Storie originali > Fantascienza
Ricorda la storia  |      
Autore: _Sinclair_    18/05/2013    5 recensioni
Un lutto improvviso per un figlio morto in una guerra lontana. Come sopravvivere a questo dolore? Come gestire una sofferenza che non ha fine, che ti fa rimettere in discussione tutte le scelte della tua vita? E come sopportare la vita che, comunque, va avanti?
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Colonia L5-Columbia, 18 Ottobre Anno 3, Ante-Esilio


«Ed ecco che la nave entra piano piano nel porto...».

Ci sono poche cose belle come una mano che imbocca un bambino. Forse la luce del tramonto che in quel momento iniziava a stendersi sul tessuto verde del divano e che regalava una preziosa tonalità dorata alle fotografie allineate sui mobili del salotto. Forse ancora quell’aria di poco prima della sera, già fresca ma non ancora fredda, col suo profumo un po’ pungente e la sua promessa del riposo. Oppure il tenue profumo delle piante aromatiche disposte sul terrazzino della cucina e che si accompagnava agli ultimi rumori degli uccellini nascosti tra i rami del platano in giardino.

Sì, quello era un momento bello, ma Veronica non poteva fare a meno di pensare che in condizioni normali lo sarebbe stato molto di più. A rovinare il momento non erano i granelli di polvere che galeggiavano nell’aria del crepuscolo (tante cose era stata nella sua vita, ma non certo una brava donna di casa). Non erano nemmeno i rumori del vicino cantiere stradale, che ormai da due settimane le trapanava le orecchie mentre gli operai aprivano e richiudevano l’asfalto come una cucitura venuta male. Neanche l’assenza di George, suo marito, perché tanto ormai erano quasi sei anni che George non c’era più e perfino le ferite più profonde alle fine se proprio non si sanano almeno si richiudono sul loro stesso dolore.

No, il problema era un altro. Il problema è che quella era la mano non di una mamma, ma di una nonna.

Veronica guardò bene il piccolo Thomas mentre gli puliva la guanciotta paffuta dal resto della minestrina. Lo guardava sempre con attenzione, sempre alla ricerca di un qualche indizio sul funzionamento di quell’incredibile miracolo che lo aveva portato nella sua vita. Beh, per meglio dire, della loro. Ma era così difficile pensare al plurale, pensare ad un “loro”.

Non che Veronica fosse una donna solitaria o che amasse stare per conto suo. Tutt’altro, la sua vita era stato un continuo succedersi di persone, luoghi, tempi... e perfino amori, sì. Tanti, vissuti, immaginati, lasciati e poi ripresi. Come lui, come George.

No, non aveva finito la sua lunga successione di emozioni con quello che era comunque stato l’uomo della sua vita.

Lei l’aveva tradito, certo. Si erano lasciati, ovvio. E poi si erano ripresi. Una, due, tre volte, nell’ultimo caso anche dopo il matrimonio. Ma era tutto inutile, lei poteva scappare quanto voleva - e ci aveva provato con tutta la forza della sua anima - ma alla fine tornava sempre indietro, da quell’uomo che per anni era rimasto immobile, sempre uguale, impietoso nell’esercitare l’invisibile attrazione gravitazionale che la riportava al punto di partenza. Tra le braccia di quell’uomo che quarant’anni prima aveva preso a chiamarla la sua “cometa vagante” e che da allora non aveva più smesso.

Fino alla fine, fino a sei anni prima.

Ora George rimaneva in silenzio, chiuso nelle sue foto in salotto, e Veronica prendeva un altro cucchiaio di minestra per il piccolo Thomas. E il piccolo lo mangiava, tranquillo e disciplinato. Disciplina, interiore prima ancora che esteriore, una caratteristica della famiglia di George. Una caratteristica ereditaria.

Veronica rabbrividì, e per poco il cucchiaio non le cadde di mano. Thomas la osservò, con un’aria un po’ stupita, quasi a chiedersi cosa avesse disturbato il normale procedere della cena, e questo strappò un insperato sorriso all’anziana.

Chissà cosa avrebbe detto il suo uomo? No, era stupido chiederselo, perché Veronica lo sapeva già. Non avrebbe detto nulla, avrebbe solo preso la sua fotocamera e avrebbe scattato altre foto, che poi non erano altro che le sue parole. Veronica quasi riusciva a vederle: il colorito rosato di Thomas sulla sinistra dell’inquadratura che faceva da contrappunto al bianco candido dei capelli di lei, capelli che George aveva ritratto per decenni in ogni loro curva, evoluzione, forma.

Si erano conosciuti così, per un servizio fotografico pubblicitario di cui Veronica non doveva certo essere la protagonista (aveva sempre odiato le modelle, lei che pur avendo un certo fascino aveva contato più sulla sua testa che sulle sue gambe, sia nei tanti lavori che aveva fatto che con i vari uomini che aveva avuto). George l’aveva vista, in mezzo allo staff della ditta presso cui lavorava all’epoca, e il fatto che alla fine il numero di fotografie a lei dedicate era stato almeno doppio rispetto a quelle del servizio stesso l’aveva convinta che un po’ di interesse quel giovane fotografo lo provava nei suoi confronti. Una di quelle foto era anche in salotto assieme ad un’altra, scattata la sera stessa, una serata destinata al capo ufficio di Veronica e invece bellamente “dirottata” da George.

Ma il giovane fotografo era fatto così, lo avrebbe scoperto poi, una volta presa la sua decisione procedeva dritto come un missile verso il suo bersaglio, incurante di qualsiasi ostacolo. Tra le tante donne che avrebbe potuto avere, lui l’aveva scelta nel giro di cinque minuti. Tra i tanti uomini che lei aveva avuto prima di allora e che avrebbe avuto dopo, lui non era mai stato realmente scelto ma alla fine era sempre rispuntato fuori. Allora a un certo punto lei si era arresa, aveva deposto le armi e aveva finito la sua corsa. Cominciando a vivere davvero.

Il pensiero di tutto ciò, la sua pesantezza, assalirono di colpo Veronica costringendola ad abbassare le spalle. Il braccio che reggeva il cucchiaio si poggiò sul ripiano del seggiolone. Thomas rimase ad attendere con pazienza che il pasto riprendesse, aprendo e chiudendo la bocca. Ma Veronica ora non lo guardava più, anzi quasi non lo vedeva.

Perché sapeva cosa era arrivato dopo, chi era stato ad ancorarle definitivamente l’esistenza ponendo fine ai suoi vagabondaggi, alle sue esperienze selvagge, ai suoi anni smarriti e inutili. Certo, lei non li aveva mai considerati tali prima di allora, ma l’arrivo di quell’uomo l’aveva sconvolta ancor di più della comparsa sulla scena del futuro marito. Perchè questo aveva sempre fatto Darrell con lei, prima ancora di amarla: l’aveva sconvolta.

Darrell, suo figlio. Darrell, la sfida. Darrell, la difficoltà di comprendere un ragazzo così diverso da lei e così simile al padre, così solido, così affidabile. Eppure anche lui come George l’aveva incantata, l’aveva fatta innamorare, aveva fatto scattare dentro di lei meccanismi emotivi primordiali, inscrutabili, potenti... l’aveva resa sua, quasi contro la propria volontà, e poi se n’era andato. Così, con la stessa facilità con cui lei un tempo aveva abbandonato le camere da letto degli uomini, lasciandole in silenzio il mattino dopo e non tornando più. Era forse quella una vendetta del suo karma?

Ma poi un altro sorriso, più amaro e doloroso, si formò sul suo viso, riportandola alla realtà. Perché no, Darrell non se n’era propriamente andato, era rimasto. E ora la guardava attraverso gli occhi di Thomas, suo figlio, fermo sul seggiolone, insopportabile nella certezza che lei non potesse fare altro che amarlo, come e più di quanto amasse sè stessa. Ed era vero, dannatamente vero.

La riprova fu quel braccio, che si mosse in avanti quasi senza bisogno di un comando cosciente, perché il bambino doveva essere nutrito. Questo le diceva la forza crudele che muoveva la sua anima: il bambino doveva essere nutrito. Il bambino doveva vivere.

Veronica impedì alla lacrima di scendere sulla sua guancia. A che sarebbe servita, poi, oltre a disperdere nell’aria un po’ della sua umidità corporea? Sì, questo lo aveva conservato di lei, la “vera” lei, la vecchia Veronica, ossia che il pianto riusciva solo a rovinarti il trucco Quindi, non avrebbe ceduto proprio ora.

Eppure... eppure le veniva da pensare che aveva fallito. Il bambino, il suo bambino non era sopravvissuto. Non lo aveva protetto, non lo aveva salvato. Cattiva madre, Veronica, sei una cattiva madre, cattiva!

Si morse la lingua. Sentì su di essa ogni millimetro dei suoi denti e se il rumore dei passi che scendevano le scale interne della casa non l’avesse interrotta, avrebbe anche finito con il farsi male da sola. Evitare di piangere aveva un prezzo.

«Ora sta un po’ meglio, ha ripreso a dormire.».

La voce, maschile, che era arrivata da dietro le sue spalle era dolce. Così dolce che se ne avesse avuto la forza Veronica gli avrebbe urlato contro, spinta dalla furia più feroce.

«Ti ringrazio, Andy,» disse invece. Andy li proteggeva, era un amico. Andy era buono.

Per un istante, il tempo di un’altra cucchiaiata, l’universo rimase in silenzio, in apparenza immobile.

«Vuoi che finisca io con Thomas? Sarai stanca...».

La voce si era fatta più vicina. Nell’aria si sentiva l’arrivo della mano di un amico che si posava sulla spalla di una vecchia nonna, ma Veronica fermò quel gesto prima ancora che nascesse, irrigidendo la schiena. Da quando era morto George, nessun uomo l’aveva più toccata senza che lei lo volesse, perché solo lui ne aveva conquistato il diritto. Solo lui l’aveva sconfitta a quel modo.

Il dottor Sliebermann non alzò nemmeno la sua mano. Erano ormai tanti anni che la conosceva e la capiva. Troppi, ormai.

«Quanto tranquillante le hai dovuto dare stavolta?», gli chiese lei. Il disprezzo c’era, sì, ma almeno stavolta Veronica sentiva che lo stava controllando più del solito. In questo, la presenza del piccolo Thomas aiutava.

Sentì il medico passarsi la lingua sulle labbra prima di risponderle. «Mai che si riesca a fare un discorso tranquillo con te, vero? Le ho dato la solita dose... diciamo un po’ abbondante.».

«Capisco. Tu lo sai che non può andare avanti a lungo così.».

«Neanche tu puoi farlo.».

Il braccio di Veronica fece l’ultimo di quei movimenti ormai quasi meccanici, posando delicatamente il cucchiaio tra le labbra del piccolo. La minestrina era finita, il piatto di Thomas era quasi pulito. Il suo rancio serale...

Si alzò, dunque, immergendosi nel raggio di luce calda del tramonto che entrava dalla finestra. Mise il piatto e il cucchiaio sotto il lavandino e fece scorrere l’acqua. Per un istante, solo per un istante, la luce del tramonto restituì ai capelli di lei quel biondo che aveva stregato così tanti uomini in un lontano passato.

Andy distolse lo sguardo. Nel farlo gli occhi finirono con l’incontrare Thomas e quando il medico si riaccostò a Veronica, passandovi accanto, la sua mano accarezzò con dolcezza la testa del bambino. Poi si arrestò di nuovo, rimanendo a tre rispettosi passi di distanza da lei.

«Veronica, te lo dico più come medico che come amico, devi farti aiutare. Non puoi...».

Lei chiuse l’acqua e l’improvvisa assenza di rumore bastò a zittire il dottore. Infilò il piatto nello sportello della lavastoviglie e dopo qualche istante lo ritirò fuori, pulito alla perfezione. George e la sua fissazione per lo spendere solo per le cose veramente utili... quell’aggeggio a microonde era con loro da quasi dieci anni e ancora funzionava a meraviglia.

I passi di distanza divennero due.

«E’ quasi l’ora, Andy,» disse Veronica, senza voltarsi, gli occhi fissi sulla luce allo stesso tempo sempre più dorata e sempre più debole.

Il dottore non sospirò. Anche i sospiri, come gli anni, erano ormai troppi.

«Quale ora, scusami?».

«Le 18 e 11. Il servizio meteorologico utilizza questa tabella da più di sei mesi e a quanto pare non ha intenzione di variarla. Il tramonto è sempre a quest’ora.».

Lei diceva queste parole, ma mentre le diceva i suoi pensieri attraversavano la finestra, correvano sul giardino, inseguivano le farfalle, dimenticavano non solo la casa dove si trovava la donna ma anche il fatto che a dividerli dallo spazio esterno c’era solo qualche metro di acciaio, carbonio e vetro. Volavano quei pensieri, arrivavano fino alla Terra, invisibile, ma sempre accanto a loro, come una madre. Una buona madre.

«E’ a quest’ora che è arrivato, vero?», le disse una voce, ma era lontana, non apparteneva a nessuno. Però, sì, aveva ragione: era a quell’ora che era arrivato. Di che si trattasse, non serviva nemmeno parlarne.

Le mani di Veronica, certo non più quelle di una volta ma ancora sorprendentemente lisce e affusolate, si poggiarono sul piano della cucina, impallidite.

«E’ curioso. Darrell me lo diceva sempre, fin da quando era un bambino. Questo era il momento del giorno che preferiva.»

Anche gli occhi di Sliebermann erano ora fissati sul piccolo giardino all’esterno della casa. Era bello, verde. Piacevole. Il respiro del medico, vicino a Veronica, si fece più rilassato e regolare. Sul suo viso, ornato ormai solo da un paio di baffi ingrigiti e sul capo sul quale spuntavano pochi ciuffi di quelli che un tempo erano stati i suoi capelli, iniziò a diffondersi un piacevole colorito.

«Ecco, questa è l’ora in cui i pettirossi cantano più forte,» continuò lei. E con la mano indicò una casetta di legno fissata al platano. Da dentro facevano capolino due uccellini dal becco aguzzo e dal portamento fiero. Lo sguardo di Sliebermann seguì docilmente la linea tracciata dalle bianche dita di Veronica.

«Lo so, Darrell amava questo giardino. Diedi anche una mano a George quando si mise in testa di costruire quella casetta. Figurarsi, un fotografo che armeggia con chiodi, martello e assi di legno... Almeno ho medicato subito le sue ferite...».

Veronica non sorrise. Avrebbe dovuto? Forse.

Si girò, invece, e puntò i suoi occhi chiarissimi sul viso di Sliebermann. Giocava sporco con lui e lo sapeva.

«Quanto durerà, Andy? Quanto reggerà Antonia?».

Il medico si ritrasse di colpo, preso alla sprovvista. Ma fu solo uno scatto all’indietro del collo, perché le gambe e il resto del corpo rimasero fermi, immobilizzati. E tuttavia, riuscì a sostenere lo sguardo di lei.

«Difficile a dirsi. Qui stiamo parlando di psicologia e non di medicina... Potrebbe anche riprendersi del tutto.».

Gli occhi di lei si assottigliarono, divennero se possibile ancora più duri. «Non mi raccontare idiozie, Andy. Sono Veronica, non quella ragazzina piagnona che stai imbottendo di tranquillanti da qualche mese. Quanto reggerà?».

«Oh accidenti, Veronica! Possibile che non lo capisci? Antonia ha perso il marito ed è rimasta sola con Thomas. Non tutti riescono a reggere un trauma come questo.».

Lei non gli rispose, ma lo scavalcò e si diresse verso Thomas. Lo prese tra le sue braccia, lo appoggiò sulla sua spalla e iniziò a cullarlo con tenerezza, facendo sì che anche lui godesse degli ultimi istanti di quella luce. Nel fare ciò, dava nuovamente le spalle a Sliebermann.

«Antonia non è sola. E non è stata l’unica a ricevere un trauma. Lei era al lavoro quando è arrivato quell’ufficiale, quando ha suonato alla porta e mi ha detto che Darrel, mio figlio, era morto in un cratere della Luna di cui non avevo mai sentito parlare prima per colpa di quei dannati secessionisti. E dire che ci sono andata così tante volte sulla Luna, quando lavoravo...».

Sliebermann scosse la testa. Era una di quelle giornate. «Tu sei più forte di lei, Veronica. Tu sei più forte... più forte di tutti noi.».

«Forte... George era forte. Darrell era forte. Li amavo per questo, non riuscivo a fare a meno di amarli. E tu lo sai meglio di chiunque altro. Io sono solo in pezzi.».

«E’ per questo che devi farti aiutare. Conosco dei bravi psicologi, potrebbero aiutare Antonia e anche te.».

A quelle parole, Veronica si voltò. La luce dorata partita dai giganteschi cilindri riflettenti posti al centro dell’agglomerato orbitale, programmata per affievolirsi in maniera naturale, finì con il colpire le pupille della donna e per tornare dritta contro il medico. Ma in lei non vi erano la violenza e la forza di prima, solo un’aria di stanchezza così feroce da togliere il fiato a chi la guardasse.

«Quanto durerebbe la terapia, Andy? Qualche mese, un anno? Abbiamo tutto questo tempo?».

Sliebermann non riuscì a controllarsi. La sua mano si strinse a pugno, le unghie quasi si conficcarono nel palmo. Il massimo che riuscì a fare fu cacciarsela in tasca perché Veronica non la vedesse. Ma lei sorrise e lui comprese che tutto era inutile, come sempre.

«Non sei mai stato bravo a mentirmi. Come quando mi hai detto che la morte di Darrell per asfissia non era stata una morte dolorosa. Te lo ricordi? Tremavi, proprio come ora.».

Il medico abbassò gli occhi, anzi li chiuse proprio. Poi rialzò il capo verso il soffitto riaprendo le palpebre. Era evidente non ci riusciva a guardarla, in quel momento e in quella luce lei assomigliava troppo alla Veronica della gioventù, degli anni felici.

Con infinita delicatezza, Veronica mise il bimbo a sedere sul divanetto che si trovava in cucina e gli diede una leggera carezza sul capo. Accanto a lui, un piccolo soldato coloniale e un’astronave in plastica promettevano mille avventure. Thomas vi si gettò sopra con avidità.

La donna lo guardò per un attimo e poi si riavvicinò al medico. Il semplice tocco della sua mano sul braccio di lui fu sufficiente a fermare ogni tremore. Gli concesse perfino un mezzo sorriso prima di riprendere a parlare, questa volta con un tono molto più rilassato.

«Questo bambino è tutto quello che mi resta di Darrell e in fondo anche di George. E’ troppo prezioso per me. Troppo. E ho paura che sua madre non riuscirà a riprendersi, a tornare ai suoi doveri. Più tempo lasciamo passare, più alta è la probabilità che lei sviluppi una dipendenza dagli ansiolitici. Dobbiamo trovare una soluzione, e in fretta».

Il dottore annuì, incapace di parlare.

La donna tornò a guardare il giardino, in silenzio.

«La vuoi sapere una cosa buffa? Non è un mistero per nessuno che Antonia non mi sia mai piaciuta. Ero contraria a questo matrimonio, ma Darrell era come suo padre e io non ci ho mai saputo fare con quei due. Però non ti ho mai detto il perché della mia antipatia.».

«E’ vero, non me lo hai mai detto.».

«Il fatto è che lei mi assomiglia troppo e la cosa mi preoccupava. Beh, diciamo che assomiglia a come ero da ragazza. Deve essere stato questo ad attrarre Darrell, come George era attratto dalla fragilità che mi portavo dietro dall’adolescenza.»

Sliebermann la osservò, con la fronte corrucciata e solcata dalle rughe. «Fragile, tu?».

«Sì, io,» rispose lei, facendo spallucce. «Mia madre mi viziava, mi coccolava, mi dava tutto. Ed io piangevo per un nonnulla, mi disperavo per le stupidaggini che le mie amiche dicevano su di me, correvo sempre tra le braccia dei miei genitori. Ero una frignona, insomma. Debole, timorosa di tutto e di tutti, senza spina dorsale.».

«Ma poi accadde qualcosa.».

Veronica si lasciò andare a un mezzo sospiro. Mezzo, per carità non di più. «L’incidente. Mamma e papà che muoiono e io che resto qui. Avevo sedici anni. La scossa fu terribile, una secchiata d’acqua gelida. In pochi mesi trovai la forza che non avevo costruito in anni di vita. Decisi di cambiare tutto, di trovare nuove strade, capii di colpo ciò che volevo essere e lo diventai. Però...». Si interruppe, prese a ridacchiare.

«Però?».

«Mah, mi crederai una stupida, ma ci furono dei momenti in cui mi dispiacque essere figlia unica. Avrei voluto avere un fratellino o una sorellina di cui occuparmi. Forse non avrei raggiunto quello che ho raggiunto, ma mi sarei sentita meno sola.»

Ad ogni parola, anzi ad ogni singola sillaba, Veronica sentì i muscoli della testa, del collo, delle spalle perdere forza. Era un peso vecchio di anni che le cadeva addosso e che ora, per la prima volta, sapeva di non essere in grado di sopportare. E ovviamente, proprio ora che ne aveva più bisogno, sentiva anche che il suo corpo stava cominciando a tradirla, iniziando a vacillare ben prima della sua determinazione. In quello stato d’animo, non ebbe il coraggio di respingere la mano che di nuovo Andy stava per poggiarle sul braccio. Quando il medico fece quel gesto, Veronica si appoggiò con tutta sè stessa al sostegno dell’amico.

«Saresti stata magnifica. Come sei stata con Darrell.».

Veronica scosse la testa. «E non è servito a nulla, perché ora lui è morto. Come George. Come tutti. Non è servito a nulla, proprio come la vita che ho fatto prima di sposarmi e che ho abbandonato. Ecco, i miei traguardi e la mia rinuncia ad essi, tutti svaniti, inutili. Gli studi, il primo lavoro alla Andersen, e poi la decisione di andare sulla Luna... fino su Marte... sono andata fino su Marte e poi sono tornata qui nella stessa colonia in cui sono nata, e non è servito a niente...».

Una donna qualsiasi si sarebbe messa a piangere. Veronica si staccò dall’abbraccio di Sliebermann.

Il medico strinse la bocca e con un cenno del capo indicò Thomas, tutto assorto nei suoi giochi. «C’è lui. Ecco a che è servito tutto questo. Il tuo lavoro, i tuoi viaggi, le tue serate ti hanno preparato per l’arrivo di George. Ti hanno portato da lui. Da tuo marito e da te è arrivato Darrell. E anche se ora lui è diventato un soldato e poi è morto, anche se il matrimonio con Antonia fosse stato il più sbagliato dell’intero sistema solare, anche se tutto questo non avesse un senso, c’è lui. Da Thomas non si torna indietro, ti piaccia o meno, proprio come non si poteva tornare indietro da Darrell. Te lo dissi tanti anni fa e te lo dico ancora oggi. E ti capisco.».

Ora anche Sliebermann si allontanò e si diresse verso il bimbo, con una decisione e una luce negli occhi che lasciarono sorpresa Veronica. Non del tutto piacevolmente sorpresa, perché di rado aveva visto il medico muoversi a quel modo e parlare con quel tono. Sentiva di non poterlo gestire in quello stato.

«Ti capisco quando dici che Thomas è fin troppo prezioso per te. Ecco perché, non solo come tuo amico ma anche come medico di questa famiglia o di quel che ne rimane, ti scongiuro: fatti aiutare. Troveremo un modo, una soluzione. Non voglio che la guerra faccia altre vittime in questa casa...».

E mentre lui accarezzava la testa del piccolo, Veronica disse delle parole che pronunciava di rado, molto di rado, soprattutto con Andy. Gliele aveva dette solo una volta, molti molti anni prima, e le conseguenze di quella antica discussione le viveva tuttora. Ma era giusto così, non poteva essere altrimenti.

«Hai ragione, Andy. Da sola non posso farcela a svegliare Antonia dal suo torpore. Troveremo un’altra soluzione. Solo...».

La mano del dottore si fermò e il suo sguardo tornò ad essere dolce, paziente. Il caro vecchio Andy. «Solo?».

«Solo lasciami qualche giorno per pensarci. Sono stanca, e spesso invidio quella poveretta che ora dorme al piano di sopra, lei e tutte le sue medicine. Ti chiamerò io, d’accordo?».

Sliebermann non fece e non disse niente di speciale per celebrare quella piccola vittoria. Anche la sobrietà faceva parte di lui. Veronica lo vide riprendere la giacca lasciata sulla sedia, mettersela sulle spalle senza infilare le maniche come faceva sempre e dare un’ultima carezza a Thomas. Quella scena, così semplice e serena, le fece tornare alla mente vecchie domande, vecchi dubbi, vecchie idee... ma facevano un po’ male, come un paio di scarpe belle ma un po’ troppo strette in punta, e con disinvoltura Veronica le scacciò dalla sua mente.

«Certo, quando vuoi,» disse infine lui, con un sorriso più pallido del vestito chiaro che indossava. «Però riguardati e stammi bene.».

«Per quel che posso, Andy. Per quel che posso.».

Il sorriso del medico si spense. «Già.».

E non disse altro. Uscì, lasciando Veronica sola con il suono della porta che si chiudeva, gli urlettini di Thomas e il giorno che moriva.


Un anno. Dodici mesi, cinquantadue settimane.

Antonia doveva ripeterselo spesso perché per lei, nata sulla Terra, il tempo scandito artificialmente nelle colonie era sempre sembrato strano, uguale a sè stesso. Ma quegli ultimi 365 giorni tutto erano stati tranne che uguali o monotoni.

Il mondo - si corresse, l’intero sistema solare - era stato rivoluzionato da capo a fondo. Non che la realtà al di fuori di sè fosse cambiata più di tanto: la guerra continuava, gli scontri sulla Luna tra lealisti e secessionisti infuriavano e perfino alcune colonie avevano cominciato a ribellarsi. Suo figlio Thomas cresceva e suo marito Darrell era ancora morto.

Ma dentro di lei nulla era più come prima.

Prese una bella boccata d’aria, si riaggiustò la lunga coda di capelli neri dietro la nuca e spostò il peso del corpo da una parte all’altra, cercando di dare un po’ di sollievo alle gambe doloranti per la fatica. Per fortuna le scarpe che portava al lavoro erano più comode di quelle che indossava ora, altrimenti all’ospedale sarebbe durata ben poco. D’altro canto, la tentazione di togliersele e di correre a piedi nudi su quelle belle colline alberate, naturali o meno che fossero, era ben forte in lei. Tuttavia, si trattenne, visto che in fondo si trovava in un cimitero. Meglio, sotto una Collina del Ricordo.

Certo, era un luogo strano, come era strano un po’ tutto nelle colonie. Lì davanti a lei, ben allineate e tutte strette una accanto all’altra, si stendevano file e file di targhette piantate nel terreno. Sopra di esse un albero, più grande o più piccolo a seconda del tempo trascorso dalla scomparsa della persona. Sotto, un’urna, nella quale i resti obbligatoriamente cremati dei defunti riposavano in pace e nell’economia generale delle risorse disponibili alla colonia. In effetti, e questa era stata una delle prime cose che Antonia aveva capito al suo arrivo, lo spazio in un cilindro rotante incastrato nel nulla che corre tra la Terra e la Luna era più prezioso dell’aria.

La donna riprese a camminare, pur se senza alcuna fretta. D’altronde, la persona che era venuta a trovare non sarebbe andata da nessuna parte. Il sentiero saliva dolcemente e Antonia lasciava scorrere la sua mano sulla semplice ringhiera di legno che lo costeggiava. Fu quando oltrepassò l’ultimo dosso che vide l’uomo.

In piedi, la testa quasi completamente calva chinata verso il basso. La giacca, di un bel color crema chiaro, era solo appoggiata sulla schiena e le maniche vuote si muovevano liberamente alla gentile brezza generata dal sistema meteorologico della colonia. La sua posa, il suo modo di vestire, il silenzio assoluto che regnava nel luogo accentuavano l’apparente fragilità di quel vecchio e distinto signore, fermo a pensare. E a ricordare.

Antonia non ne era sorpresa. Lo aveva visto quella mattina stessa al lavoro e lo conosceva ormai troppo bene. Sapeva che non sarebbe mancato a quella ricorrenza, sapeva che lo avrebbe ritrovato davanti alla targa che anche lei stava cercando.

La targa di Veronica.

«E’ passato già un anno,» disse Sliebermann non appena lei gli si fece vicina. Antonia non udì nella sua voce un tono di particolare sorpresa o di rimpianto. Lo aveva detto e basta, perché così era.

«Sì,» esclamò la donna, «Un anno.».

Il dottore, come se si rendesse conto solo allora della presenza di Antonia, staccò gli occhi da quelle lettere incise nel metallo e dal piccolo platano, alto non più di un metro, che le copriva a malapena con la sua ombra.

«Antonia... sono felice di vederti.».

La donna gli sorrise, ma senza lo stesso entusiasmo. Perché seppure anche lei fosse felice di vedere quel caro amico di famiglia, il suo aspetto la preoccupava. Proprio in quell’ultimo anno, le rughe presenti sulla fronte dell’uomo si erano fatte più profonde, la palpebra dell’occhio destro si era abbassata di qualche millimetro e in generale tutto in lui si era fatto più grigio, più triste, più debole. Come se la morte di Veronica fosse stato il cedimento dell’ultimo mattone di quel muro invisibile che teneva un uomo tanto attivo al riparo dalle conseguenze più crudeli della vecchiaia. Certo, Sliebermann non si era mai risparmiato prima di allora e ancora adesso continuava sulla stessa strada, rifiutandosi con ostinazione di lasciare il lavoro, impegnandosi in cento nuovi progetti. Eppure, nonostante la sua foga, da mesi ogni azione di quell’uomo appariva agli occhi di Antonia come fine solo a sè stessa, sempre più vuota di significato. In altre parole, inutile.

«Ne sono successe di cose in questi mesi...» proseguì lui, e l’improvviso silenzio calato sui due fu subito rotto. «Dimmi, ti trovi bene all’ospedale?».

Antonia annuì con decisione. Per quanto fosse faticoso, quel lavoro era stato la sua salvezza, senza alcun dubbio. «Certo. E devo ringraziare lei per questo.».

«Lascia stare. Devi ringraziare solo te stessa. Sei riuscita in qualcosa di veramente importante, Antonia. Sei riuscita a riprendere il controllo, superando il dolore e i lutti che ti hanno colpito. Il lavoro all’ospedale è stato la conseguenza di questa tua vittoria, non la causa.».

«La conseguenza...», ripetè a bassa voce Antonia. Lo sguardo si perse tra i riflessi della luce sulle giovani foglie del piccolo platano. Poteva esistere qualcosa di più verde di quelle foglie nell’universo? «Forse. Mi chiedo allora quale sia stata la causa, dottore. Alle volte...».

«Alle volte?». Sliebermann la stava guardando di nuovo. E per un istante il suo fu il solito sguardo vitale di qualche tempo prima.

«E’ strano, però... alle volte penso che senza l’ulteriore choc della morte di Veronica, se fossi potuta rimanere chiusa nella bolla di dolore che mi ero costruita da sola, se non fossi diventata improvvisamente l’unico sostegno per Thomas...».

«Thomas, già!» esclamò, a voce un po’ troppo alta per quel luogo, il dottor Sliebermann. «Come sta il piccino?».

«Bene, molto bene. Cresce... bah, non smette mai di crescere! Adesso è da Cynthia.. se non ci fosse lei non so proprio...».

Sliebermann alzò il sopracciglio e un angolo delle labbra, formando un’espressione a metà tra il sorpreso e il divertito. «Cynthia? La sorella del sergente Madison?».

Antonia non ce la fece a trattenersi. Non ci riusciva mai, quando si trattava di Patrick. Del sergente Madison. Che era stato ricoverato tre mesi prima per le ferite ricevute nella battaglia del Mare della Tranquillità. Che Antonia aveva curato, seguito e accudito anche con doppi turni, quando necessario. Che aveva continuato a vedere anche dopo che era stato dimesso. Così, per aiutarlo nella riabilitazione. Beh, sì... Patrick, insomma.

«Lui... il sergente Madison... sta meglio, sa, dottore? Il braccio si è adattato alla nuova protesi e la mano artificiale risponde molto bene agli impulsi nervosi. Il mio aiuto...».

«Il tuo aiuto gli sarà stato senz’altro prezioso, Antonia,» commentò il dottore, sforzandosi di non ridere.

Per poco, anche Antonia non cedette a quell’improvviso refolo di gioia. Una emozione che negli ultimi mesi aveva ripreso ad assaporare, pur se con una certa prudenza. Ci voleva tempo, certo, ma anche molta forza per ricominciare a provare qualcosa di bello. Ma c’erano altre cose per le quali doveva essere forte.

«Dottore, sono contenta che lei sia qui. Sarei passata da lei oggi pomeriggio, nel suo ufficio, però forse questo posto è ancora più adatto.».

Sliebermann si voltò verso la donna, questa volta non solo con la testa ma con tutto il corpo. «Dimmi, ragazza mia. E’ qualcosa di grave?».

Antonia scosse la testa. Poi abbassò gli occhi e infine, dopo qualche secondo interminabile, infilò la mano nella grande borsa verde che portava sulla spalla e ne estrasse degli oggetti strani, dalla foggia antica e dall’aria molto preziosa. Lettere ancora scritte sulla carta.

«No, non è qualcosa di grave, dottore. E’ qualcosa di... bello...».

Sliebermann afferrò con insospettabile rapidità quei vecchi fogli ingialliti, ma già sapeva di cosa si trattasse. Ciò nonostante, al semplice contatto con la carta la sua mano iniziò ugualmente a tremare.

«Come...».

«Ho fatto risistemare la casa il mese scorso. E gli operai, nel fare i lavori, hanno trovato queste lettere dietro un battiscopa. Ma le assicuro che non le hanno aperte, anzi me le hanno consegnate subito perché ero presente. Quasi non sapevano cosa fossero...».

Il medico aprì uno di quei foglietti accuratamente ripiegati con la stessa cautela che avrebbe impiegato nell’aprire la cassa toracica di un paziente. Ma la richiuse subito, perché quei pochi tratti d’inchiostro blu, cicatrici di antiche ferite, infliggevano al suo petto fitte di dolore così forte da toglieregli il fiato.

«Credevo le avesse distrutte... Le scrivevamo sulla carta perché non volevamo che George le trovasse nel computer di Veronica. Io... lei...».

Antonia gli si fece vicino e ne prese la mano. Il tremore si arrestò.

«Dottore, la prego. Non deve giustificarsi di niente. Vi amavate...».

Sliebermann, apparentemente rinfrancato, annuì. «Sì... Voleva lasciare George per me. Fuggimmo insieme per un finesettimana sulla Terra, dopo che aveva già detto a suo marito che lo stava per lasciare. Poi io stesso scoprii che era in attesa di Darrell e mi accertai che il bambino era figlio di George. A quel punto, la convinsi per il bene del piccolo a non distruggere la famiglia. Mi urlò contro, per una notte intera... Io non sono mai stato in grado di tenerle testa, sono sempre stato in affanno con lei, ma quella volta no. Quella volta tenni duro. Le promisi che le sarei sempre rimasto vicino... sempre vicino... sempre... Però, quando Darrell è morto, lei... e anche io... abbiamo pensato che fosse stato tutto inutile... Che il nostro sacrificio non fosse servito a nulla. E’ stato forse tutto inutile, Antonia?».

La donna provò l’impulso di abbracciarlo ma si trattenne, spinta a ciò dal pudore che una poco più che trentenne non può non provare nei confronti di un anziano che le stia crollando psicologicamente davanti agli occhi. Però fece qualcosa di meglio che abbracciarlo con il corpo, decise di farlo con le parole, non solo per lui ma per tutto ciò che quella famiglia era stata e che sarebbe stata ancora in futuro.

«Non è stato tutto inutile. C’è Thomas. La nostra speranza. La guerra finirà, e lui vedrà la pace. Grazie a lei, dottore, grazie a George, a Darrell... e anche grazie a Veronica. La capisco bene per essersi innamorato di lei nonostante tutto e la ammiro per aver trovato la forza di rimanerle accanto nella maniera più giusta. Era una gran donna.».

Sliebermann si girò ancora, questa volta in silenzio. Distogliendo con delicatezza la mano dalla dolce presa di Antonia, la portò ad accarezzare le foglie del platano di Veronica. Erano tenere, all’apparenza fragili. Ma sarebbero cresciute, vigorose e alte come quelle degli alberi più antichi di quelle colline.

Ad un tratto, qualcosa suonò. Antonia si portò rapidamente il polso sinistro davanti agli occhi e il bracciale dorato che indossava iniziò a lampeggiare. Poi alcune lettere si materializzarono a mezz’aria.

«Oh, che stupida! Non mi sono mai abituata a quanto in fretta passa il tempo su queste colonie... sono già le quattro e devo correre da Cynthia a riprendere Thomas! Io... io la saluto, dottore, a domani!».

Ad ogni parola, la voce di lei giungeva più lontana alle orecchie di Sliebermann, sia perchè la donna si era già messa a scendere di corsa dalla collina sia perchè le cose importanti erano già state dette. Il vecchio medico non la salutò direttamente, rimase chino sopra l’alberello e fece solo un distratto cenno con la mano per salutare il commiato della giovane.

Poi, quando fu certo che Antonia non fosse più in linea di vista con lui, quando il silenzio riprese a regnare sulla Collina del Ricordo, si chinò e poggiò delicatamente le lettere accanto alla targa con sopra scritto il nome di Veronica, assieme ad un altro oggetto, che aveva tenuto accanto a sè per tutti quei mesi.

Un barattolo di pillole rosa.

«A quanto pare, oggi è il giorno in cui i segreti vengono svelati,» sussurrò. «Adesso è il mio turno, Veronica. Io l’ho capito subito. Non ti ho più visto dopo quel pomeriggio, dopo quel tuo tramonto. Ma quando mi hanno comunicato che te n’eri andata, ho pensato che non si trattava altro che della tua ennesima mattata. Poi l’autopsia me lo ha confermato: ormai erano settimane che non prendevi più le tue medicine per l’avvelenamento da radiazioni. Saresti vissuta ancora un altro anno, forse due... Comunque, questa volta avevi ragione tu. Quella ragazza è a posto, adesso, e si è ripresa grazie al tuo sacrificio. Le hai tolto il lusso di pensare, di ricordare, di sentire qualsiasi cosa che non fosse Thomas e l’hai costretta ad andare avanti. Brava, ha funzionato. Solo che...».

Sliebermann si interruppe. Da qualche tempo in qua, gli ci voleva un po’ più di fiato del solito per rialzarsi in piedi. Ma anche mentre le sue gambe in qualche modo si raddrizzavano, i suoi occhi rimanevano fissi sul nome della donna che aveva amato per tutta la vita. «Solo che la ragazza si sbaglia. Tu sei stata di più che una gran donna. Tu sei stata una buona madre.».

E mentre un vecchio voltava le spalle ad un suo possibile passato dirigendosi a passi lenti verso quel che restava del suo presente, il silenzio della collina entrò come in risonanza con l’immane ed eterno silenzio dello spazio, nel quale la colonia roteava senza sosta, danzando intorno alla madre Terra.



Nota dell'Autore: Eccoci qua, anche questo racconto (non tanto) breve è completato. Si tratta solo del primo assaggio dell'universo persistente da me denominato "Radiant" (e un giorno scoprirete il perché di questo nome...) nel quale vi porterò spesso con i miei racconti di fantascienza. Un'ambientazione in cui la razza umana ha sì colonizzato buona parte del sistema solare, ma in cui le sfide che tale evoluzione storica e psicologica ha scatenato rischieranno di portarla all'autodistruzione.

Fedele agli insegnamenti di quelli che considero i miei autori "di riferimento" (Heinlein, Bradbury e Dick primi tra tutti), cercherò di mantenere la mia attenzione sulle persone più che sui fatti (Nieztsche diceva sempre che il fatto è stupido, e io sono d'accordissimo con lui), sugli individui più che sui grandi eventi. Eppure di cose ne accadranno, statene certi!

Grazie per essere arrivati fino a qui e ci rivediamo alla prossima storia.

   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantascienza / Vai alla pagina dell'autore: _Sinclair_