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Primo quarto - Narrativa del mistero
Io e Trisha siamo
nate insieme.
Siamo gemelle
omozigote, il che vuol dire che
prima di dividerci in due esseri separati, il nostro DNA apparteneva ad
un
unico ovulo fecondato, un unico essere vivente in formazione.
Essere che per un
capriccio della natura, è stato
diviso in due corpi, quattro braccia, due cervelli, due cuori... ma
un'unica e
sola anima.
La mia potrebbe
essere filosofia spicciola, con
quest'uso di parole già sentite, già usate, ma
per noi due è sempre stato un
concetto più che valido: sin da quando ho memoria, ricordo
di aver condiviso
con mia sorella tutte le emozioni vissute da entrambe, anche nel caso
che
fossimo distanti e in due luoghi differenti.
Se lei soffriva, io
soffrivo; se io ridevo, lei
rideva; se lei si sbucciava un
ginocchio, io piangevo dal dolore, se un dente mi faceva male, lei
doveva
prendere un analgesico.
Penserete che sia
assurdo, che non sia possibile
una cosa del genere; ebbene quello era niente rispetto a ciò
che dovemmo
affrontare e che forse vi farà ricredere, così
come accadde a chi fu testimone
degli eventi.
Avevamo quindici
anni quando tutto accadde: quel
pomeriggio ero in casa a studiare, mentre Trisha tornava con mio padre
dall'appuntamento pomeridiano con il tennis. Di solito ci andavamo
insieme,
come ogni cosa che riguardava le nostre vite: ci dirigevamo tre volte a
settimana verso quell’ora di sport che tanto amavamo, che ci
metteva in
competizione, ma che riusciva anche a farci sentire una squadra, anche
se
quest’ultima non era una sensazione a noi estranea.
Io e Trisha eravamo
sempre una squadra, o forse
eravamo di più.
Forse eravamo solo
destinate a fare tutto
insieme. O quasi tutto.
Erano poche le cose
che non piacevano ad entrambe
e il tennis non era un’eccezione: a volte ci vedevamo come
due provette eredi
delle sorelle Williams e ridevamo pensando alla difficoltà
che avrebbero avuto
pubblico e giornalisti nel riconoscerci!
Quel giorno
però, decisi di restare a casa, in
vista dell'interrogazione di matematica.
Tra quelle poche
cose che ci dividevano c'era
proprio quella materia.
Trisha non aveva
problemi, mentre io faticavo a
capirla: mia sorella mi aveva aiutato spesso a comprenderla ma, se
spiegato da
lei tutto sembrava chiaro e semplice, appena restavo sola con gli
odiati
numeri, tornavo a cadere nel vortice nebuloso
dell’incomprensibilità. Per cui
decisi di tentare da sola: avrei dovuto affrontare di petto quella mia
incompatibilità,
senza l’aiuto di mia sorella, che si rivelava del tutto
inutile. Senza contare
che mi sentivo terribilmente in colpa sapendo che Trisha stava perdendo
gli
allenamenti a causa della mia incapacità: per quanto potessi
sentirmi in
competizione con lei, per quanto mi sentissi in diritto di fare ogni
cosa
insieme a lei, non avrei mai permesso che perdesse qualcosa a cui
teneva per
colpa di carenze mie. Così, seppure a malincuore, Trisha si
convinse ad andare
all’allenamento senza di me.
Quell'appuntamento
pomeridiano terminava alle
cinque del pomeriggio ed entro mezz’ora d’auto,
rientravamo a casa, dato che il
campo da gioco non era molto distante da dove abitavamo. Ma quella
volta,
quando ancora mancava un quarto d'ora per il ritorno di mio padre e mia
sorella,
un improvviso terrore mi bloccò, facendomi sudare freddo, e
seppi che qualcosa
era capitato a Trisha.
Passò
mezz'ora prima che la polizia ci avvisasse
che metà della mia famiglia era stata vittima di un
incidente d'auto e che se mio
padre se l'era cavata con qualche graffio, mia sorella era in grave
pericolo di
vita.
Io e mia madre
giungemmo trafelate all'ospedale,
ricongiungendoci subito con mio padre, e in breve i medici ci diedero
la loro
sentenza: Trisha era in coma.
Incapace di credere
che mia sorella non si
sarebbe più svegliata, le restai accanto tutto il tempo
possibile quel
pomeriggio, rifiutandomi di separarmi da quell'altra metà di
me stessa, finché
con la forza, riuscirono a dividerci.
Ma la distanza tra
noi non fu di lunga durata:
appena mi addormentai quella notte, nel letto che condividevamo da
quando
eravamo nate, la sognai.
Forse era
più giusto dire che fui invitata da lei
ad entrare nel luogo in cui si trovava, poiché faticai per
trovarla, dispersa
com’ero in quella vastità di luce, con solo la sua
voce a farmi da guida,
quella voce uguale alla mia, che sembrava solo una semplice eco.
Ma quando la
ritrovai, strinsi mia sorella a me,
felice di poter rivedere il suo - il nostro - sorriso e di poterle
parlare di
nuovo.
«Non
essere in pensiero per me, Tess, io sto
bene, mi sento in pace qui.»
«No
Trisha, tu devi tornare! Questo luogo non è
casa tua, qui non c'è la nostra famiglia, non ci sono io!»
«Non
è vero Tess, tu ora sei qui.»
«Ma quando
mi sveglierò resterai sola di nuovo, io
resterò sola di nuovo!»
«Allora
torna a dormire e mi ritroverai.», mi
disse in tutta calma, sorridendo serena.
E aveva ragione.
Mi bastava
addormentarmi per tornare con lei, per
essere di nuovo in sua compagnia, com'era sempre stato.
Di colpo, la notte
diventò il momento della
giornata che preferivo. Andavo a trovarla spesso in ospedale, ma in
quel
frangente per noi comunicare era del tutto impossibile: Trisha non
rispondeva
alla mia voce, non reagiva alle mie parole, e in fondo, sapevo che
continuare
ad averla nei miei sogni, poteva significare solo che le sue condizioni
non
stavano migliorando.
E infatti non
migliorarono.
Accadde esattamente
il contrario.
Dopo un paio di
settimane in stato vegetativo, le
sue condizioni fisiche mutarono verso il peggio ed io lo seppi prima di
tutti.
Una notte, mentre
eravamo intente nella nostra
solita chiacchierata onirica, di colpo Trisha spalancò gli
occhi e si premette
un fianco, dolorante: quasi contemporaneamente mi svegliai, preda dello
stesso
bruciante dolore e in preda alla sofferenza, svegliai i miei genitori.
Mi portarono al
pronto soccorso e fui visitata
immediatamente: la diagnosi fu che all'improvviso, senza una
spiegazione
medica, il mio rene
destro aveva smesso
di funzionare.
«Andate da
Trisha, andate a controllare; sta
male!», urlai
ai miei genitori tra
un'analisi e l'altra e loro si precipitarono nel reparto di terapia
intensiva,
consapevoli che i miei presagi sulle condizioni di mia sorella, non
potevano
essere ignorati.
Quando tornarono da
me, non mi stupii nel sentire
che Trisha aveva avuto delle complicazioni renali e che il suo rene
destro
aveva smesso di funzionare.
I medici decisero di
ricoverarmi per tenermi
sotto osservazione e i nostri genitori, da quella notte si divisero il
compito
di sentinella per monitorare lo stato di salute di entrambe le loro
figlie.
Quando riuscii a
dormire in quel letto
d'ospedale, la presenza di Trisha nel mio sogno si fece più
forte e palpabile e
la comune sofferenza rafforzò il nostro legame.
«Che sta
succedendo, Tess?»
«Stai
peggiorando, Trisha, ed io sto seguendo la
tua stessa sorte.»
«Oh, no!
No, non voglio che tu muoia! Non voglio
morire!»
Strinsi una delle
sue mani nella mia, e le feci
forza: «Non morirò, e non lo farai nemmeno
tu!»
«Ma cosa
possiamo fare? C’è un modo per
migliorare?», mia sorella era del tutto spaventata e il suo
sguardo mi chiedeva
di darle una speranza, richiesta che m’imposi di esaudire
seduta stante.
«Abbiamo
la volontà Trisha, la volontà di vivere.
Con quella potremo farcela e ti giuro che torneremo entrambe da mamma e
papà!»
«Ma…
come? Come possiamo farlo, se stiamo sempre
peggio?»
«Dobbiamo
lottare. Non dobbiamo arrenderci a
questa bianca nullità, non dobbiamo pensare di essere
stanche di soffrire.»
«Io non so
se ce la faccio…»
«Certo che
ce la fai, hai la forza per farlo ed
io sarò con te. Dobbiamo essere in due a volerlo Trisha,
perché da sola non
posso farcela. Ma se sarai determinata a guarire anche tu, riusciremo a
tornare
da mamma e papà, riuscirò a portarti via da
qui!»
La guardai con
fermezza e mia sorella sembrò
prendere forza dal mio sguardo deciso.
«Hai
ragione, devo essere forte, altrimenti ci
rimetterai la vita anche tu! Ce la faremo Tess, ti prometto che
lotterò fino
alla fine per sopravvivere!»
Da quella sera,
iniziai a sentire tutte le cure
che era costretta a subire; le mie braccia furono attaccate doppiamente
alla
flebo, il mio corpo fu duplicemente monitorato, e fui consapevole che
nonostante quella condizione di morte apparente, anche Trisha sentiva
doppiamente la terapia medica a cui ci stavano sottoponendo.
Le mie braccia
iniziarono a coprirsi di lividi
anche dove non erano passati gli aghi delle flebo, e quando mia sorella
aveva
crisi respiratorie, i medici erano costretti ad intervenire anche su di
me, che
annaspavo sentendomi mancare l'aria.
Ma nonostante quel
peggioramento continuo, ogni
volta che mi addormentavo e rivedevo Trisha, la ritrovavo sempre
più
determinata a salvarci e a ricongiungerci ai nostri genitori.
«Ce la
faremo Tess, io tornerò, non voglio più
stare qui, nel bianco del nulla!»
Mi strinse forte le
mani e mi guardò con
serenità, mentre osservai il suo viso riflettersi nel mio.
La ricambiai con lo
stesso sguardo determinato e comprendemmo che era giunta
l’ora di sfidare la
sorte in quel preciso istante.
Mano nella mano, ci
facemmo forza, concentrandoci
sulla nostra volontà di vivere e dopo una lotta di sei ore,
in bilico tra la
vita e la morte, riuscimmo entrambe a riaprire gli occhi.
Sono trascorsi dieci
anni da allora: Trisha ed io
siamo vive, siamo tornate a casa.
Ma nessuna delle due
parla più.
Ci è
stato chiesto un pedaggio per tornare
entrambe alla vita e sembra che il rene non sia bastato: senza alcuna
spiegazione scientifica, le nostre corde vocali hanno smesso di vibrare.
I medici non
riuscirono a dare una motivazione a
tutto ciò che ci accadde, dissero che non c'era alcun
fondamento medico nella
mia "malattia" e nella nostra guarigione congiunta.
A me poco importa.
Io ho la mia verità, quella
che ritrovo ogni volta in cui percepisco l'umore di Trisha, o quando
sento che
ha urtato lo spigolo di una porta - disattenzione che
porterà ad un livido
viola sul suo braccio e ad un'ombra scura sul mio - e soprattutto,
quando i
nostri sguardi, con la stessa espressione, la stessa forma degli occhi
e la
stessa luminosità, s'incontrano e si dicono che tutto va
bene, perché la nostra
anima e lì con entrambe.
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NDA
Ave gente! Questo breve racconto è stato ideato per la partecipazione al contest Racconti sotto la Luna del mese di Gennaio, che chiedeva ai partecipanti di cimentarsi con un brano che raccontasse di un mistero. Avevo iniziato a cercare quache mistero famoso nella storia, ma poi, la mia sempre viva attrazione per il legame speciale che esiste tra gemelli, mi ha dato l'ispirazione, ed eccoci qua. È un racconto senza pretese, ma che nasce da esperienze indirette che ho ascoltato personalmente, e che chiunque abbia avuto a che fare con gemelli omozigoti conoscerà bene. Il legame che c'è tra questi fratelli speciali è unico al mondo, e ho voluto intrecciarlo ed estremizzarlo, attraverso altri misteri come quello della vita dopo la morte. Spero che il lavoro che ne è scaturito, sia stato di vostro gradimento. ^ ^
Il racconto non ha raggiunto la vetta, ma ha ricevuto un soddisfacente gradimento, e se per caso voleste leggere gli altri brani partecipanti, potete farlo QUI.
Ovviamente, ringrazio già a priori chiunque si fermerà a leggere e a chi apprezzerà. E se per caso voleste lasciare un commento, ne sarei lieta. ^_^
Thank you so much <3