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Autore: IoNarrante    22/05/2013    10 recensioni
Ven, aspirante avvocato, ragazza determinata, ligia al dovere, trasferitasi a Londra con un unico obiettivo: diventare socia di uno dei più grandi studi legali della capitale.
Il sogno per cui ha lasciato la sua famiglia a Tivoli, salutato tutti i suoi amici, riducendosi a vivere in un piccolo monolocale vicino a Regent Park.
La fortuna però gira dalla parte di Ven, perché le verrà affidato un caso importante e allo stesso tempo spinoso, che la costringerà a collaborare con un avvocato brillante e terribilmente sexy ma che allo stesso tempo rispolvererà alcune sue vecchie conoscenze.
Non è necessario aver letto Come in un Sogno
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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CAPITOLO 19
 
La vibrazione del cellulare sul comodino mi destò da un sonno totalmente privo di sogni. Ricordavo unicamente di essere crollata non appena avevo messo la testa sul cuscino, ed ero sicura che il complice di quella stanchezza fosse stato quello strano Capodanno di cui ricordavo poco o niente.
Una cosa però mi appariva stranamente chiara: il mio corpo appiccicato a quello di Simone nella cucina.
Mi svegliai di soprassalto, mettendomi a sedere con uno scatto, simile a quello dei vampiri risvegliatosi dalle proprie bare, e per poco non persi l’equilibrio rotolando rovinosamente giù dal letto.
Lo evitai soltanto perché qualcuno riuscì ad agguantarmi in tempo.
«È mai possibile che ogni volta tenti sempre di sgattaiolare via dal mio letto?» mi rimbeccò Simone, facendo capolino dalla nuvola di coltri con quei capelli neri perennemente spettinati.
Un lieve velo di barba sfatta gli adombrava il viso, rendendolo “leggermente” più maturo ai miei occhi.
Leggermente, s’intende. Aveva pur sempre quattro anni in meno della sottoscritta.
«Se non l’avessi notato, stavo cadendo… idiota.» sibilai, liberandomi dalla sua presa.
Ovviamente mi accorsi soltanto in ultimo di essere completamente nuda, e solo quando il lenzuolo si abbassò del tutto e mi ritrovai uno sguardo di fuoco di Simone addosso, caddi nel più completo imbarazzo.
Immediatamente mi schiacciai le mani al petto, indignata. «La smetti di fissarmi come un maniaco?» Tentai di coprirmi alle bell’è meglio.
Simone sghignazzò divertito da tutta quella mia pantomima.
«Che hai da ridere, eh? Ti diverte mettermi in imbarazzo?»
Ero stufa di essere presa per i fondelli, soprattutto da un ragazzino impertinente, viziato – stupendamentebravoaletto – e immaturo.
Simone scosse la testa. «Mi diverte il fatto che tu stia facendo tanto per coprirti, quando ieri notte mi hai mostrato più di quanto tu voglia ammettere…» sussurrò malizioso, avvicinandosi.
A quel punto, la vecchia Venera gli avrebbe rifilato un bel ceffone sonoro e avrebbe rimesso il ragazzino in riga, al suo posto, dove avrebbe dovuto essere.
Ma la vecchia Ven non c’era più, ormai era un dato di fatto.
La sera prima, nonostante fossi andata al party con James, avessi condiviso un ballo e una limousine con lui, avevo pensato solo ed esclusivamente a Simone. A quanto mi mancava, a quel vuoto che lentamente si allargava come una voragine nel mio stomaco, a causa della sua lontananza.
Simone continuò ad avvicinarsi lentamente, fermandosi ad un soffio dalle mie labbra.
Con una mano scostò i capelli arruffati che avevo davanti agli occhi, incastrandoli dietro l’orecchio poi mi guardò intensamente.
I suoi occhi bruciavano come la prima volta che lo avevo visto.
«S-Sme-Smettila…» soffiai, stringendomi il cotone del lenzuolo al petto e sentendo le guance tingersi di rosso.
Riusciva sempre a farmi uno strano effetto, a far sì che le mie difese crollassero come un castello di carte. Lui riusciva sempre a trovare l’asso di cuori, alla base della piramide e, sfilandolo, rompeva il muro che mi ero così faticosamente costruita attorno.
«Di fare cosa?» continuò lui, sfiorando con il pollice la mia guancia e cominciando ad accarezzarla.
Una cascata di brividi mi percorse la pelle, increspandola. Era odiosamente strano il modo in cui, con un gesto così semplice, Simone riuscisse a rendermi innocua.
Afferrai saldamente il suo polso e lo bloccai. Mi era rimasto ancora un barlume di lucidità dalla sera precedente e avrei dovuto sfruttarlo.
«Di fissarmi come se fossi una bistecca e tu un lupo affamato da giorni!» Gli scostai bruscamente la mano.
Simone non si offese, né sembrò arrabbiarsi. Sorrise, anzi.
«Auuuuuuuuuuuuuuu!» ululò, rovesciando la testa all’indietro, spiazzandomi completamente.
Un accenno di sorriso affiorò alle mie labbra. Anche se tentavo in tutti i modi di mantenere una maschera di serietà, controllo, di maturità nei suoi confronti, non riuscivo a resistere. Per quanto Simo si comportasse da ragazzino immaturo, certi suoi comportamenti mi facevano sentire più leggera.
«Stai sorridendo,» disse, indicandomi l’angolo delle labbra.
«Chi? Io? No, ti sbagli!» mentii subito, anche se stentavo ancora a trattenermi dal ridere.
«Eccolo! Lo vedo!» ridacchiò felice lui.
Era da tempo che non lo vedevo così spensierato. L’ombra che in quegli ultimi giorni aveva coperto il suo sguardo si era lentamente dissolta.
«Ti sbagli.» Incrociai le braccia al petto. «Magari sto solo ridendo di te,» puntualizzai.
Lui si accigliò giusto un attimo, poi continuò il suo assalto mirato. «Beh allora meriti una punizione…»
E a quel punto mi si avventò letteralmente addosso, imponendo il suo corpo sul mio e costringendomi a “soccombere” sotto di lui.
«Lasciami andare,» gli intimai, seria.
Nessuno mi aveva mai sottomessa in quel modo, soprattutto perché mi reputavo una donna di carattere e capace di tenere i maschietti nel proprio pugno – seppur piccolo.
«No.» Simone era dannatamente serio e quegli occhi non la finivano di sondare il mio corpo con una bramosia che ci mise ben poco a scaldarmi.
Eravamo così noi due, ormai non potevo più negarlo. Due scintille che al primo contatto prendevano fuoco e sarebbero riuscite ad incendiare interi ettari di terreno attorno a loro, facendo terra bruciata di tutto.
Così saremmo finiti noi due, con solo il deserto attorno a noi.
«Simo…» soffiai, sulle sue labbra che lentamente scendevano e si avvicinavano alle mie.
«Ho pensato a quello che mi hai chiesto…» mormorò, fissandomi intensamente.
Sgranai gli occhi rendendomi conto di ciò che gli avevo chiesto la sera prima, quando, nell’ebbro della passione, lo avevo quasi implorato di venire a Tivoli con me.
Ti stai proprio rammollendo…
Avrei voluto scavarmi la fossa da sola e sprofondarci dentro, perché avevo servito a Simone il coltello dalla parte del manico ed ora avrebbe potuto incidermi il petto e cavarne fuori il mio cuore senza alcuna difficoltà.
La mia forza si stava trasformando in una debolezza sin troppo evidente e controproducente.
«…ah sì?» cercai di fare l’indifferente, ma arrivati a quel punto non sapevo quanto ancora sarei stata credibile.
Infatti, Simone mi lanciò subito un’occhiata di rimprovero.
Ormai non riuscivo ad ingannare più nessuno, nemmeno me stessa. Bastava ammetterlo, essere coerenti: mi ero presa una sbandata per un calciatore, nonché mio cliente. Per Simone.
Una cosa che andava contro tutti i miei principi e ciò che avevo sempre sostenuto. Mi eri persa nel mio stesso bicchiere d’acqua.
«Guarda, non hai nessun obbligo verso di me… se non v-» ma lui mi zittì con un profondo e umido bacio. Mi costrinse a schiudere le labbra, ad accogliere la sua lingua calda e a giocarci maliziosamente, cominciando a mugolare di piacere.
Perché era tutto istinto con Simone. Il cervello poteva benissimo essere messo da parte.
Ci staccammo solo dopo alcuni lunghi minuti di coccole. Mi sentivo bene, stranamente bene, come non mi sentivo da anni ormai.
«Dovresti pensare di meno e agire di più,» commentò lui, con un sorriso.
«Me l’hai già detto,» precisai.
I suoi occhi scuri non mi abbandonarono mai e mi sentii leggermente in soggezione sotto quello sguardo così intenso. A dirla tutta, avevo paura. Timore che, come James, Simone avrebbe potuto rifiutare quel mio invito, facendomi tornare a casa da sola.
Non che un ritorno del ‘figliol prodigo’ mi mettesse qualche pressione, solo che avrei preferito affrontarlo con qualcuno accanto. C’era sempre mio padre che non condivideva quella mia scelta di vivere all’estero, lontano dalla famiglia quasi come se lo avessi fatto apposta.
Loro non avevano colpe, era solo che avevo sempre desiderato lasciare l’Italia per qualcosa di più grande, qualcosa che avrei potuto gestire a modo mio.
«Verrò.» Se ne uscì di punto in bianco Simone, stendendosi su di me e appoggiando la testa sul mio petto. Il calore del suo corpo era piacevole contro il mio, così cominciai distrattamente ad accarezzargli i capelli.
«Ti dico subito che se lo stai facendo per pietà, preferisco che tu non venga…» precisai.
Simone alzò di poco la testa, posando il mento nell’incavo del mio seno e mi fissò. «Possibile che non possa mai far qualcosa senza un secondo fine? Mi credi così subdolo?» sorrise.
Feci finta di pensare qualche secondo. «Uhm… sì,» conclusi, ridendo anche io.
Simone, allora, per vendicarsi, cominciò a baciarmi il seno, facendomi rabbrividire e tentai in tutti i modi di scrollarmelo di dosso, ma la verità era un’altra. Ero felice che avesse deciso di accompagnarmi, forse lo ero ancora di più di quanto lo fossi stata se anche James lo avesse fatto.
Non sapevo ancora spiegare cosa provassi per il calciatore, mi sentivo confusa.
Eppure ero sicura che qualcosa c’era. Qualcosa di bello, che mi faceva sorridere, e questo a me bastava.
 
«Si può sapere dov’è finito Leonardo?» sbraitò Celeste per la quattordicesima volta.
Sbuffai e tentai di calmarla. «Ha detto che andava a vedere qualcosa al negozio di souvenir, al centro dell’aeroporto. Tornerà presto…» la rassicurai.
La mia migliore amica sembrava una pazza. Aveva i chiari segni del nervosismo a fior di pelle e in quel caso era sempre meglio starle alla larga: punto primo, capelli in disordine e completamente arruffati, punto secondo, occhi spiritati come quelli di Gollum; punto terzo, la voce stridula che raggiungeva gli ultrasuoni.
«Manca un quarto d’ora all’imbarco! Possibile che dobbiamo sempre farci riconoscere? Come se già non sapessero chi siamo!» sbraitò, per l’ennesima volta.
«Celardo?» suggerì Simone, riemergendo dall’imbacuccamento di quel freddissimo primo Gennaio.
Sia io che Cel gli lanciammo uno sguardo di fuoco.
«Ma tua nonna dov’è?» gli chiesi, notando che alle sue spalle, oltre ai bagagli a mano che avevamo accumulato in un angolo, non c’era nemmeno l’ombra della signora Annunziata.
Simone mi restituì uno sguardo abbastanza confuso. Poi fece spallucce.
Celeste non la finiva di andare avanti e indietro lungo tutta la sala d’aspetto. «Eh, ma quando ritorna, mi sente! Stavolta lo lascio di sicuro… anzi, gli lascio l’orma del mio stivale sulla faccia!» borbottava tra sé e sé.
In quello stato, se le avessi fatto presente che anche la nonnina Sogno mancava all’appello, le sarebbe venuto un esaurimento. Mi sedetti sbuffando sulle poltrone, accanto a Simone di cui s’intravedeva unicamente un ciuffo di capelli castano scuro e un paio di occhi. Aveva la sciarpa dell’Arsenal tutta avvolta attorno alla faccia e il cappello con le orecchie ben calcato sulla testa.
«Ti rendi almeno conto di essere quantomeno ridicolo?» gli domandai, cercando di ignorare i borbottii della mia migliore amica.
Simone sbuffò, o almeno credetti lo facesse. Non si vedeva nulla a parte gli occhi e quel dannato ciuffo di capelli.
Sorrisi.
Anche se era la situazione più strana che avessi mai vissuto, lì a Heathrow, aspettare il volo 28671 Londra – Roma era qualcosa che mi riempiva il cuore di gioia e di aspettativa. Erano sei mesi che non tornavo a casa.
Un po’ avevo paura, dovevo ammetterlo. Avrei rivisto i miei genitori dopo così tanto tempo, dopo averli sentiti unicamente con delle fredde telefonate, anche durante gli auguri di Natale. Avevo sempre detto loro di avere troppo lavoro da sbrigare per poter scendere, eppure adesso mi ritrovavo qualche giorno libero da poter passare in famiglia.
E allora cosa c’entrava Simone?
Il mio cuore fece una lunga capriola all’indietro ed io rimasi con la bocca asciutta.
In effetti, non era sbagliato quel pensiero. Avevo conosciuto il calciatore quasi cinque anni prima, quando con Celeste e Robbeo eravamo volati a Londra per riuscire a ricucire quella specie di relazione tra lei e Leonardo, ma non era successo nulla tra di noi.
Anche perché lui era ancora più immaturo di adesso, pensa te…
Simone era quasi uno sconosciuto, un ragazzo che avevo incontrato per caso dopo tanti anni e con cui mi ero ritrovata costretta a condividere la casa, il lavoro e ogni minuto libero del mio tempo. Di certo non faceva parte della mia famiglia.
«Il volo 28671 procederà con l’imbarco al gate 9, ripeto, il volo 28671 procederà con l’imbarco al gate 9» trillò la voce metallica dell’altoparlante.
L’unica cosa che sentimmo io e Simo, invece, fu lo strillo nevrotico di Celeste che avrebbe mandato giù tutte le Madonne del cielo, se nonna Annunziata non fosse spuntata in fondo al corridoio, tenendo suo nipote per un orecchio mentre lo trascinava verso di noi.
«Te l’ho riportato, raggio di sole,» sorrise la vecchina, imbacuccata tanto quanto il nipote più giovane.
Celeste la abbracciò. «Grazie, grazie!» sospirò felice, poi rivolse un’occhiata gelida al povero Leonardo. «Con te facciamo i conti dopo,» ringhiò.
Mi alzai dalla poltroncina e afferrai il bagaglio a mano, con il biglietto. Mi misi in fila insieme agli altri, seguita dall’omino della michelin – aka Simone – che sembrava dovesse partire per il Polo Nord.
«Ma non ti sei coperto un po’ troppo? A Roma non fa così freddo…» osservai, lanciandogli un’occhiata scettica.
Lui tentò di rispondermi, ma ne uscì unicamente un farfugliamento ostruito da quella sciarpa avvolta attorno alla faccia una quindicina di volte. Dentro di me mi chiesi quanto potesse essere lunga…
«Lo fa per nascondersi dalla “folla”,» intervenne per lui Leonardo, massaggiandosi l’orecchio destro che la nonna prima, e la fidanzata dopo, gli avevano massacrato. Era diventato più rosso di un pomodoro maturo e sospettosamente gonfio.
«Ha paura che tutti gli chiedano un autografo, che lo fermino al rullo dei bagagli, che lo assalgano con le foto… non si rende conto che per gli italiani è quasi uno sconosciuto.» ridacchiò.
Simone tentò invano di protestare, ma quello che uscì dalla sua coltre di indumenti fu solo una serie di borbottii attutiti dalla lana e dagli strati del piumino che aveva addosso.
«Come volere tu, uomo delle nevi!» lo derise Leonardo, massaggiandosi ancora l’orecchio dolorante e raggiungendo Celeste che non mancò di rifilargli un’occhiataccia.
Rigirandomi la carta d’identità tra le mani, pensai a ciò che aveva appena detto Leo. Non avevo minimamente pensato alla reazione che gli altri avrebbero potuto avere vedendo Simone, a cosa, un paese piccolo come Tivoli, avrebbe potuto fargli una volta scoperta la sua identità.
Non ci avevo pensato, perché per me lui era prima di tutto Simone, poi il resto.
Ormai non era più Mr. Sogno, oppure il calciatore di fama mondiale che giocava in uno dei club più esclusivi della capitale inglese. Avevamo condiviso troppe cose insieme, perché potesse ridursi tutto a quello.
Lo guardai con la coda dell’occhio, pentendomi per un attimo per averlo costretto a seguirmi. Lui non mi doveva niente, non eravamo nulla noi due: né fidanzati, né innamorati… forse amanti e basta.
Simone vedendomi pensierosa si abbassò leggermente due dei dodici strati della sciarpa che gli copriva il volto. «Ti sta frullando qualcosa qui dentro…» insinuò, abbassandosi e picchiettando l’indice insistentemente sulla mia tempia. «Piantala per un attimo di pensare, okay? Lo so che ti stai pentendo di avermi chiesto di venire, te lo leggo negli occhi,» sospirò.
Mi vergognai come una ladra per essere così facilmente leggibile da uno come Simone, eppure ormai era come se fossimo sulla stessa lunghezza d’onda. Mi capitava sempre più spesso di intuire il suo umore e lui il mio.
Si chiama “essere anime gemelle”, ciccia.
Scossi la testa violentemente. NO! C’era una bella differenza tra lo scopare come conigli giorno e notte e in ogni luogo di quell’appartamento, ed essere anime gemelle. Un’enorme differenza. Io e Simone avevamo chimica, ormai era innegabile, ma non ero innamorata di lui.
Nossignore.
Anche perché, se ciò fosse stato vero, avrebbe segnato la mia condanna a morte. Venera Donati non poteva permettersi nessun tipo di relazione fino a quando non fosse diventata socia della Abbott&Abbott, e per far ciò avrei dovuto vincere la causa di dubbia paternità di Simone.
A proposito della causa…
«Ma il test di paternità?» domandai di punto in bianco a Simo, cambiando abilmente discorso.
Lui mi sorrise. «Rimandato,» sghignazzò. «Ho detto che avevo degli impegni che non potevo assolutamente saltare… degli impegni che mi costringevano a letto per qualche giorno…» e mi sorrise malizioso, soltanto con gli occhi visto che spuntavano solo quelli dalla sciarpa e dal cappello.
«Sei un maiale,» lo apostrofai.
«Ronf!» ridacchiò lui, manco avesse cinque anni.
«Prego,» mormorò la signorina, così le porsi il biglietto aereo e la carta d’identità. Controllò i miei dati, poi mi congedò con un sorriso augurandomi buon viaggio.
Oltrepassai il tornello e aspettai Simone. Non seppi nemmeno il motivo per cui avrei dovuto farlo, mi sembrava di essere tornata al liceo, quando attendevo Celeste in un angoletto perché dovevamo fare tutto insieme.
La hostess controllò i documenti di Simone, poi gli sorrise melliflua.
Alzai un sopracciglio quando il suddetto calciatore si abbassò la sciarpa con fare da dongiovanni e le sussurrò qualcosa che non riuscii a capire. In ultimo, soltanto mezzo secondo prima che lo liquidasse, Simone si accorse che lo stavo fissando ed impallidì.
A quel punto mi diressi a cercare il mio posto a sedere. Che si fottesse lui e quella sciarpa di merda.
Sentii i suoi passi goffi dietro di me, ma non rallentai. Anzi, la mia bassa statura e l’assenza dell’ingombro del piumino che aveva il calciatore, mi permisero di zigzagare tra la folla dei passeggeri che posizionavano i loro bagagli nello stipetto sopra i sedili.
Avvistai il numero “48” proprio vicino all’uscita di emergenza e mi ci fiondai prima che Simone potesse raggiungermi. Per fortuna vidi che nonna Annunziata occupava uno dei tre sedili, quello vicino al finestrino. Almeno avrei avuto una “testimone” che avrebbe cucito la bocca a Simone senza che io stessi lì a sentire tutte le sue stupide scuse puerili.
Non stavamo insieme, d’accordo, ma almeno avrebbe potuto evitare di fare il coglione con tutte le creature di sesso femminile presenti sulla faccia della terra!
Sei troppo esagerata, gli stai soltanto gettando benzina sul fuoco. Così si sentirà ancora più importante e ciò gli darà il diritto di trattarti a pesci in faccia.
Dov’è finita la Venera di ghiaccio?
Aveva ragione il mio Cervello. Il mio buon caro e vecchio Cervello che per buona parte delle vacanze invernali si era assopito, forse zittito dai quintali di dolci che avevo ingurgitato in baffo alla dieta.
«Sei emozionata per il rientro a casa, cara?» mi domandò la nonna.
Annuii sorridendo. «Sono sei mesi che non li vedo…» sospirai.
Lei a quel punto mi strinse la mano e mi sorrise, facendomi forza. Anche se dall’esterno potevo sembrare una donna forte, capace di sopravvivere a tutto e ignorare le proprie emozioni, persino una vecchina era riuscita a capire come mi sentissi nervosa in quel momento.
«Andrà tutto bene, poi ci sarà Pisellino al tuo fianco,» insinuò, strizzando l’occhiolino.
Rimasi a fissarla basita, incapace di capire se dovessi sorridere o meno. In quel momento, avrei voluto volentieri prenderlo a badilate sui denti, ma tentai di trattenermi.
Il diretto interessato arrivò con un po’ di ritardo, riuscendo a mettersi seduto nonostante l’ingombro di quel cappotto e di quella sciarpa chilometrica. Finalmente, dopo quasi due ore che era imbacuccato in quel modo, si tolse il cappello e si sbottonò il giubbino.
«Caaaaaldo!» sospirò, esausto.
Nemmeno gli risposi, anche se avrei voluto infierire.
Dovevo stare calma. Il Cervello mi aveva ben suggerito di fregarmene di tutta quella faccenda, altrimenti gli avrei unicamente dato una soddisfazione in più. Già si sentiva Mr. Ho-l’ego-più-grosso-di-uno-stato-indipendente, figurarsi se avesse saputo di rendermi gelosa della prima hostess che gli fosse ronzata attorno.
Giammai!
«Tesoro, non ti fa bene coprirti così. Poi ti ammali,» lo rimproverò la nonna.
Simone sbuffò e agitò le mani. «Devo mantenere l’incognito, altrimenti quando arriverò a Roma non potrò nemmeno camminare in pace. Ragazze che mi fermano ad ogni angolo… che vogliono una foto con il sottoscritto, o magari un bacio…» e lì mi lanciò un’occhiata per vedere la mia reazione.
Il nulla.
Rimasi impassibile afferrando uno dei miei libri da leggere – Storia del diritto medievale e moderno – ma non feci una piega. Notai con soddisfazione che rimase leggermente deluso da quella mia freddezza, ma decisi di continuare a non dargliela vinta.
«Buongiorno a tutti, qui è il comandante che vi parla. Siete sul volo 28671, con partenza da Heathrow Londra e diretto a Roma Fiumicino. L’equipaggio vi augura un buon volo e un soggiorno piacevole.»
In seguito, le due hostess e lo stewart cominciarono a spiegare i movimenti base in caso di emergenza. Ero completamente immersa nel capitolo quattordici del volume che mi ero portata come lettura leggera in aereo, quando fu il momento di allacciare le cinture.
Notai che nonna Annunziata si era portata qualcosa da fare a maglia, mentre Simone era assorto nello studiare la macchia ignota che era sul copri testa del sedile di fronte.
I motori del boeing cominciarono a rombrare, così come l’aereo che iniziò a muoversi lungo l’aeroporto, raggiungendo la pista che gli spettava. Non ero nervosa, anzi. L’aereo non mi aveva mai dato problemi, più che altro ero ancora intenta a non fare passi falsi con Simone.
Pensava davvero che mi desse fastidio il fatto che ci provasse con metà della popolazione femminile? Ancora non sapeva con chi avesse a che fare.
Venera Donati non si era mai fatta mettere sotto da nessuno!
Non in senso letterale… visto che stamattina…
Non nel senso strettamente letterale.
Dopo due giri di pista a vuoto, il boeing si posizionò sulla pista nove e cominciò a rullare più forte. Misi da parte il tomo, giusto per non perdermi la partenza, e attesi. Poco dopo cominciò a partire, decollando a poco a poco ed io sentii quella familiare sensazione di compressione allo stomaco.
La pressione che iniziava a salire, le orecchie che si otturavano e il respiro sempre più corto.
Simone, accanto a me, non fece una piega, come la nonna dall’altra parte. In fondo erano abituati, pensai. Leonardo aveva accennato a Cel che da piccoli spesso erano costretti a viaggiare molto per riunire le due famiglie che abitavano così lontane.
Il papà di Simo e di Leo erano fratelli, e anche se i genitori di Simone si erano separati, questo non significava che i cugini non dovessero più incontrarsi.
Dopo poco, per fortuna, apparve il segnale di slacciare le cinture e di poter accendere gli apparecchi elettronici purché in modalità offline. Con mia grande sorpresa, nonna Annunziata tirò fuori l’ultimo modello di lettore mp3 della Apple e inforcò gli auricolari, cominciando a scegliere la playlist.
Simone sorrise. «Da quando papà glielo ha regalato, non si scolla più da quell’affare,» commentò.
Rimasi basita nel vedere una settantenne così a suo agio con quella tecnologia, contando il fatto che per insegnare a mia nonna ad usare il cellulare, ci avevamo messo tre o quattro anni.
E ancora adesso le partivano le telefonate a casaccio.
«È sorprendente!» dissi.
Ripresi la mia lettura leggera, ignorando palesemente Simone che tentava di stabilire un contatto visivo con la sottoscritta. Nel frattempo, sul sedile posteriore, si sentivano gli schiamazzi di Leonardo e Celeste che litigavano riguardo a qualcosa.
«Sembrano una coppia sposata,» sbuffò il piccolo Sogno.
«Chi?» chiesi distrattamente.
Nel frattempo, di sottofondo, partì la canzone “Highway to hell” degli ACDC dall’i-pod della vecchina. Rimasi sempre più sconcertata dai gusti della nonna di Simone.
«Quel carciofo di mio cugino e l’amica tua,» sbottò, come se non ci arrivassi da sola. Ero completamente immersa in feudi e acri di terreno!
«Stanno sempre a battibeccare, a discutere, ad urlare… non li sopporto,» aggiunse lui, cominciando a grattare la macchia sul copri testa di fronte.
Lo fissai disgustata.
«È normale, quando si sta insieme. Di solito, discutere rafforza il legame,» dissi, anche se le mie storie precedenti non erano durate abbastanza, nemmeno da essere definite “storie”.
Simone sbuffò. «Il nostro no,» disse di punto in bianco.
Segnai il rigo cui ero arrivata con l’indice, poi specchiai i miei occhi nei suoi. «Punto primo, stiamo sempre a litigare, anzi, a scannarci, dal primo giorno che ci siamo incontrati,» sospirai esausta. «Punto secondo, noi non siamo una coppia,» conclusi.
Colpito e affondato.
Avevo decido di non concedere terreno a Simone, di non fargli capire che fosse importante per me. Anche se la sera prima avrei fatto di tutto pur di vederlo, anzi, mi ero quasi sentita male a causa della sua assenza, lui questo non doveva saperlo.
Conoscevo quelli come lui, i ragazzi viziati e belli, quelli che avevano sempre tutto dalla vita. Se lo avessi accontentato subito, si sarebbe stufato di me come di un giocattolo ormai vecchio, e ne avrebbe cercato uno nuovo, abbandonandomi in una vecchia soffitta polverosa.
E nessuno doveva permettersi di usarmi.
Simone rimase dieci minuti buoni a fissarmi.
«Che vuoi?» dissi, continuando a leggere senza nemmeno restituirgli lo sguardo.
Lui si affossò nella poltrona e grugnì. «Niente!» con un’espressione imbronciata.
Lo lasciai crogiolarsi nella sua rabbia, e continuai ad immergermi nella lettura. Ero soddisfatta di come avevo affrontato la questione, anche perché con Simone bisognava avere sempre il guinzaglio tirato. Mai dargli corda.
«Caffè o succo di frutta?»
Mi voltai distrattamente verso la hostess che si era avvicinata col carrello delle bevande, porgendomi un bicchiere di plastica. Simone mi fece cenno di chiedere anche a nonna Annunziata se voleva qualcosa.
Le diedi un colpetto al gomito, interrompendo “Romeo & Juliet” dei Deep Purple, ma lei negò subito l’offerta della hostess.
«Io un caffè, grazie,» dissi, mentre mi veniva versato il solito bibitone – come lo chiamavo io – degli inglesi che conteneva due grammi di caffeina e dodici litri d’acqua.
La signorina mi porse il bicchiere, poi rivolse a Simone un sorriso da gatta in calore. Roteai gli occhi al cielo. Era mai possibile che esistesse almeno un essere dotato di vagina che non ci provasse con quel microcefalo?
«Lei cosa desidera… Mister…?» e ridacchiò.
Per Simone, era come se lo avessero invitato a ballare direttamente un tango orizzontale nel bagno dell’aereo, così cominciò a flirtare liberamente con la hostess, quasi io fossi invisibile.
In un certo senso, me l’ero cercata.
Avevo chiaramente detto al calciatore che non c’era nulla tra noi, e che i suoi patetici tentativi di abbordaggio non mi facevano né caldo né freddo. In verità, mi stava dando un fastidio che rischiava di farmi venire un forte prurito alla pelle.
«Se non le dispiace, anche io un bel caffè… con molto zucchero. Amo le cose dolci…» e lasciò la frase in sospeso di proposito.
Che razza di marpione. Dio mio! Quelle battute patetiche non avrebbero fatto effetto nemmeno sulla più stupida delle galline in gonnella, eppure la hostess bionda continuava a ridacchiare. Bene, dagli pure la soddisfazione di essere un bravo corteggiatore… perfetto!
Ecco perché i ragazzi d’oggi non sanno più cosa sia la galanteria.
Se la prima sciacquetta che incontrano è già pronta ad allargare le gambe con una simile battuta priva di qualsiasi charme…
Devo ricordarti chi di noi, tra i presenti, ha “aperto le gambe” nemmeno ventiquattr’ore fa?
Tornai al mio bel capitolo sui feudi, ignorando palesemente sia le battutine semi-pornografiche che si scambiavano quei due, sia il Cervello che cominciava a fare di testa sua.
Meglio studiare, prepararsi e continuare a mantenere la mente allenata. Si trattava di una vacanza, questo sì, ma sarebbe stata breve.
Passati quei giorni di “festa” sarei subito rientrata in pista al fianco di James, contro St. James e la Cloverfield che voleva unicamente una fetta della notorietà di Simone.
«Sentito, Ven?» mi disse d’improvviso Simone, distogliendomi dalle mie riflessioni.
«Cosa?»
Lui sorrise alla hostess. «È sempre nel suo mondo, troppo intelligente la mia piccolina!» ridacchiò strofinandomi il palmo sulla testa.
Piccolina? Mia? Ma da quand’è che mi apostrofava con parole che non erano “nanetta” oppure “miss acidona duemilatredici”?
«Siete proprio una bella coppia,» sorrise la signorina, salutandoci e proseguendo con gli altri ospiti del volo.
Mi ero persa praticamente tutto il discorso. «Che cavolo le hai detto?» ringhiai, scostandogli bruscamente la mano che era ancora rimasta artigliata alla mia testa.
Simone sghignazzò. «Nulla che non fosse vero,» disse tranquillo.
Mi preoccupai di quella sua asserzione. Possibile che mi fossi immersa a tal punto nei miei pensieri, da non accorgermi che stesse sparlando di me?
Chiusi il libro e minacciai Simone con 384 pagine di Diritto medievale. «Cosa. Le. Hai. Detto.,» ringhiai minacciosa.
Lui fissò prima me, poi il tomo dall’aspetto minaccioso ed estremamente polveroso. «Vuoi farmi morire d’allergia?» chiese.
Lo fissai assottigliando lo sguardo. «No, ma posso sempre colpirti con il bordo e farti spuntare un bernoccolo al centro della fronte!» sibilai.
Simone alzò le mani in segno di resa. «Ma niente, la signorina è stata così gentile da offrirsi di togliermi questa macchia,» e si indicò i pantaloni con un evidente macchiolina di marmellata che si era sbrodolato mangiando una crostatina, «nel bagno dell’aereo, ma le ho detto che ci avrebbe pensato volentieri la mia fidanzata.»
Sgranai gli occhi. «L-La t-tua cosa?» balbettai.
«Ma adesso parli come quel coglione del fidanzato di mia sorella?» sbottò lui.
Gli afferrai il polso e strinsi, come se non ci fosse un domani. «Vuoi che ti ripeta anche in francese quello che ti ho detto prima riguardo al nostro “rapporto”?» ripetei.
Era qualcosa che dovevo chiarire. Alla fin fine eravamo stati a letto insieme, ma trattandosi di Simone, avevo sempre creduto che non ci saremmo spinti oltre dall’essere friends with benefits.
Stranamente, però, il modo in cui Simone aveva liquidato la hostess mi faceva sentire lusingata.
Non devi adagiarti sugli allori. Ricorda, guinzaglio tirato.
Giusto, non dovevo dargliela vinta altrimenti mi avrebbe rigirato come un calzino.
Simone sprofondò ancor di più nella poltrona. «Non sei divertente quando fai l’acida in questo modo. Stamattina lo eri molto di più,» brontolò, giocando con il laccio del suo cappotto.
Mi si strinse il cuore a vederlo così afflitto. Come al solito, dando retta alla Ven “razionale” avevo spinto da parte e sigillato quella parte umana di me. Simone era un dongiovanni, questo lo avevo capito sin da subito, ma per arrivare fin dove mi ero spinta con lui, avevo visto qualcosa oltre quella maschera che ostentava con tutti.
Controllai che nonna Annunziata fosse ben intenta a finire la sciarpa di lana e che nessuno stesse guardando nella nostra direzione. Mentre aprivo il libro per finire il capitolo, lo lasciai sulle ginocchia e con la mano cercai quella di Simone, intrecciando le nostre dita.
Lui sussultò a quel contatto ma non si scostò.
Con la coda dell’occhio lo vidi sorridere e sorrisi a mia volta.
Eravamo strani, lo ammetto, ma di una stranezza che cominciava a piacermi e a cui mi stavo lentamente abituando.
 
***
 
Una volta scesi dall’aereo, raggiungemmo il rullo dove sarebbero stati distribuiti i nostri bagagli. Ovviamente, da che mondo e mondo, chiunque sa che l’aeroporto di Fiumicino è famoso per la caratteristica dei giorni interi passati a fissare il rullo prima di avere indietro i propri bagagli.
Mi ricordo un anno, forse il viaggio della maturità, in cui attendemmo due ore e mezza prima che ci fossero rese tutte le valigie. Una cosa del tutto inaudita. Era durato meno il volo aereo, che il ritiro bagagli.
«Mettiti comodo,» suggerii a Simone, trovando un gradino che sembrava piuttosto accogliente.
Lui mi fissò perplesso. «Perché?»
Sorrisi quasi per la sua ingenuità. «Non lo sai che i nostri bagagli arriveranno come minimo tra un’ora? Se ci va bene, poi…» gli dissi.
Simone stranamente non sembrò sconvolto da quella verità. Mi porse gentilmente la mano. «Alzati e vieni con me,» sorrise enigmatico.
Notai che anche Celeste seguiva Leonardo, così come nonna Annunziata che procedeva dietro di loro. Rimasi sconvolta nel constatare che ci stavamo dirigendo nel gabbiotto dove c’era la sicurezza. Pensai subito che si fossero ammattiti, o peggio.
«Cosa vuoi fare?»
Simone non disse nulla, si limitò a farci entrare nella stanzetta dove un paio di poliziotti, con cani lupo al guinzaglio, scortavano i nostri bagagli intonsi. Anzi, per un nanosecondo pensai li avessero persino lucidati…
«Li abbiamo controllati, è tutto apposto,» disse il capo della sicurezza a Leonardo. «Sei pulito, campiò!» orrise, stringendogli la mano.
Capii quella specie di “mafia” aereoportuale soltanto alla fine di tutta quella pantomima. I poliziotti ridevano e scherzavano coi due cugini Sogno, lasciandosi fare delle foto e degli autografi solo per aver consegnato loro i bagagli prima degli altri comuni mortali.
Rimasi completamente scioccata da tutto quello. Essere famoso ti spianava delle strade che altrimenti sarebbero state sbarrate ad un tipo come me, ad esempio. Celeste sembrava abituata, infatti, non faceva che sorridere e scherzare con gli agenti.
Nel frattempo accesi il telefono, e scoprii che avevo due messaggi non letti: uno di James e l’altro…
 
hi, spaghetti girl!
sei atterrata? come va lì? fa freddo? fammi sapere se va tutto bene.
xoxo
jamie.
 
Fissai quel messaggio come se fossi caduta in trance. Lo avevo liquidato con un “ci sentiamo” la sera precedente, ma non mi ero nemmeno ricordata di fargli una telefonata o dirgli che fine avevo fatto.
Certo, magari dicendo “ciao collega, sono andata via dal party per trombarmi selvaggiamente il nostro cliente – cosa che faccio ormai da tre settimane”.
Il mio Cervello era particolarmente sarcastico in quel periodo di vacanze.
L’altro messaggio non seppi se fosse il caso di leggerlo o meno. Non sentivo il mittente da quando avevo lasciato Tivoli e la cosa lo avrebbe fatto arrabbiare molto. Eppure sapeva del mio arrivo. Di sicuro, mia madre ci aveva messo lo zampino.
Decisi di togliermi quella curiosità.
 
guarda te se ho dovuto sapere da tua madre che venivi in questi giorni!
sei incredibile, vennie. sappi che te la farò pagare in modi che nemmeno conosci. intanto verrò a prenderti alla stazione dei pulmann.
sto qui dalle sette di questa mattina, a congelarmi tra l’altro.
avrai la mia salute sulla coscienza.
 
-m.
 
Già questa la diceva lunga su chi mi sarei trovata di fronte persino prima di mettere ufficialmente piede a Tivoli.
Simone mi si avvicinò di soppiatto. «Chi è?» chiese, sospettoso. Notò che mettevo via il cellulare con una certa fretta e cominciò ad accigliarsi. «Di nuovo l’avvocatuncolo? Ma lo sa che ci sono anche io? Sarebbe bene avvertirlo…» ghignò.
Sospirai sonoramente alzando gli occhi al cielo. «La tua virilità rimarrà intaccata. Era Jamie ma voleva solo sapere se fossi atterrata e questo è un altro messaggio che non ti riguarda,» tagliai corto, afferrando il mio trolley e dirigendomi verso le fermate dei pulmann.
Simone mi raggiunse con due falcate. «Tutto ciò che c’è su quel telefono mi riguarda,» disse serio.
Gli rivolsi uno sguardo strano. Non sapevo se stesse facendo sul serio o era soltanto un modo per vedere se mi arrabbiavo. Davvero era così geloso degli sms che ricevevo?
Notai che i suoi occhi diventavano sempre più scuri, man mano che continuavo a nascondergli la verità. Forse quella specie di cosa che c’era tra noi due, si stava sempre più allontanando dal modo giocoso con cui era iniziato tutto.
Cercai di tagliare la discussione il più in fretta possibile. «È solo un’amica,» sospirai, omettendo un particolare un po’ spinoso di cui non avevo fatto mai parola con nessuno. «Ci aspetta all’arrivo dei pulmann a Tivoli,» gli spiegai.
Simone parve subito ringalluzzito. Aveva tirato su la testa, lucidato la sua cresta da gallo cedrone e pettinato il bargiglio che gli penzolava dal mento.
Esibizionista.
«È carina, questa tua amica?»  ammiccò.
Riflettei sul particolare che gli avevo omesso, poi pensai di divertirmi alle sue spalle. «Molto carina, ma non è il tuo tipo,» aggiunsi.
Nel frattempo, Leonardo e Celeste ci avevano raggiunti con nonna Annunziata. Sapevamo bene che le nostre strade, da quel punto in poi, si sarebbero divise. Dovevamo salutarci.
«Come, non è il mio tipo?» protestò subito Simone. «Tutte le ragazze sono il mio tipo!» disse con ovvietà.
Riuscii a trattenermi dal ridere a stento. Era troppo facile prendersi gioco di Simone, solo che cercai di rimanere nel personaggio il più possibile. Cosa c’era di male a prendersi gioco di lui nell’attesa del breve viaggio che ci avrebbe aspettato?
Nulla.
Infatti.
«Tesoro, stammi bene durante questa breve vacanza. Può essere che convinca Leo a salire un po’ da te, chissà…» sorrise Celeste, abbracciandomi.
La strinsi a mia volta. «Mi casa es tu casa,» ridacchiai.
Lei mi guardò un po’ apprensiva. Nei suoi occhi blu lessi molto più di ciò che voleva dirmi a parole, però si limitò a mettermi in guardia. «Stai attenta,» e lanciò uno sguardo esaustivo verso Simone che salutava sua nonna e prendeva a cazzotti Leonardo.
Lo guardai anche io, sospirando. «Lo farò,» le promisi.
Non sapevo quanto la mia migliore amica avesse intuito, ma era chiaro come il sole che ormai c’era qualcosa tra me e il calciatore. Era innegabile. Quegli sguardi, quegli sfioramenti e le battutine erano inequivocabili ormai.
Avevamo fatto il “salto” che ci aveva permesso di passare da acerrimi nemici a focosi amanti.
Salutai Leonardo e nonna Annunziata, che mi promise di passarmi presto tutta la sua playlist dell’i-pod, poi ci dirigemmo con i trolley al seguito verso la stazione dei pulmann.
«Dobbiamo prendere il 547,» dissi, controllando bene il biglietto che avevo fatto su internet prima di partire.
Simone sbuffò e alzò la mano. Il taxi bianco inchiodò di fronte a noi e per poco non mi mise sotto le ruote. «Che cazz…?» imprecai.
Simone aprì la portiera e mi fece cenno di entrare. «Io non prendo i mezzi pubblici,» commentò, poi mi strappò la valigia dalle mani e mi spinse letteralmente dentro l’abitacolo dell’auto.
Scambiò due parole col tassista, poi si sedette accanto a me e partimmo.
«Dunque, un campione come lei cosa ci va a fare a Tivoli? Vuole rilassarsi alle terme?» chiese l’autista. Si sa che i tassisti, soprattutto quelli romani, sono i più chiacchieroni e impiccioni di tutto l’universo.
Simone sorrise e mi passò un braccio attorno alle spalle. «Sono stato invitato a casa della mia ragazza,» ridacchiò, facendomi arrossire.
Immediatamente l’uomo cominciò a farmi domande, ad interessarsi alla mia professione e si sorprese di sapere che non ero nessun tipo di modella, bensì un quasi-avvocato. Mi fece piacere parlare con quell’uomo, rese il viaggio molto più leggero.
Mi dimenticai persino che Simone avesse speso quasi un patrimonio per portarci da Fiumicino a Tivoli con il taxi. Era una cosa incredibile e se fossi stata completamente in me, mi sarei infuriata.
Soprattutto perché avevo buttato le sette sterline del pulmann che avevo prenotato tramite internet.
«Dunque, da quanto state insieme, se posso chiederlo?» domandò, imboccando finalmente l’uscita che dal raccordo conduceva sino a Tivoli.
Cercai di rispondere per prima, per evitare imbarazzi, ma Simone mi precedette. «Da ieri, è stata una cosa piuttosto improvvisa.»
«Oh! Un amore giovane, allora! Congratulazioni. E mi dica, signorina, com’è stare con una star del calcio come il signor Sogno?» domandò ancora.
Sembrava di stare sotto interrogatorio. Stavolta sentii gli occhi di Simone addosso, come due calamite d’onice. Aspettava che rispondessi, il maledetto.
«Non più strano di quanto sembri. Alla fine, la fama non è poi tutto questo granché,» commentai, con la mia solita inflessione di acidità.
Il tassista sorrise, Simone no.
Intravidi un’ombra di broncio fanciullesco sul suo viso e mi compiacqui. Voleva il gioco duro? Allora doveva essere abituato anche ai colpi bassi come quello. Si vantava a destra e a manca che fossi la sua fidanzata, quando nessuno aveva deciso questo, così mi divertivo anche io alle sue spalle.
«Com’è che siete diretti alla stazione dei pulmann?» s’informò il tassista.
«Un’amica ci viene a prendere, che cara…» sorrise Simone, fissandomi. Assomigliava stranamente a Jim Carrey nel “Il grinch” con quel suo aspetto malvagio.
Ridacchiai a mia volta. «Già, un’amica.»
«Beh, allora siamo quasi arrivati,» annunciò il tassista.
Simone mi si lanciò completamente addosso, spalmandosi sul finestrino opposto per sbirciare se riusciva ad intravedere la mia famosa “amica” dell’sms.
«Spostati!» gli urlai, soffocando da tutti gli strati di stoffa che si era messo addosso. Sembrava addobbato come un albero di natale!
«È quella biondina laggiù? O la moretta lì in fondo? Spero per te che non si tratti di quella laggiù perché è un mostro…» cominciò a criticare.
«Levati di dosso, maledetto idiota!» sbraitai, poi finalmente il tassista parcheggiò e mi concesse di scendere e di riacquistare la capacità di respirare.
Simone lo pagò e smontammo i bagagli dal lato posteriore della vettura, dopodiché il calciatore mi si affiancò, vedendo che sondavo le persone presenti nell’ampio parcheggio.
«È lei?» mi disse, quasi accecandomi per indicare una ragazza bionda e alta.
«No!» ringhiai, afferrando il cellulare dalla tasca per sicurezza.
«Lei?» chiese di nuovo, indicandomene un’altra.
«No, te lo dico io quando si avvicina,» lo rassicurai.
Sondai bene tutti i dintorni, cercando di riconoscere tra la gente chi avrebbe dovuto “scortarci” fino a casa e mi sorpresi di incrociare il suo sguardo subito dopo.
Sorrisi.
«Andiamo,» comunicai a Simone e cominciai a camminare verso un punto preciso del grande parcheggio. Era lì, avvolto in quel vecchio pastrano che avevo visto un milione di volte, con quella kefiah da anticonformista che si addiceva proprio al suo personaggio.
«Ehi, ‘spetta!» si lagnò Simone, seguendomi. Cominciò a notare con disappunto il particolare che fino a quel momento gli avevo saccentemente nascosto. «Guarda che in quella direzione ci sta solo un coglione con le basette di Barbossa, eh…» osservò piccato.
Ignorai la sua protesta e mi avvicinai al suddetto ragazzo, che mi restituì un sorriso lungo da orecchio a orecchio. Allargò le braccia ed io lasciai andare la valigia per tuffarmici dentro e affondare in quel vecchio cappotto che ancora odorava delle prime sigarette che ci eravamo fumati insieme.
«Sei arrivata, finalmente,» mormorò sorridente.
«E tu hai mantenuto la parola e mi sei venuto a prendere.»
Lo sguardo del ragazzo si spostò perplesso da me a Simone, poi di nuovo sulla sottoscritta. Simone mi fissava come se avessi appena fatto sesso in pubblico con il mio migliore amico. Era nero, cupo, arrabbiato e deluso.
«Sarebbe lui la tua amica?» indicò il ragazzo con un indice.
Feci spallucce. «Lo avevo detto che non era il tuo tipo…» gli feci notare. «Comunque lui è Mario, Mario, questo è Simone,» feci le dovute presentazioni nel più breve tempo possibile.
Via il dente, via il dolore.
Simone e Mario si lanciarono un’occhiataccia gelida e si squadrarono, come due cervi pronti a prendersi a cornate per il territorio.
Mario allungò la mano per primo. «Tu sei quel calciatore dell’Arsenal… giusto? Mi pare di averti visto in televisione…» sorrise.
Simone gli strinse la mano, forte. Forse un po’ troppo forte. «Sono io, peccato che non possa dire lo stesso di te, visto che mi sei sconosciuto.»
Inspirai forte.
Cominciamo bene, quei due si conoscevano da meno di due secondi e già tirava aria di tempesta. Mario era il mio migliore amico da sempre, da quando ne avevo memoria. Non ne avevo mai parlato con Simone, perché ormai non ci sentivamo da mesi, da quando ero partita. Soltanto Celeste sapeva quanto io e lui fossimo legati.
Era come mio fratello maggiore.
Sarebbe stato meglio che avessi fatto una premessa a Simone, dicendogli che tra me e Mario non c’era mai stato nulla – nonostante ci avessimo provato, davvero – eppure ci avevamo riso sopra, perché il legame che si era instaurato tra di noi era del tutto fraterno e inscindibile.
Ma chi ero io per privarmi di uno spettacolo simile?
Divertirmi alle spalle di Simone per quasi una settimana, vedendolo rodersi il fegato e facendosi chissà quali filmini mentali su me e Mario che ci davamo dentro come conigli… imperdibile.
«Bene, bando alle ciance. Andiamo a casa, sono esausta,» sospirai.
Veloce come un fulmine, Mario afferrò il trolley e mi scortò verso la sua auto, ridacchiando.
«Posto davanti? Come sempre?» sorrise ed io ricambiai.
«Come sempre!»
Dietro di me, giurai di aver sentito Simone cominciare a fare il verso, borbottando un “Come sempre” piuttosto infastidito.
Oh, quella sarebbe stata una vacanza memorabile!





*si prostra ai piedi delle sue fanzzzzz*
Avete tutto il diritto di picchiarmi/legarmi/seviziarmi/frustarmi *sembra una scena di 5O sfumature* perché non ho scusanti stavolta! Avrei dovuto rispondere alle recensioni, ma non l'ho fatto. SONO PIGRA! T_T
E' grasso che cola che mi metta a scrivere di tanto in tanto #fugge.
Comunque, è stato di recente il mio compleanno - per non dire "comple-vecchiaggine" visto che ormai (alla veneranda età di diciott'...ehm ventidu... ehm... VENTICINQUE anni) non riesco minimamente ancora ad organizzarmi. No, no.
Vi giuro che mi ci metto, visto che fuori piove. Debbo recuperare il tempo perso e mandare avanti questa storiella *w*
Come ringraziarvi per le 15 recensioni dello scorso capitolo??? *BALLA LA CONGA* il record!

Ora non mi siedo assolutamente sugli allori, ma vado avanti per la mia strada! -ESAMI PERMETTENDO - TT_TT
Bai bai gente! Al prossimo capitolo! :3
//marty


Ah! Ieri ho pubblicato la prima OS partecipante alla challenge che abbiamo indetto io e wifuccia [x], ovviamente su Arrow.
Non c'è scadenza né premi. Libertà totale! :3
   
 
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