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Autore: Iris Fiery    16/05/2013    1 recensioni
Londra odierna. Bianca è norvegese, ha i capelli rossi e gli occhi neri. Divide un appartamento con altri quattro a Londra, in Baker Street. Il suo volto, però, è orribilmente segnato da una cicatrice: è segno di un terribile evento capitato pochi mesi prima, che ancora le lascia il dolore dentro
La sua vita prosegue tra audizioni di musica e tranquille giornate a Londra, quando qualcuno si introduce nella sua stanza, e ruba l'anello donato dalla madre: e quella parola, Wyrd, è un oscuro presagio, che la porteranno a scontrarsi con forze cosmiche e ad incontrare lui, il dio Thor.
"E' assurdo che tu, norvegese di nascita, non conosca la leggenda di Thor!" Le urlò Bunny, davanti a quel té che fumava nella grigia Londra invernale.
Genere: Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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01 - Wyrd
Il tempo è breve; chi insegue l'immenso perde l'attimo presente.
[Euripide]

01 –  Wyrd

Bianca guardava il vuoto, davanti a se. La grossa porta di metallo pesante era chiusa con un lucchetto, impossibile da forzare, segnata da diversi fori di proiettili e chissà quale altre armi. Il grosso lucchetto luccicava in quella notte oscura: doveva essere nuovo, perché non vi erano segni di effrazione e, in una zona come quella di Londra, sembrava qualcosa d’impossibile. Alla fine, bastava vedere la metropolitana e la sua fermata: il Lambeth North era una zona invivibile oramai, soprattutto quando il sole scendeva e si alzava il freddo londinese.
Scoccarono le nove e quaranta quando la giovane Bianca alzò il cappuccio della grossa felpa bianca e s’incamminò verso la stazione metropolitana che distava da quella strada per circa dieci minuti: sarebbe poi salita sulla linea marrone fino a Oxford Circus dove avrebbe cambiato sulla linea rossa e sarebbe scesa a Tottenham Court Road, nel centro di Soho, dove aveva un piccolo appartamento in condivisione con altri studenti.
Quando la prima goccia toccò la custodia rigida della chitarra, sbuffò appena, allungando il passo per non trovarsi fradicia: i jeans stretti e scuri che portava erano arrotolati alle caviglie che le lasciavano scoperte alle intemperie e le scarpe bianche e crema, di quei modelli alti quasi alla caviglia che andavano tanto di moda, si infangavano ad ogni passo.
Entrò nella stazione che puzzava di ogni odore possibile con i lunghi e mossi capelli rossi che uscivano dal cappuccio cadendo sul petto oramai fradici, la felpa bianca diventata aderente e la custodia della chitarra bagnata: fortunatamente, quella era impermeabile. Scese dalle scale e, dopo aver fatto passare l’abbonamento nell’apposita macchinetta, si mise in fila con tutti gli altri poveri e sfortunati viaggiatori. Estrasse dai jeans il cellulare ultimo modello che le era stato regalato ma che tanto odiava: troppo ingombrante, con uno schermo talmente grande che non poteva usarlo con una sola mano. Mandò poi un messaggio ad Axel, uno dei suoi coinquilini, scrivendo che sarebbe tornata a casa entro un’ora.
-Come è andata stavolta?- Fu la celere risposta. Bianca rimase zitta e lasciò quel messaggio in sospeso, mentre saliva sui grandi vagoni ancora affollati a quell’ora e si sedette nel primo posto che trovò.
Prese fuori una cartina dalla scatola oramai segnata dalle mille avventure che aveva vissuto e, con precisione scientifica, vi pose dentro dell’ottimo tabacco: arrotolò poi il tutto e, con una leccata leggera e veloce, chiuse quella piccola sigaretta che presto si sarebbe potuta gustare. Era uno dei vizi che aveva, quello del fumo. Uno dei tanti.
Quando fu annunciata la stazione di Oxford Circus si avvicinò lentamente alla porta: affianco a lei, una bambina dai grandi occhi azzurri la fissava. Attirava spesso lo sguardo: alcuni dicevano che era per la sua bellezza, ma lei non ci credeva mai molto. Sapeva che era per quella guancia destra, segnata da un orribile cicatrice verticale, che arrivava fino all’angolo creato dalla congiunzione delle labbra. Il suo inizio, invece, era coperto dai capelli, ma si trovava vicino all’orecchio. Oramai quel segno era rimarginato, ma lasciava sempre un alone di terribile mistero dietro al viso dai grandi occhi neri in cui la pupilla scompariva, visto quel tenebroso colore: era sempre un segno in superficie che la segnava, solo una mera trasposizione dell’immenso dolore interno che ancora provava.
Finalmente arrivò alla strada in cui abitava e, con sommo stupore, lesse “Affittasi”: solo allora le venne in mente quanto stupida era. Dopo tre mesi che si erano trasferiti in Baker Street ancora sbagliava la strada: era causato dal trauma che aveva subito, diceva sempre Axel, lui coi suoi studi sulla psicologia freudiana.
Baker Street distava parecchio da lì, ma decise comunque di muoversi a piedi, per il semplice fatto che odiava i taxi e che l’aria, quella sera, era piacevole: per quanto la pioggia continuasse a scendere inesorabile, s’intende. Le strade, anche le più affollate, erano spoglie di gente: vi erano solo molti Salary Man che correvano da una parte all’altra, scendendo e salendo da eleganti macchine nere lucide come poche altre. Tutta quella frenesia, Bianca, non riusciva a capirla: per lei, che aveva vissuto per sedici anni in un paesino di appena duecento persone nella fredda Norvegia, proprio nella cima dello stato, tutto quel mondo ancora sembrava strano. Anche se oramai viveva a Londra da sei anni, aveva sempre mantenuto quell’allure nordico: aveva una camminata elegante, a volte sembrava volasse da quanto era leggera, un fisico asciutto e lo sguardo freddo e cattivo, forse a causa di quel colore oscuro.
Arrivò a Baker Street che erano le dieci inoltrate oramai: salì fino al secondo piano ed entrò nell’appartamento in stile ottocento che divideva con quattro persone. Sfilò le scarpe e le lasciò fuori, per non bagnare ovunque: saltò poi nel salotto, in cui le fiamme del caminetto creavano un’atmosfera molto accogliente e calda, attenta a non poggiare nulla sui tappeti che riempivano il pavimento di legno scuro. Due dei coinquilini, Axel e Francine, una deliziosa francese che ancora non parlava perfettamente inglese, erano seduti davanti al camino, in due poltrone rosse, che giocavano a scacchi, uno dei loro impegni preferiti.
Erano talmente impegnati che Bianca riuscì a sparire al piano superiore, dove si diramavano le stanze. La prima a sinistra era quella di Axel, un bell’americano dagli occhi di vetro, i capelli di fuoco e una pelle ambrata tutto l’anno. La seconda a sinistra era quella di Bunny, la scozzese: una tipa tutta pepe, con corti e riccioli capelli color carota, curiosi occhi verdi e un nasino simile a quello di una fatina. Era una tipa strana, Bunny, con le sue passioni per la mitologia nordica e i suoi studi di biologia applicata: era immersa sui libri quasi tutto il giorno e, nel periodo di libertà da quest’ultimi, stava per intere ore a domandare alla povera Bianca della sua Norvegia, e di ogni credenza che vi era.
A destra, vi erano altre tre stanze: la prima era quella di Vladimir, il russo, che era l’ultimo arrivato. Un tipo silenzioso e misterioso, alto quasi due metri e dal fisico scheletrico, con grandi occhi azzurri e una pelle diafana: era andato ad abitare lì dopo il loro trasferimento e studiava criminologia, o almeno questo Bianca ricordava.
La seconda stanza era occupata da Michelangelo, un giovane italiano che Bianca aveva conosciuto appena arrivata a Londra: era un artista, e da un nome simile non ci si poteva aspettare altro. Era un tipo allegro, intelligente ed estremamente dotato nel disegno: era un pittore nato, e spesso si vedeva della tinta uscire dalla sua porta. Era un moro alto, dagli occhi scuri e penetranti, che aveva sempre avuto un certo interesse per la nordica, che però mai era stato ricambiato. Era però un ottimo confidente, qualcuno di piacevole con cui girare per Londra, vista la sua immensa cultura.
L’ultima stanza era la sua. Era tra le più grandi, soprattutto paragonata a quella di Vladimir: aveva una finestra da cui si poteva vedere il Tamigi e il palazzo dei reali. Un grosso letto sulla parete destra, un armadio su quella sinistra ed un immensa scrivania piena di qualunque oggetto possibile: aveva anche una libreria, posta sopra il letto, che doveva raggiungere grazie ad una scala, vista la sua minima altezza.
Fu proprio Michelangelo a vederla quella sera: aveva la porta aperta, da dentro si sentivano strani rumori e Bianca si affacciò giusto per curiosità. L’artista stava lavorando un pezzo di creta che per ora prendeva la forma di un busto: Bianca sorrise, riconoscendo in quel busto il volto di Thor. Probabilmente era stata una richiesta di Bunny, e Michelangelo non aveva saputo dire di no.
<< Mi meraviglio sempre che tu abbia tale bravura, Michelangelo. >> Disse alla fine Bianca, vedendo il volto perfettamente scolpito che sembrava proprio quello del Dio del Tuono.
<< È sopravvivenza, mia cara! >> Disse lui, senza muoversi da quel posto. << Se non avessi creato tale opera, Bunny non mi avrebbe più fatto vivere! >> Bianca adorava l’enfasi che Michelangelo usava per ogni suo discorso: si vede che amava la vita, quel ragazzo.
La rossa gli sorrise semplicemente, prima di avviarsi a passo leggiadro nella propria stanza, in cui trovò le finestre spalancate brutalmente: se quelle furono le prime cose che notò, solo successivamente il suo sguardo saltò sul letto sfatto, l’armadio aperto e, orribilmente rovinata, la scrivania in cui sopra ora non vi era più niente. Ebbe un balzo al cuore, prima di scattare velocemente a quest’ultima e trovare una scatolina aperta, in cui il contenuto era stato rimosso: rimase in silenzio per qualche secondo, prima di richiamare l’attenzione di tutti gli altri abitanti della casa.
Mentre nella casa tutti si erano mobilitati per chiamare la polizia, Bianca rimase a fissare la scatolina: non sentiva le domande di Axel che chiedeva se mancava altro, o il sano stupore di Vladimir che, giurava, di non aver sentito passo o rumore proferire a quel piano.
Eppure qualcuno aveva cercato ovunque, quell’anello: la piccola fede d’argento, che riportava un rubino al centro, donato dalla madre alla giovane norvegese prima di partire. Poi il suo occhio fu attirato da quel foglio minuscolo, che ora prendeva posto dell’anello: la parola “Wyrd” era scritta velocemente, in calligrafia confusionaria e disordinata.
Bianca rimase in silenzio, prese il foglio e si accomodò poi sul letto sfatto, aspettando la polizia a cui, con sincerità, non avrebbe saputo cosa dire.


   
 
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