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Autore: Crysalis    06/12/2007    1 recensioni
Un luogo come tanti, incontri come tanti, sogni d'amore tra le corse degli autobus... sogni che vengono spezzati. schiacciati. (La mia prima pubblicazione^^ Non siate spietati^^)
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi sono sempre piaciuti gli autobus, fin da quando ero bambina e li vedevo passare sotto casa mia.
Però… ora si avvicina il mio ultimo viaggio. Ho vent’anni, e i dottori mi hanno trovato un male incurabile, un fuoco che da vent’anni mi consuma inesorabilmente. Come ultimo desiderio, ho deciso di salire un’ultima volta sull’autobus, il posto dove ho trovato Lui, dove l’ho perduto.

Ma per farvi conoscere i fatti devo cominciare dall’inizio. Pioveva quella mattina, ed io ero riuscita a stento a salire sull’autobus, intrisa di pioggia.
L’autobus quel giorno era pieno, come sempre quando piove. Perciò fui sorpresa di vedere che un posto libero c’era; era a lato ad un ragazzo, che aveva posato l’ingombrante cartella sul sedile vicino, teneva le braccia incrociate e fissava il finestrino appannato senza vederlo, con sguardo freddo e distante.
«Scusa», iniziai, imbarazzata. Il ragazzo mosse il volto e mi guardò, ed io fui paralizzata dal suo sguardo: aveva occhi innaturalmente ampi, di un colore che sembrava riflettere il cielo tetro visibile dietro il finestrino appannato. Rimasi a fissarlo per lunghi e imbarazzati secondi, fino a quando riuscii a spostare gli occhi dai suoi e a guardare il posto occupato dalla cartella. «è occupato questo posto?»
Il ragazzo non mi rispose nemmeno, semplicemente spostò lo zaino e mi fece cenno di sedermi. Sentendomi infuocare, mi sedetti e guardai davanti a me, tormentandomi a tratti i capelli bagnati. Più tardi arrivai alla mia fermata, e scesi senza una parola e senza sperare di rivederlo.
Il giorno dopo il cielo era sereno ma l’autobus sempre affollato, e non si ripeté la fortuna del giorno prima: da quanto vedevo attraverso la massa di studenti, non c’erano posti liberi. Con un sospiro tornai a guardare la strada.
Fui molto sorpresa quando mi sentii tirare la manica e chiamare con un ehi poco cortese, e voltandomi vidi il volto del ragazzo, i cui occhi erano sempre più cupi e sempre più tristi. «Puoi sederti se vuoi», mi disse, indicando con il capo un posto vuoto accanto a lui.
Sorpresa, ringraziai imbarazzata e mi sedetti.
Quella scena si ripeté tutti i giorni per circa un mese, ogni mattina mi chiamava e ogni mattina i suoi occhi erano infinitamente tristi, tristemente infiniti.
Finalmente, dopo circa un mese di Puoi sederti e Grazie, riuscii a dire una frase lunga, e lo feci con il volto in fiamme e gli occhi sbarrati.
«Ehm», cominciai, «Come ti chiami? Io sono Cristina»
«Salvatore», rispose in tono pacato il ragazzo, spostando lentamente su di me gli occhi grigi.
«Piacere. Uh… senti Salvatore, posso chiederti… perché mi riservi un posto ogni giorno? Voglio dire, io…», mi paralizzai, vedendo i suoi occhi indurirsi. Dopo però sulle labbra si dischiuse un sorriso amaro e doloroso.
«Io non ti riservo niente», mi rispose in tono divertito, «Sei l’unica che ha il coraggio di sederti al mio fianco»
«Coraggio?», m’accigliai, vedendo che quel sorriso ironico era un gesto denigratorio verso di se, «Ci vuole coraggio per sedersi accanto a te?»
«Questo è quello che pensa la maggior parte della gente, vedendomi così», disse.
«Così… come?»
«Così solo, triste, accigliato, di cattivo umore insomma», spiegò seccato.
«Mi sembra una cosa stupida», osservai. Il suo sorriso s’accentuò, facendosi più sincero.
«Lo è», ammise. Poi tornò a guardare fuori dal finestrino.
Giorno dopo giorno ci vedevamo, approfondivamo la nostra conoscenza. Lo scoprii in un dolore senza pace, un dolore che non riuscì mai a definire a parole ma che rivelava in piccoli gesti, piccole occhiate significative. E lui vide in me il fuoco che mi bruciava e che cominciava ad essere visibile nel pallore della mia pelle, nell’ombra dei miei occhi.
«Non m’importa», risi io, quando lui mi parlò di quel fuoco, «Bruci pure, divampi e riduca in cenere tutta la mia vita. Non m’importa»
Già. Non mi era mai importato nulla della mia vita, niente di quell’esistenza che consideravo inutile e noiosa, nient’altro.
Ma da quando l’avevo conosciuto, qualcosa era cambiato.
Desideravo che arrivasse il giorno, pur di vederlo. La mia vita ora aveva uno scopo, vivevo per vedere quegli occhi che mi avevano conquistato con la loro tristezza fin dal primo giorno. Ogni giorno la nostra amicizia si faceva più solida, più duratura. Un giorno, Salvatore decise di scendere alla mia fermata. Attraversai la strada davanti all’autobus che stava partendo, incautamente, immersa nei suoi occhi. Ma…
«Attenta!»
Urlando, mi spinse di lato, e l’autobus prese lui anziché me.
«Salvatore!»
Un nome profetico.
Piangendo, vidi il sangue che copioso usciva da un’atroce lacerazione al fianco, dove inutilmente premeva la mano, per fermarne la fuoriuscita.
Agitato, l’autista scese dall’autobus e lo portò sulla vettura, dove io lo seguii, piangendo.
«Salvatore… no», gemetti. Lui mi prese la mano, e mi guardò per un ultima volta. Dopo i suoi occhi rimasero fissi, immobili.
Vuoti.

Ed ora… il fuoco mi ha bruciato del tutto, avverto lo stesso vuoto dentro me. Appoggio il volto contro il finestrino, quello stesso finestrino che fissava la prima volta che lo vidi.
Lentamente, avverto la vita che mi lascia, e sento qualcuno che mi stringe un’ultima volta la mano. Mi volto, mi pare di vedere due occhi grigi… ma non ne sono sicura, perché la vista si va annebbiando.
Mi sono sempre piaciuti gli autobus.
  
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