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Autore: Queen of Superficial    23/05/2013    2 recensioni
Lei sfoderò un sorriso che aveva conservato tra le labbra da quando aveva cinque anni, e disse, soltanto: “Ciao, William.”
Il mio William, l'avrebbe chiamato fino alla fine.
Nelle preghiere che ancora doveva inventare, nei sacrifici che da sola si imponeva per rendersi visibile a sé stessa, per ottenere quel fatuo controllo della propria vita che tutti cerchiamo nei gesti semplici come puntare la sveglia o programmare gli impegni del giorno, c'era già il suo William, e l'amore che non avrebbe mai più provato a spiegare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dimenticherò quante volte ho creduto e amato,
come se non avessi mai creduto,
come se non avessi amato mai.

 

La pioggia bagnava Whitechapel.
La bambina che ancora abitava in lei correva, ma solo con gli occhi: il resto del corpo era premuto contro una ringhiera, chiuso in un grande maglione nero, e la pioggia le incollava i capelli al viso. Si prese un momento, uno soltanto, per spostarseli indietro, e puntò gli occhi all'orizzonte.
Davanti a lei, un uomo passeggiava distratto calciando le pozzanghere.
Ho già scritto questa storia, Jane.
Da una finestra poco lontano, suonava In my life di Johnny Cash.
Lo conosco quell'uomo, Jane. C'era una volta, e mille altre ancora. E faceva male, di un male che smonta le giunture e allenta le articolazioni. Quello che, ti chiedi, perchè Dio mi ha messo davanti tutta questa bellezza. Davanti, ma non tra le braccia.
Lui non era bello, ma nei suoi occhi le parve di riconoscere la somiglianza splendida e terribile con le storie che leggeva distesa su un tappeto, col fuoco del camino che le riscaldava i capelli e le rendeva i pensieri più lineari. Posava il libro e correva alla vecchia Remington di suo nonno, una maestosa macchina da scrivere a cui ogni tanto saltava un tasto all'improvviso. Ora aveva un computer, e i pensieri molto meno lineari di quindici anni prima. Si rincorrevano, inciampando l'uno nell'altro, per arrivare fino a lui.
Chiunque lui sia, l'ho già visto miliardi di volte, Jane. Quanto amore ho negli occhi, adesso? Prendi uno di quegli assurdi apparecchi fotografici che esplodevano col flash e, per il cielo, dovunque tu sia immortalami. Dio ce l'avrà una lavagna di sughero con le foto appuntate sopra, per quelle come noi.
L'uomo si voltò, impercettibilmente, e sembrò vederla. A lei parve chiaro e naturale quel suo uscire dai propri profondi pensieri, e lo guardò di rimando. Il dolore che la colpì al petto le confermò una sciocchezza da niente: sarebbe stato amore, insonnia e rose fresche nel vaso vicino alla finestra.
Si alzò con l'acqua che le inzuppava i vestiti, mentre il cielo nero di Londra detonava il malcontento di un ottobre con fulmini e scariche d'acqua da manuale, roba da annebbiarti la vista e paralizzarti dalla paura: camminò verso di lui, dando le spalle a tutto il resto.
Non era bello, no.
Aveva gli occhi azzurri, però. Da qualche parte nella strana vita di quella giovane donna, c'era un'amica che credeva che gli occhi azzurri fossero da soli indice di bellezza: cosa non sempre vera, ma senza dubbio, a suo modo, bella da dire, e da pensare.
Lui la guardava, e non c'era l'ombra del rischio di una qualche confusione dentro i suoi occhi azzurri.
Dovrei parlargli, Jane? Ma certo che dovrei. Non vorrei ritrovarmi come te, sai. L'attesa di una vita per dover dire no.
Si guardarono per un momento lungo sei secoli.
“E dunque, piove.”, disse lei, chiamando a raccolta tutto il suo coraggio.
I loro occhi indugiarono gli uni negli altri, e poi lui scoppiò a ridere. Tutto in lui accompagnò quel gesto, e in lei germogliò un piccolo albero fatto dei frammenti della sua risata.
“Mi chiamo William.”
“Come Shakespeare.”
“E il tuo nome?”
Lo guardò, rapita e confusa.
“Io...”
William chiuse gli occhi. Li riaprì. Li rivolse per un momento al cielo. Aveva smesso di piovere. Il palmo della sua mano destra si volse verso l'alto. Sorrise appena. La camicia gli si era attaccata addosso. La curva del suo collo, la forma del suo mento, il disegno complesso delle sue labbra e dei suoi denti, il suo naso, i suoi occhi, i suoi capelli, tutto in lei si stampò a fuoco come se avesse avuto davvero bisogno di definirne i contorni, per non ritornare più alla vita che aveva due minuti prima, per non raccogliere i pezzi.
La guardò, di nuovo, e le sue sopracciglia si trasferirono un centimetro più in alto per invitarla a parlare.
Lei sfoderò un sorriso che aveva conservato tra le labbra da quando aveva cinque anni, e disse, soltanto: “Ciao, William.”
Il mio William, l'avrebbe chiamato fino alla fine.
Nelle preghiere che ancora doveva inventare, nei sacrifici che da sola si imponeva per rendersi visibile a sé stessa, per ottenere quel fatuo controllo della propria vita che tutti cerchiamo nei gesti semplici come puntare la sveglia o programmare gli impegni del giorno, c'era già il suo William, e l'amore che non avrebbe mai più provato a spiegare.
Da qualche parte, Jane, c'è ancora in giro quella sciocchezza che esiste un tipo di male che ti fa stare bene. Ma il male fa solo male. Ogni cosa che indebolisce il cuore non è amore; non può essere amore. Dev'essere, necessariamente, uno dei centocinquanta surrogati imbecilli dell'amore. Passione, ossessione, rassegnazione, pazienza, rimpianto, paura della solitudine, bisogno di stabilità. L'amore, invece, basta a sé stesso. Come le ballate irlandesi, i cestini di fragole e Verdi colline d'Africa di Ernest Hemingway.
“Non so veramente cosa dirti, William, sai.”
Forse avrebbe potuto cantargli Embraceable you ma, curiosamente, non ricordava più le parole eppure le sembrò contemporaneamente di averla scritta lei.
“Sono Victoria. Sono io.”
Non c'erano automobili, passanti o lumache che andassero di fretta.
“Andiamo a teatro, stasera. Vediamo quello che vuoi.”, rispose lui, infilando le mani in tasca.
Victoria sorrise, e abbassò gli occhi sull'asfalto. Una coccinella svolazzava, attenta ad evitare l'acqua. Quando li rialzò, trovò i suoi.
A piedi nudi nel parco. Al Garrick. Alle otto. Mi piacciono le rose: piacevano a mia nonna.”
William sorrise. “A me piace il cioccolato belga.”
Con le gocce d'acqua che le imperlavano ancora i capelli e le mani, Victoria si profuse in un impercettibile inchino.
“A stasera. Al Garrick.”, disse lui, e lei si voltò e camminò per lunghe vie deserte, fino a che non si fermò a respirare, cercando di ricordare che non era stato il destino a farli incontrare, né un benevolo Dio attento agli affari degli uomini. Era stata lei. Lo aveva visto, una sera su un palco di qualche anno prima, e da quando lo aveva visto non aveva fatto altro che cercarlo, ovunque e in tutti i modi in cui sapeva cercare. Aveva macinato chilometri, e trascinato amici in città di cui ignoravano l'esistenza e la collocazione. Aveva osservato, con lo stessa, identica innocenza con cui da bambina guardava Clark Gable allontanarsi nel tramonto di Tara. Quante volte, nel privato dei suoi lunghi silenzi, aveva immaginato di fermarlo e pregarlo di dare un'altra chance a Rossella perchè alla fine si era innamorata di lui come diceva una vecchia canzone italiana, “perchè non aveva niente da fare”, e quello le sembrava davvero, davvero l'unico modo di amare possibile, l'unico che si avvicinasse almeno un po' alla verità. Quante volte, nel mezzo dei film, avrebbe risposto “sì” a proposte di matrimonio sottintese ma mai portate a compimento perchè il ragazzo era troppo timido e la ragazza troppo rigida per prendere le redini: avrebbe detto “sì” a prescindere, prima che lui potesse chiedere. Lo avrebbe fatto in nome della serenità, e delle occasioni perse, di tutto ciò che le sembrava giusto. Ma non si può bucare uno schermo, riavvolgere una bobina, tornare indietro al momento in cui è stata scattata una fotografia: così, quando aveva visto William sul palco, aveva deciso di prendersi la responsabilità diretta di tutto ciò che ne sarebbe venuto. Victoria non voleva rimpianti. Victoria voleva la pioggia di Londra sul viso, i suoi mattoni, le sue strade, la piena del suo Tamigi e i rintocchi del suo Big Ben. Voleva poterlo guardare mentre la sua vita le correva via dalle mani come sabbia di una spiaggia bianca.
Succede, Jane. E non è successo per caso, o per destino. E' successo perchè io ho voluto che accadesse: ho sperato che accadesse, ma, molto più di questo, ogni fibra di me si è battuta perchè accadesse. Ho dovuto combattere, per vederlo succedere: ho dovuto cambiare me stessa, e diventare ciò che ho sempre dovuto essere. Comunque andrà, sai, io mi sono battuta, quale che fosse l'esito della battaglia: e, dovesse finire tutto in frantumi, avrò sempre me. Il meglio di ciò che sei dovrebbe essere un diritto, non una consolazione. Eppure, troppo spesso, non è né l'uno, né l'altra.
Confusa, felice, si guardò intorno alla ricerca di una cioccolateria. Non aveva più cognizione dello spazio, del tempo e della strada che aveva davanti: Blueberry Hills – London's finest chocolate, diceva un'insegna in corsivo sul marciapiede di fronte. Sorrise, fradicia, con una mano tra i capelli. Qualcuno passò, e sorrise a sua volta. Incredibile, come la felicità altrui ci investa inaspettatamente per un imponente attimo, come se un Dio, questa volta davvero, volesse renderci partecipi di quello che può essere anche nostro. Come se volesse dirci vedi, si può essere felici. Non è sempre, tutto, soltanto un addio.
Il campanello di Blueberry Hills suonò mentre Victoria apriva la porta. La commessa dietro il banco sorrise alla ragazza bagnata che le stava d'inanzi, e gli occhi più luminosi che avesse mai visto indugiarono su di lei e poi sulla vetrina.
“Cerco del cioccolato belga.”

 

Porterò via con me ogni bacio che mi hai dato.

 

La pioggia aveva lasciato il posto all'aria fresca della sera, ma Victoria, in piedi davanti al Garrick Theatre, ne respirava profondamente l'odore. Agli amici non aveva detto nulla, aveva solo cercato nella cabina armadio una camicia bianca dal taglio maschile, un po' lunga, e l'aveva messa insieme al filo di perle di sua nonna. Stringeva una piccola borsa nera e una busta con dentro una varietà esponenziale di cioccolato belga.
Lui arrivò che l'aria era già intrisa del profumo delle rose: sette incredibili rose Baccarat.
Sorrideva, splendido come la prima stella della sera, elegante come solo gli inglesi sanno essere, silenzioso come una chimera.
Il rossetto scarlatto di lei si aprì in un sorriso che sarebbe stato, da lì in poi, conosciuto come il modo in cui Victoria sorrideva a William.
“Sei in anticipo.”, disse lui.
“Non mi sarei persa per nulla al mondo lo spettacolo di vederti arrivare.”
Guardalo, Jane, sto a guardarlo innamorata persa sulle riva di una pozzanghera.
William le porse le rose e le baciò la mano, e lei, arrossendo, gli tese il pacchetto.
“Non dovevi. Cos'è?”, le chiese, sbirciando curioso dentro la busta.
“Cioccolato belga.”
Il brillio che gli affiorò dagli occhi la colpì in posti che non sapeva di avere.
“Ma io l'ho detto così, per dire... Tu... Tu sei...”, e scoppiò a ridere, lasciando tutto ciò che lei era tra i puntini sospensivi di questa frase.
“A futura memoria, sappi che io prendo molto alla lettera ogni cosa che dici.”
William sorrise.
“E' pieno di stelle, stasera.”
“Le rose... Sono bellissime.”
“Non meriti nulla di meno.”
“Incantatore.”
Potevano due persone come loro sentirsi così disperatamente sole, ognuno nel proprio infinito privato?
Gli attori erano appena entrati in scena, che Victoria posò la testa sulla spalla di William e sussurrò: “E' qui che ti ho visto la prima volta. Il Macbeth.”
William sorrise, tra sé.
“E ti è piaciuto?”
“Oh, mi hai rubato il cuore.”
La forma della spalla di William sotto la guancia di Victoria le fece capire, per la prima volta, che forma avesse la felicità.
Quarantadue giorni dopo, lui le chiese: “Vuoi sposarmi?”
Lei rise, togliendosi gli occhiali da sole per poggiarli sul tavolino di quel caffè di Parigi.
“Te l'ho già detto che prendo incredibilmente alla lettera tutto ciò che dici?”, scherzò.
Lui la guardò, sorridendo, e poggiò il bocciolo di una rosa sul suo tovagliolo. All'interno, un piccolo diamante rifletteva la luce del sole.
“Infatti.”, disse.

 

E allora penserò che niente ha avuto senso
se non questo averti amato, amato in così poco tempo
e che il mondo non vale un tuo sorriso
e nessuna canzone è più grande di un tuo giorno,
e che si tenga il resto,
me compresa,
la viola d'inverno.

 

Davvero, nonna Victoria?”, chiese la bambina accovacciata sul patio davanti alla graziosa, anziana signora che sedeva su un dondolo, e reggeva tra le mani una foto.
“Davvero, Alexandra.”
“Hai visto il nonno a teatro e poi sei andata a cercarlo dovunque?”
“Sì, e non mi sarei mai fermata, se non l'avessi trovato. Perché vedi, io e il nonno eravamo fatti l'uno per l'altra.”
“E l'hai capito dal primo momento in cui l'hai visto?”
La bella Victoria rise, e allungò una mano verso sua nipote.
“Ma certo che no, tesoro. Non credere alle sciocchezze di chi ti dice che certe cose si capiscono immediatamente: tutto ciò che è veramente importante richiede un minimo di riflessione, ricordatelo.”
Gli occhi di Alexandra brillarono, così disperatamente simili a quelli di William.
“Quanto tempo ci vuole?”
“Io ci ho pensato per tre giorni e tre notti, prima di capire che lui era tutto ciò che avrei voluto dalla vita. Ero una ragazza malinconica e solitaria, prima di vedere lui. Poi, a poco a poco, ho preso forma nel cuore di quel sentimento: i capelli sono diventati più lucenti, gli occhi hanno perso quel velo di tristezza, e tutto nei miei gesti raccontava qualcosa di lui che ancora non conoscevo, ma che, ne ero sicura, avrei avuto tutto il tempo del mondo per imparare a memoria più in là, quando lo avrei trovato.”
Alexandra rise.
“Lo hai detto alle tue amiche?”
“A tre, forse. Due sapevano chi era e lo ammiravano molto. Tuo nonno era un uomo affascinante.”
“E la terza?”
“La terza era la mia migliore amica. Lei sapeva poco o niente di lui, e sorrise quando le raccontai quello che mi era successo, che lo avevo finalmente trovato, e che tutto quel che restava da fare era incontrarlo.”
“Perchè sorrise?”
“Mi disse che glielo avevo già detto molte volte, di molti altri.”
“Ed era vero?”
“Oh sì che lo era. Un'amica del cuore non sbaglia mai. Le ci volle un po', per notare la differenza.”
“Qual era la differenza?”
La donna chiuse gli occhi, e un vento leggero si insinuò tra i suoi capelli, nei suoi ricordi.
“La differenza è che un sogno deve avverarsi, per realizzarsi. La differenza, bambina, la determina il caso, non il tempo. E' un po' come fare la torta di mele: usi lo stesso tipo di frutta, la stessa quantità di ingredienti, la cuoci alla stessa temperatura ogni volta che la fai. Poi, però, c'è quel giorno qualunque in cui tiri fuori dal forno la miglior torta di mele che tu abbia mai fatto. Non saprai mai perché, o quale sia stata l'impercettibile differenza che l'abbia resa unica e irripetibile, ma quel che resta è che quella torta non è più una torta, ma la torta, il tuo personale, inspiegabile capolavoro.”
Alexandra arricciò il naso, e una ciocca di capelli biondi le cadde davanti al viso.
“Quindi il nonno era la tua torta?”
“La torta delle torte, piccina. La stella più luminosa del firmamento.”
“E lo hai amato sempre? Proprio sempre sempre?”
“Ogni minuto di ogni giorno. Ho amato ogni sfumatura dell'uomo appena fatto che era quando andammo a teatro insieme, e via con l'andare del tempo ho amato ogni suo sorriso, ogni suo malumore, ogni suo sguardo, ogni sua ruga, ogni sua debolezza.”
“Nonna... chi era quella Jane con cui parlavi?”
“Jane Austen, tesoro. Era una donna speciale, proprio come te. Quando sarai più grande, potrai avere i suoi libri, quelli che mia nonna donò a me.”
“Il nonno sapeva che tu parlavi con Jane?”
Calò un silenzio dolce.
“Il nonno conosceva ogni angolo di me. Mi ha colpita la felicità come un addio. Ogni notte, negli ultimi cinquant'anni, ho dormito tra le sue braccia e il tempo, come sempre, ce l'ha messa tutta ma non è riuscito a portarmelo via da dentro. Qualunque cosa sia accaduta, e ne sono successe così tante prima che tu nascessi. Tuo nonno è stato ogni cosa, per me. Lo sarà sempre.”
Una grossa lacrima rigò una guancia di Alexandra; nient'altro che uno specchio di quella sul viso sciupato di sua nonna, che strinse gli angoli della fotografia fino a deformarli.
“Ti ho raccontato tutto questo, bambina, perchè è necessario che tu sappia una cosa fondamentale: farà male. Dovrai scegliere, dovrai capire. Dovrai mettere in conto l'eventualità che tutto ciò per cui ti sei battuta sia nient'altro che nebuloso, silenzioso fumo, un'illusione, una chimera. Ma c'è qualcosa di lucente e durissimo come un diamante in quell'unica cosa di cui sarai davvero certa, e quando tutto di te tenderà verso quella meta, qualunque cosa accada saprai di aver ricamato la tua vita, non di averci solo messo una toppa per rimediare alle inevitabili tragedie e conseguenze del destino. Ricorda la differenza tra cucire e ricamare. Sarà l'unica cosa importante.”
William era morto quella mattina.
Nel sordo silenzio che albergava in lei, Victoria rivedeva una vita scorrerle negli occhi, di una dolorosa bellezza, di un'incredibile dolcezza.
Lasciò sua nipote sulla veranda, con un sorriso e un bacio, e rientrò nella camera in cui suo marito giaceva sul letto, sereno, come se dormisse.
In silenzio, si sciolse i lunghi capelli bianchi e prese posto su una sedia accanto al letto. Gli occhi di William erano chiusi, e sul volto segnato dal tempo restava l'espressione innocente e spensierata di quella sera che lo vide in teatro. Il mondo si fermò per lasciare che lei gli prendesse la mano e appoggiasse la testa sul suo petto, così, senza piangere, senza fare niente, se non respirare. Com'era assurdo accorgersi che il suo, di respiro, si era fermato. Quel petto su cui aveva poggiato la testa così tante volte da perdere il conto era immobile. Il mio William, pensò, e chiuse gli occhi.

Gli amici partirono come una volta fece Victoria, ognuno portando con sé qualcosa di quell'incredibile storia d'amore; le ceneri di lei e del suo William furono sparse un po' fuori dal Caffè di Parigi in cui lui le chiese di sposarla, un po' davanti al Garrick Theatre.
La migliore amica di Victoria fermò una lacrima tra gli occhi verdi mentre affondava la mano nel contenitore e consegnava al vento di Whitechapel l'ultima, importantissima parte di loro.
Pioveva, come un giorno di ottobre cinquant'anni prima.

 

Io ti darò
tutto quello che ho sognato,
tutto quello che ho cantato,
tutto quello che ho perduto,
tutto quello che ho vissuto,
tutto quello che vivrò
e ti darò
ogni alba,
ogni tramonto,

il suo viso in quel momento,
il silenzio della sera.
Vedi, darti solo la vita sarebbe troppo facile:
perchè la vita è niente senza quello che hai da vivere.



 

- fin -

   
 
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