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Autore: damaarwen    05/12/2007    4 recensioni
- “Cosa c'è di così importante nei suoi ricordi? Cos'è che non vuole dimenticare?" chiede con la sua voce profonda e sottilmente sensuale.
Abbasso il viso, costringo il mio sguardo sul pavimento gelato, unica via di fuga da una domanda che mai nessuno mi aveva rivolto.
- “ Nuvole di fumo speziato, e il suono di una dolce canzone.” Sussurro mentre una lacrima riga il mio volto confondendosi nell’oscurità della notte.E' vietato inserire il tag br alla fine o all inizio di una trama. Ladynotorius
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: damaarwen (settembre '07-dicembre '07)

Genere: Introspettivo, romantico, drammatico

Personaggi: Severus Piton, Nuovo Personaggio

Pairing: Severus Piton/Nuovo personaggio

Avvertimenti: Nessuno

Riassunto: Una giovane donna che vive nel passato e un uomo dall'anima scura si incontrano, lasciando ai loro occhi l'arduo compito di raccontarsi una triste storia.

Disclaimer: I personaggi e i luoghi di questa storia non appartengono a me, ma a J.K Rowling. Il personaggio originale di Hlya, è invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito consenso per pubblicare altrove questa storia o parte di essa.

Nota: Questa storia è stata pensata parecchio tempo fa, pur essendo stata scritta di recente. Non tiene quindi conto degli avvenimenti degli ultimi tre libri della saga. Mi sono comunque presa alcune piccole libertà sulla trama, al fine di dare un corpo più rotondo all'intera storia. Il personaggio di Severus Piton è quello che appare ai miei occhi, quello che immagino poco prima di dormire, potrebbe pertanto, in alcune circostanze, non rispettare esattamente alcuni lati del suo carattere.

A mio padre, per la persona meravigliosa che è...e per avermi insegnato ad essere libera. Con tutto l'amore che c'è.

DIETRO L'OMBRA DEL TUO DOLORE

Non ricordo molto di quella notte.
C’era fango dappertutto e l’odore acre del sangue invadeva le mie narici soffocandomi.
La vecchia radio della nostra auto gracchiava qualcosa di incomprensibile, mentre gruppi di uomini, vestiti di un arancione brillante, correvano su e giù trasportando barelle e urlando cose che non riuscivo a capire.
Ricordo il fumo, il rumore, la puzza.
L’immagine puntinata della polvere sottile che fuoriusciva dalle bocchette dell’aria calda proprio sotto il parabrezza.
Ricordo mio padre intento, come sempre, nel suo frenetico lavoro, correre verso una sporgenza del terreno.
E’ così che lo ricordo, la sua ultima immagine sfocata, tutto ciò che mi resta.
Restavo ferma, immobile, a guardare sfilare i corpi senza vita di troppe persone.
Eravamo capitati lì per caso, avevamo sentito un grande frastuono e poi urla, polvere. Nient’altro.
Mio padre aveva fermato la macchina.
- “ Resta qui! Stai tranquilla, andrà tutto bene!”
Me le ricordo ancora quelle parole. Sono state le ultime.
Poi l’ho visto sparire, nascosto dalla polvere e dal rosso dell’ultimo sole che tentava invano di spegnersi dietro l’orizzonte, l’ho visto perdere i contorni nitidi dietro l’adesivo sbiadito della croce di medico che troneggiava sul parabrezza della vecchia Ford blu cobalto.
Avevo paura, tanta paura.
L’avevo sempre quando mio padre non era con me.
Non avevo nemmeno provato a supplicarlo di restare.
Quello era il suo lavoro, e vederlo correre a salvare tante vite mi aveva sempre resa orgogliosa.
Quella volta avrei dovuto pregarlo, forse qualcosa avrebbe potuto essere diverso.
I miei ricordi sono confusi, il fumo di quella orrenda notte sembra coprire sbiadite immagini vecchie di anni, lasciandomi scorgere solo piccoli frammenti di paesaggi sfocati.
Ero ferma in macchina, papà mi aveva detto così.
Scrutavo l’orizzonte con i miei occhi speranzosi di bambina, sapevo che da un momento all’altro sarebbe spuntato sorridendo dalle lingue dense del fumo, mi sembrava quasi di vederlo.
Poi, all’improvviso, dei colpi, delle risate, e lampi di luce verde che striavano il cielo.
Un gruppo di uomini incappucciati prese il posto dell’immagine di mio padre sbucando da quello stesso fumo denso di polvere.
Ricordo la paura, ricordo l’improvviso impulso di scendere da quella macchina che mi sembrava troppo vicina alle loro maschere argentate.
Mi sono trovata fuori, al freddo.
Intorno era tutto rosso, non era più il tramonto, era fuoco.
Ricordo che capii, in quell’istante, che non avrei mai più rivisto mio padre.
Ricordo la mia macchina isolata in mezzo ad una radura troppo grande, una radura che non poteva nascondermi.
Erano lì, a pochi passi da me.
Mi avrebbero preso, mi avrebbero ucciso.
Che innocenza! In quel momento fui solo felice di poter raggiungere il mio papà in quel mondo fatto di nuvole e di azzurro dove sapevo che mi stava aspettando.
E’ fantastico come i bambini riescano a trovare del buono in tutto, persino nella morte.
Di questa capacità non mi è rimasto quasi nulla.
Ricordo di aver chiuso gli occhi, di aver atteso qualcosa che non conoscevo ma che sapevo sarebbe arrivato.
Ho aspettato, ho aspettato ancora.
- “ Qui non c’è più niente!” ha sibilato una voce fredda sopra la mia testa.
Ho aperto gli occhi, sapevo di essere stata vista, ma sapevo nello stesso tempo che non avrei raggiunto il mio papà, non in quell’istante.
Ho alzato lo sguardo.
Due occhi neri, profondi come la notte più scura mi hanno scrutata, e, impercettibilmente, mi hanno sorriso chiedendomi perdono.
Non ricordo nient’altro, solo i lampioni rotti, il pianto nella gola, il silenzio, e un elegante ondeggiare di mantello nero.




CAPITOLO 1

C’è morte, morte ovunque.
Dalla linea arrossata dell’orizzonte si sollevano lingue di fumo denso e grigio che disegnano il cielo dei loro cupi arabeschi.
Tra le rovine e gli scheletri di cemento si ammassano corpi senza vita, straziati da un’esplosione ancora troppo recente.
Ho perso lo sdegno, la paura, il ribrezzo.
Supero corpi martoriati, scavalco cadaveri cercando disperatamente un’ombra di vita tra tutto questo assurdo dolore.
Ho già vissuto tutto questo, era una notte di tanto, tanto tempo fa.
Inseguo i lamenti, li trovo, e scavo, con le mie mani ancora troppo morbide, in mezzo a questa polvere urticante e bollente.
Ancora nessuno sa cosa sia successo, siamo tutti qui a cercare una spiegazione, lottando per riuscire a salvare almeno una vita.
Ma c’è qualcosa di strano in mezzo a tutto questo straziante orrore. Lo sento, lo so.
E quel ricordo di bambina serpeggia nella mia mente, c’è lo stesso odore, la stessa polvere impalpabile.
Sono un medico, come lo era mio padre, sono un medico da sempre, da una fredda notte di ottobre di tanti anni fa. Sapevo cosa avrei dovuto fare e l’ho fatto.
Sapevo cosa faceva mio padre, quell’uomo meraviglioso che era stato per me guida e rifugio, quell’uomo che era morto facendo quello che amava, quell’uomo che anche davanti al più profondo dolore aveva saputo donare un sorriso.
Sono un medico da sempre, ma non ero preparata, non a questo.
Dover prendere decisioni tremende, troppo difficili.
Decidere chi vive e chi muore, decidere a chi salvare la vita.
Dio deve fare questo, non io.
Cancello frettolosamente il viso sorridente di mio padre dalla mia mente, non ci riesco, sono passati anni, ma non ci riesco. Quel dolore è ancora troppo forte.
Mi sono salvata in quella notte d’inizio inverno, ricordo ancora quegli occhi, neri come l’ossidiana, mi sembra di vederli dietro ogni angolo, di riconoscerli in ogni sguardo. Vivo da anni nella disperata ossessione di poter rincontrare quello sguardo di ghiaccio scuro che mi ha permesso di vivere.
Non so se ringraziarlo o maledirlo per quello che ha fatto. Ancora non lo so.
E ora sono qui, ad osservare migliaia di occhi imploranti, devo scegliere.
Non posso salvarli tutti, lo so.
E allora individuo chi ha più speranza di vivere e gli rivolgo le mie cure.
Verrò mai perdonata per questo?

E’ arrivata la sera, finalmente il tramonto sostituisce, con la sua naturalezza, il rosso impietoso di questa grande esplosione.
Il bilancio è tragico.
Migliaia di persone sono morte oggi.
Troppo poche sono state salvate.
Quante, quante avrebbero potuto esserlo, se solo avessimo avuto i mezzi, se solo ci fosse stato qualcuno in più ad aiutarci?
Ho paura di farmi questa domanda.
Ho fatto tutto ciò che era possibile fare? L’ho fatto davvero?
Spero di si, lo spero con tutte le mie forze.
Perché se così non dovesse essere nessun perdono potrebbe più salvarmi dalla sentenza della mia anima.
La porta della tenda si apre di colpo e parte di quell’orrore torna ad invadere le mie narici, l’odore è insopportabile, il ricordo è insopportabile. E’ tutto troppo simile, troppo dannatamente, maledettamente simile ad una tragica notte di sedici anni fa.
- “ Dottoressa Foster?”
La voce di Stevenson, il volontario che ha lavorato con me dalla mattina precedente, sovrasta il rumore lontano delle ultime sirene.
Sollevo lo sguardo e lo punto nel suo.
E’ un ragazzo giovane, penso non abbia ancora diciotto anni, ma i segni di questo giorno hanno scavato anche la sua pelle, ancora arrossata da un’acne appena scomparsa.
- “ Ci sono alcune persone che vorrebbero parlarle.” Dice scansandosi leggermente per permettermi di osservare i miei possibili ospiti.
Sorrido, più per cercare di togliere quell’aria spaventata dal suo volto che per reale convinzione.
- “ Va bene, falli entrare.” Rispondo dopo aver scorto un anziano signore dalla lunga barba bianca.
Mi alzo cercando di riprendere il colore che so scomparso dalle mie guance.
Mi sistemo i vestiti, irrimediabilmente sporchi di terra e calcinacci, aggiusto i capelli in una coda di fortuna.
Giusto il tempo di voltarmi ed ecco, la tenda si apre, la polvere invade nuovamente l’aria e le alte figure di due uomini perlomeno singolari conquistano il mio campo visivo.
- “ Dottoressa Foster.” L’anziano uomo accenna un inchino d’altri tempi, mentre il suo compagno rimane immobile ad osservarmi.
Non so cosa stia succedendo, ma percepisco chiaramente qualcosa di strano.
Sorrido comunque, cercando di non tradire alcuna emozione, cercando di sostenere quegli sguardi sottilmente indagatori.
Allungo la mano cercando quella dell’anziano signore che continua a guardarmi con i suoi grandi occhi azzurri incredibilmente vecchi.
- “ Piacere, Hlya Foster. Come posso esservi utile?” Dico sorridendo tirata.
- “ Piacere, Silente, Albus Silente.”
Stringo la vecchia mano segnata dal tempo.
Strane immagini invadono la mia mente al contatto con la sua pelle increspata, qualcosa di nascosto e di misterioso si nasconde in quello sguardo di cielo, qualcosa che non riesco a distinguere.
Allungo la mano verso l’altro uomo, è vestito di nero, completamente.
Un’elegante casacca dai bottoni di raso cinge il suo petto tirando leggermente sull’allacciatura.
C’è un contrasto così netto tra i suoi abiti perfetti e l’orrore alle sue spalle, sembra irreale.
I capelli, gli occhi, tutto di quest’uomo è nero, perfino la sua anima, lo sento.
Faccio un passo in avanti cercando anche la sua mano.
- “ Piton, piacere.” Sibila la sua voce fredda.
Un brivido mi percorre la schiena. E’ così strano, quella voce, sembra quella con cui parlano i miei sogni.
Sorrido osservando quegli occhi incredibilmente profondi ed innegabilmente tristi, mentre un altro brivido di paura solletica la mia schiena nel disperato tentativo di indurmi a non fare domande.
Ma le domande ci sono, sono troppe.
Mi premono nel petto fino a farlo quasi esplodere.
Qualcosa di strano è successo qui, qualcosa di innaturale, di terribile, di immensamente malvagio. Qualcosa che era già successo tanto, tanto tempo fa.
Quelle morti, quel dolore, non potevano essere frutto dell’assurda follia di una mente umana, c’era qualcosa di più forte, di diabolico, qualcosa che pervadeva l’aria rendendola irrespirabile.
Io lo sentivo, lo sentivo chiaramente, mentre ero là a lottare contro una morte troppo forte. Lo avevo sentito anche quella notte. Lo avevo sentito, non appena la mia macchina era giunta sul luogo di quello che tutti chiamavano incidente.
Non era un incidente, non poteva esserlo.
Era studiato troppo bene, troppo calcolato.
Le persone che erano morte dovevano morire, le persone che erano salve dovevano vivere.
Questo lo so, lo percepisco chiaramente.
Guardo ancora gli occhi neri di quest’uomo che mi osserva con apprensione, un altro brivido, un’immagine sbiadita, e poi una fitta, forte, alla tempia destra.
Una dolce sensazione, qualcosa che scivola tra i miei pensieri lenendone il dolore.
Ho paura, ancora.
Distolgo lo sguardo.
Perché, perché mi sembra tutto così strano?
Mi volto verso il bancone di legno, il mio tavolo di fortuna.
So che non devo più permettergli di guardarmi.
- “ Posso offrirvi qualcosa da bere?” la mia voce leggermente spaventata taglia l’aria tutt’intorno.
Un attimo di silenzio, vorrei girarmi, ma so che non devo farlo.
- “ La ringrazio, se avesse un bicchier d’acqua.” Il timbro cristallino dell’anziano signore risuona dolce all’interno della mia vecchia tenda.
Mi volto a guardarlo mentre il suo sorriso stride fortemente con le grandi rughe di insopprimibile tensione che gli incorniciano lo sguardo.
Sembra quasi che stia facendo di tutto per mettermi a mio agio,e, incredibilmente, anche se scopro perfettamente il suo gioco, ci sta riuscendo.
- “ Prego, accomodatevi.” Dico accennando un sorriso palesemente forzato.
I due uomini prendono posto sulle sedie logore che la mia momentanea abitazione è in grado di fornire, mentre le mie mani, leggermente tremanti, riempiono due bicchieri di plastica bianca dell’acqua fresca, gelosamente custodita nel frigo da campo.
- “ Allora, di cosa volevate parlarmi?” chiedo tradendo una riflesso di ansia.
L’anziano signore dalla lunga barba bianca si sistema meglio sulla piccola poltroncina pieghevole.
- “ Ha notato qualcosa di strano dottoressa? In questa esplosione intendo. Qualcosa che abbia catturato la sua attenzione?”
Mi aspettavo quella domanda, sapevo che sarebbe arrivata.
Guardo ancora quegli occhi cristallini troppo invecchiati, so che non dovrei farlo, ma qualcosa di quell’uomo mi ispira fiducia.
- “ Si, ho notato molte cose strane. Ma questo lo sapete già, immagino, altrimenti perché venire qui a chiedermelo solleticando in me il dubbio?” Sorrido, cercando di sembrare calma.
Sorridono anche loro.
- “ Si, effettivamente, questo lo sappiamo già. Ma vorremmo comprendere meglio cosa ha notato e se, eventualmente, ha messo qualcuno a conoscenza delle sue impressioni.”
Lo guardo attentamente, socchiudendo gli occhi per cercare di mettere a fuoco il suo viso nella fioca luce della squallida lampadina impolverata.
Si, è vecchio, incredibilmente vecchio.
La sua barba, lunga e argentata, i suoi vestiti, troppo banalmente normali.
Qualcosa non va, quella stessa sensazione che avevo sentito poche ore prima torna a invadere nuovamente il mio petto.
Abbasso lo sguardo un istante per rialzarlo poco dopo puntandolo in quello nero e profondo dell’uomo che mi siede praticamente davanti.
I suoi occhi, i suoi occhi sono troppo neri, sono troppo lucidi, sembrano specchiare ciò che ha intorno, sembrano quasi privi di vita.
Eppure, nel profondo di quello sguardo incredibilmente scuro, qualcosa arde senza sosta.
Mi sembra così assurdo, ma quello che scorgo è tanta, troppa tristezza.
Perfettamente nascosta sotto pesanti strati di forzata indifferenza, ma che dai suoi occhi sfugge incontrollabile.
Un altro brivido, poi l’ombra di un ricordo.
Forse non dovrei farlo, so che non dovrei, ma qualcosa di quei due uomini riesce ad infondermi fiducia, quella sensazione che fino a pochi istanti prima era stata diffidenza ha lasciato il posto od una sottile eccitazione che increspa la mia pelle scurita dal sole.
- “ C’era qualcosa di troppo perfetto. Era calcolato, l’esito di quell’esplosione intendo.
Esplosione…no, non credo che sia stata un’esplosione.
C’era del fuoco, è vero, ma penso che sia stato acceso dopo.
Sui corpi non c’erano i tipici segni dello scoppio di una bomba, non c’erano schegge, non c’erano ferite.
Presentavano ematomi in un solo punto del corpo, vicino al cuore.
Potrebbe sembrare una bruciatura ad un’analisi superficiale, ma io so che non lo è. O meglio, non è una bruciatura come siamo soliti intenderla.
Solo le persone che sono morte presentano questi segni.
Le persone meno gravi, quelle che ho potuto salvare, non li hanno.
Sono morti solo quelli che dovevano morire!
E poi c’è qualcosa di strano, non so spiegarlo.
Questo odio di cui è invasa l’aria…non è umano.”
Mi fermo un istante portandomi le mani alle tempie.
- “ Perché ho l’impressione che questo non vi sconvolga affatto?” Chiedo puntando il mio sguardo nero dentro quello azzurro del signor Silente.
- “ Ha ragione dottoressa, qui non c’è nulla di umano.” Dice sorridendo tristemente.
Poi, rivolgendosi all’altro uomo.
- “ E’ come sospettavamo Severus, è tornato.”
Gli occhi neri dello strano individuo che mi siede davanti si riempiono di fiamme, fanno quasi paura.
Si alza in piedi stringendo i pugni, sembra che si stia conficcando le unghie nella carne, cammina lentamente facendo ondeggiare dolcemente i suoi lunghi capelli neri.
Si volta ancora verso di me, mi osserva e sento di nuovo quella strana sensazione, come una lingua di liquido denso che scorre nella mia mente.
Chiudo gli occhi di scatto.
- “ Non lo faccia più!” grido.
Li riapro cercando di non incrociare i suoi e percepisco chiaramente un palpabile stupore.
- “ Lo ha già fatto prima, quando è entrato. Non lo faccia più!”
Vedo gli sguardi dei miei due interlocutori cercarsi frettolosamente, li vedo vagare stupiti sul mio volto accigliato.
C’è qualcosa di strano, di troppo strano.
- “ Chi siete?” chiedo frettolosamente.
Il vecchio signore mi osserva con un leggero sorriso, vano tentativo di nascondere il suo timore.
- “ Siamo qui per scoprire cos’è successo.” Risponde abbassando lentamente lo sguardo.
- “ Non vi ho chiesto perché siete qui, vi ho chiesto chi siete!” ribatto infastidita dai suoi modi evasivi.
L’uomo vestito di nero si avvicina all’altro dalla lunga barba bianca.
- “ Andiamo.” Lo sento sussurrare.
Si voltano di scatto dirigendosi verso l’ingresso della tenda.
Faccio un passo in avanti, poi un altro, un altro ancora. So che non devo lasciarli andare via, non so il perché, ma non devono uscire da questa tenda, non senza avermi spiegato.
- “ Voi…voi non siete come me. Vero?” chiedo tutto d’un fiato.
Il vecchio signore si volta, mi sorride dolcemente. Anche l’altro lo fa.
I suoi occhi tornano ad invadere il mio sguardo, neri, neri come i miei, ma più profondi, incredibilmente più profondi.
Una luce bianca, accecante, tutto intorno sembra tremare. Non sento più niente, mi sembra di avere le orecchie piene di ovatta, sento il respiro mancare, i rumori intorno si annullano.
Un’altra fitta.
Ho capito!
Quello sguardo, io, io l’ho già visto.
So dove l’ho già visto!
Freddo, ombre, e ancora luce, tanta, troppa luce.
Poi, di colpo, il suono sordo di una parola sconosciuta.
- “ Oblivion!”

  
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