scuri e li sentisti per la prima volta. Erano morbidi e setosi. Lui sbatté le palpebre solo per un attimo. E allora lo stringesti. Le tue dita si aggrapparono a quei riccioli e tirarono a te il suo volto mentre con l’altra gli avvolgevi la vita e lo schiacciavi contro il tuo corpo. Respirasti il suo profumo e sentisti il suo respiro sul collo. Lui era pur sempre più alto di te. Lo stringevi più forte che potevi, incurante del fatto che avresti potuto fargli del male, perché l’unica cosa che volevi era averlo lì e non lasciarlo più andare ed essere sicuro che fosse davvero lì e non fosse tutto finto.
- Sher…lock…- Sussurrasti il suo nome con voce rotta. Stavi per piangere anche se non era da te e non sapevi neanche per cosa. Non avevi mai pianto in guerra, neanche quando ti eri ferito, eppure per lui avevi pianto molto. E anche in quel momento ti sembrava perfettamente giusto.
- John…- Sussurrò il tuo nome e ti accarezzò i capelli. Un suo braccio era intorno alla tua vita. E tu lo allontanasti da te. Lo spingesti via. Avevi la vista offuscata dalle lacrime. Non eri né felice, né sollevato, né triste. Non eri neanche sorpreso.
- SHERLOCK!- Gridasti e lui si piegò su se stesso, una mano sul volto. Poi cadde a terra, schiena sull’asfalto duro e freddo di Londra. Si copriva il viso e il busto debolmente e gemeva e sanguinava. Te ne accorgesti solo quando alzasti l’ennesimo pugno chiuso e lo sentisti bagnato del suo sangue e ti sentisti stanco. Allora lo guardasti davvero. Lo osservasti. Eri seduto a cavalcioni sul suo ventre e avevi colpito così forte e così tante volte il suo viso che c’era troppo sangue e nessuna traccia di pallore. E c’erano lacrime. Le tue. Le sue. E lui non si era difeso. Ti aveva lasciato fare. Le braccia aperte sull’asfalto. Come un angelo nero, caduto. E ciononostante, in mezzo al sangue e alle lacrime, ti stava guardando. E capisti anche un’altra cosa. Non ti stava analizzando. Per quei momenti, da quando era apparso sulla soglia del 221b di Baker Street, non ti stava leggendo, non lo aveva ancora fatto. Ti stava semplicemente guardando, come di solito tu facevi con il mondo.
- Sherlock…- Ti alzasti e gli porgesti una mano, che lui accettò con un briciolo di esitazione. Come ad assicurarsi che fossi ancora tu. Come ad accertarsi che non lo avresti di nuovo sbattuto su quell’asfalto freddo e duro. Anche se sapevi che te lo avrebbe lasciato fare all’infinito, se ne avevi di bisogno. Appena sentisti le sue dita, la tua prese divenne forte e la sua salda. Ti fidavi di lui, credevi in lui. Appena lui fu in piedi, tu lo abbracciasti di nuovo e te lo stringesti addosso nonostante i suoi gemiti. Lui era lì. E che fosse solo un’allucinazione o qualsiasi altra cosa di simile, non ti interessava, perché era identica all’originale e l’unica cosa che volevi, a quel punto, era di non lasciartelo sfuggire mai più.
- Sherlock…-
- John…- Sentivi il suo respiro sulla nuca, mentre non riuscivi a fare altro che respirare nella sua giacca. C’era il suo odore, quello di sigaretta, quello di smog, quello di pioggia, quello di erba, quello di vorrei tanto passare in lavanderia. Eppure, lui era lì e quella era l’unica cosa di cui ti importava. Lo conducesti in casa, stringendogli la mano, come se temessi che potesse sparire di nuovo se solo lo avessi lasciato andare. Cercasti il kit di pronto soccorso mentre Mrs. Hudson vi guardava allucinata.
- Che cos’è successo?- Era spaventata e tu guardasti un attimo il volto tumefatto di lui. Sorrideva. Un sorriso timido che lasciava intravvedere i denti bianchi e luminosi. Un sorriso buono e da bambino, un sorriso che non gli avevi mai visto fare. Ti piaceva. Ti sedesti al tavolo della cucina, che Mrs. Hudson aveva liberato, e curasti i graffi e gli ematomi che gli avevi fatto. Sentisti il dispiacere mordicchiarti il cuore. Ma almeno adesso aveva un po’ di colore in viso. Sorridevi e lui ti stava lasciando fare. Non aveva niente di rotto; il naso dritto sanguinava ma era ancora perfettamente integro. Non sapevi ancora bene in grazia di che cosa, ma le eri grato comunque. E lui sorrideva e ciò ti riempiva di gioia il cuore.
- In ritardo come al solito, giovanotto. Avevo comprato la torta fresca per ieri e tu ti presenti solo oggi.- Apristi la bocca per dire qualcosa, perché la frase che la signora Hudson aveva indirizzato a lui, era strana. Ma non facesti in tempo perché dei passi rimbombarono nell’atrio. Ti dirigesti lì, ancora zoppicante, senza sapere cosa aspettarti. Ed i sorrisi che vedesti furono veri e sollevati e strani. Strani perché non sparirono da quelle due facce appena ti videro, come prima d’allora era sempre stato. No, quei due sorrisi rimanevano solari ai loro posti.
- Allora come va’?- Chiese Lestrade guardandoti allegramente e dirigendosi in cucina, dopo un tuo cenno sorpreso.
- Sono lieto di vederla ancora intero.- Ti salutò Mycroft e la piega di colpa intorno alle sue labbra era sparita. Annuisti di nuovo senza sapere davvero cosa rispondere o come interpretare quella frase. Poi lo inseguisti in cucina. C’erano tutti ed erano felici e sorridevano e scherzavano e parlavano e si complimentavano con lui. Anche Mrs. Hudson era allegra, tanto che ti sorrideva passandoti un piattino con una generosa fetta di torta. Ma nessuno sembrava sorpreso. Nessuno sembrava confuso. Nessuno sembrava sentirsi ingannato. Nessuno tranne te. Forse fu per quello che gridasti. Forse fu per quello che venne completamente fuori il tuo essere militare dalla mira impeccabile.
- Qualcuno si vuole degnare di spiegarmi che cosa sta succedendo?- Si zittirono tutti, guardandoti sbalorditi e forse pure intimoriti. Tutti compresi l’ispettore di polizia e i fratelli Holmes.
- È vivo e finalmente è tornato.- Riassunse velocemente Lestrade, come se tu fossi un’idiota. - E nessuno si chiede se sia davvero lui? O come abbia fatto? O che sia semplicemente impossibile? Nessuna sorpresa?- Per un attimo ti sembrò di vedere qualcosa passare nei suoi occhi, mentre ti fissava.
- Sapevamo che non era morto.- La voce di Mycroft non ti era mai stata così sgradita. E lì il mondo cadde per davvero quando le tue nocche incontrarono la mandibola del “Governo Britannico”.
- John!- Ti richiamò lui, mentre passava lo sguardo allibito da te a suo fratello a te a suo fratello di nuovo, che si toccava la guancia che andava via via arrossandosi.
- John un corno, Sherlock!- Gli urlasti contro, mentre la voglia di colpirlo di nuovo tornava a farsi sentire. Per tutto il dolore che avevi ancora in fondo al cuore. Per tutti quei giorni sprecati. Per tutta quell’agonia.
- Oh, John non mi sembra il caso di fare un dramma.- Ti rimproverò dolcemente la signora Hudson.
- Stia zitta!- E nonostante le buone maniere che ti contraddistinguevano, sbattesti il piattino sul tavolo, facendo volare via la forchetta e facendo schizzare la torta in faccia alla donna. Ti guardavano tutti senza sapere cosa fare e Mrs. Hudson era terrorizzata. Non potevi sopportarli un secondo di più. Soprattutto lui. Per quello ti voltasti e uscisti dall’appartamento senza prendere la giacca e cercando di nascondere la tua zoppia. Avevi bisogno di sbollire l’ira che avevi dentro e di mettere ordine nella confusione che dilagava nel tuo cervello e nel tuo cuore.
- John, aspetta!- Provò a fermarti Lestrade e tu lo ignorasti finché non ti afferrò per una spalla e ti costrinse a girarti. Quanto mai l’avesse fatto. Se ne pentì subito, appena il taglio della tua mano si conficcò nella piega del suo gomito colpendo con precisione millimetrica ogni singolo nervo. Ritirò il braccio al petto sbattendo le palpebre per il dolore e tu te ne andasti.

Non sapevi ancora come o perché eri lì. Nel salotto dell’appartamento della signora Hudson. Ma forse era meglio così, dato che non c’era più nessuno. La padrona di casa era da un’amica e c’eri solo tu. E lui. Eravate entrambi in piedi l’uno davanti all’altro. Nessuno aveva ancora detto niente. Lo guardavi. Lui pure. Non ti studiava. Tu non ci provavi nemmeno, ma avresti tanto voluto capire cosa si nascondesse dietro quell’espressione neutra. Invece non ci leggevi niente. Ma avevi una certezza viscerale che lui stesse provando qualcosa. Più la sua faccia era neutra e impenetrabile, più emozioni stava provando. Non ne eri certo, ma dopo tutto il tempo passato insieme ne eri convinto nel profondo. Il silenzio era pesante e doloroso, così decidesti di romperlo.
- Lo sapevano tutti?- Lui non disse niente.
- Tutti tranne me?- Continuò a fissarti immobile.
- Da quanto?- Nessuna risposta. Lui rimase immobile, non mostrò alcuna emozione, sempre che ne provasse una. Ma tu eri certo che sentisse qualcosa, da qualche parte, nel cuore che sosteneva di non avere. Il suo silenzio era orribile. Ti stava uccidendo, come quel giorno, su quel tetto. Smettesti di pensarci, prima di soffocare.
- Perché? Almeno questo me lo vuoi dire? Perché?- Lui non aveva ancora aperto bocca e tu meditavi di prenderlo di nuovo a pugni. Ma il suo volto era ancora tumefatto e ciò bastava a sedare i tuoi istinti. Non volevi fargli ancora del male. Volevi solo sapere il perché di tutto quel dolore. Gli altri lo sapevano e avevano mentito per tutto il tempo, fingendosi addolorati per una finta morte. Tu invece non lo sapevi. Lui non ti aveva detto niente, ti aveva mentito. Tu eri l’unico ad aver sofferto davvero. E non capivi perché.
- Perché sei così crudele, Sherlock?- Qualcosa cambiò il suo viso, ma lui non disse niente. Aspettasti una risposta, cercasti di capire cosa fosse cambiato in lui ma non ci riuscivi e lui non ti aiutava. Sbuffasti e ti passasti una mano sugli occhi. Prendesti un respiro profondo per calmarti. Lui rimase immobile per tutto il tempo. E tu perdesti tutto. Lui ti aveva abbandonato e ora che era tornato non ti aveva ripreso con lui. Ti voltasti e ti dirigesti verso camera tua, incurante del fatto che la tua zoppia, più accentuata di prima, si vedesse o meno. Ti stavi spezzando e lui non te lo stava impedendo, anche se gli avevi urlato contro che avevi bisogno del suo aiuto, che volevi il suo aiuto. Che avevi bisogno di lui, volevi lui. Ma lui ti stava lasciando rompere. Ti eri illuso e solo ora lo capivi. A lui non era mai importato niente di te. Eri solo un esperimento, eri solo un passatempo, un giocattolo. Forse valevi ancora meno. Lui non aveva un cuore nel vero senso del termine e per te non aveva mai provato niente. Neanche simpatia. Ti eri solo ingannato. Sentisti la sua mano sfiorarti la spalla. Un brivido ti bloccò dov’eri. Ma passasti oltre e rincominciasti a camminare. Per una volta era lui che ti doveva correre dietro. E tu non avevi intenzione di rallentare il passo, di per sé già lento, né di fermarti o di voltarti indietro. Lui non lo aveva mai fatto. Erano sempre stati cazzi tuoi se riuscivi a tenergli dietro o meno. Erano sempre stati cazzi tuoi, se riuscivi a seguirlo o meno. E ora toccava per una buona volta a lui. Le sue dita leggere ti sfiorarono la spalla e un soffio ti accarezzò i capelli.
- Mi dispiace.- Una scossa ti attraversò il corpo e tu ti pietrificasti lì dov’eri con il cuore e il cervello fermi.
- Mi dispiace.- E quella doveva per forza essere un’allucinazione. - Perdonami.- E c’era davvero colpa e dispiacere in quella voce così sottile. Non potevi ancora girarti, non ce la facevi ancora. Stavi soffrendo ancora troppo. Per lui. Per le sue bugie. Per i suoi segreti. Per i suoi silenzi.
- Perché? Perché io no?- Ed era egoismo quello che ti faceva soffrire di più in quel momento. Perché tutti sapevano e tu no. Perché tu avevi sofferto troppo a lungo e troppo tanto per poter guarire e dimenticare tutto da un momento all’altro, solo perché lui era tornato.
- Perché tu eri troppo importante. Eri l’unico che non avrebbe potuto fingere abbastanza bene. Perché solo il tuo vero dolore avrebbe potuto tenermi in vita. Mi dispiace. Perdonami.- Le sue parole ti scossero. E solo allora ti girasti e non potesti fare nient’altro che abbracciarlo di nuovo e lasciare che tutto passasse, che tutto quello che ti eri tenuto dentro, tutto quello che avevi tenuto solo per te, uscisse. E non ti importava che stessi piangendo e sorridendo e singhiozzando e ridendo tutto insieme. Non ti importava più della decenza o della normalità. Non ti importava più che se qualcuno vi avesse visto avrebbe potuto parlare maliziosamente. Ti importava solo che lui fosse lì. Ti importava solo che lui fosse reale, che lo stessi stringendo tra le tue braccia, contro il tuo petto, che le sue braccia stessero circondando in un abbraccio inusuale ma giusto e che non se ne sarebbe andato più via e che era lì anche per te. Perché Sherlock era tornato da te.








Note del Delirio e dell* scrivente (se chi ha scritto questa cosa si può chiamare tale):

Premetto, questa cosa è stata scritta di getto e non è stata lasciata sedimentare come al solito. Non è stata neanche riletta il centinaio di volte prescritte dalla mia prassi. Quindi si merita il nome di cosa.
La “maledizione” del post-reichenbach conta anche me fra le sue vittime. La chiamo maledizione perché il fandom ne è stato letteralmente invaso. Peggio delle invasioni barbariche.
Comunque, spero di non essere precipitata nell’OOC. Se così fosse, e prego chiunque ci sia lassù o laggiù di no, DITEMELO, visto che è una delle cose che voglio evitare come la peste quando scrivo fan fiction.
Lo so che John qui è particolarmente violento. Intendo dire, più del suo solito. Però ho la ferma convinzione che anche lui abbia voglia, qualche volta, di tirare un pugno a Mycroft. Invece Sherlock se li merita, e lo sa. Inoltre, beh, mi sembra normale che i nervi di una persona, anche se questa si chiama John Hamish Watson, possano cedere dopo la resurrezione di un cadavere che ha visto morire.
Perché credo che tutti lo sappiano tranne John? Mycroft, lo sa per forza. Vero, molto probabilmente non sa che Irene è davvero viva, (2x02), ma con lui non si sa mai quanto sappia, né quando menta. Quindi Sherlock potrebbe mentirgli e dal finale di 2x03 sembra davvero in lutto. Però stiamo parlando di Holmes-mi-preoccupo-davvero-per-mio-fratello, quindi direi che in un modo o nell’altro (complice!) lo sa. Ma il motivo più importante di tutti è che Sherlock, da qualche parte molto recondita e molto profonda e ben sigillata e blindata, forse, ma solo forse, ha qualcosa di vagamente simile a quello che potrebbe essere chiamato cuore. Altrimenti mi spiegate perché è stato così drammatico in quel maledetto “Questo è il mio biglietto… […]…Addio, John.” tanto da piangere? (o era solo una mia impressione?) E altre mille momenti del telefilm?
Comunque, grazie per essere arrivati fin qui e per aver sopportato questa cosa.
Grazie ancora per aver letto!
Ciao!
  
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