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Autore: BrokenArrow    26/05/2013    5 recensioni
"Non poté fare a meno di pensare a quanto, per una volta, avrebbe voluto essere lei a salvarlo. Avrebbe dato qualsiasi cosa, solo non sapeva come." Amatis Herondale
Da leggere con Kiss Me di Ed Sheeran come sottofondo.
Genere: Drammatico, Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Jace Lightwood, Stephen Herondale
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Cercami nei ricordi ~






Quando trovò la scatola, Amatis sussultò e indietreggiò quasi senza rendersene conto. La sua camera era sepolta in mezzo a così tante cianfrusaglie che a momenti pensava di averla persa per sempre. Aveva setacciato ogni angolo della stanza, maledicendo se stessa per non aver trovato un posto più in vista in cui avrebbe potuto custodirla fino a quando sarebbe arrivato il momento.
La verità era che non pensava che quel giorno sarebbe mai arrivato.
E quando scorse la scatola in uno scaffale inferiore della libreria, nascosta dai libri polverosi, fu stranamente turbata, come se avesse appena trovato un oggetto che la rendesse colpevole di un delitto di cui erano state cancellate le prove anni fa e fosse inaspettatamente tornato a galla.
Si inginocchiò lentamente e con cautela prese la scatola tra le mani, avvicinandosi verso il letto perfettamente immacolato, che emise un debole cigolio. Esitò un attimo dopodiché soffiò via il sottile strato di polvere che si era depositato sulla scatola. Chiuse gli occhi e, con un forte respiro, passò lentamente una mano sulla liscia superfice argentata in cui erano incisi dei motivi a uccello, in volo verso l’alto. Il simbolo degli Herondale.
Il tocco le provocò una leggera scossa ma forse se l’era solo immaginato. Ultimamente si sentiva come se stesse pian piano perdendo il contatto con la realtà e questa cosa le faceva un po’ paura. Ma allo stesso tempo non le interessava.
La sua vita, così come era incominciata con Stephen, così era finita con la sua morte. Il suo Stephen. Aveva passato tutti quegli anni, dopo la sua morte, come in un sogno da cui, ne era certa, non si sarebbe mai risvegliata. Non sapeva se quello significasse vivere, ma lo dubitava fortemente.
Era esistere  e nulla più.
Non sarebbe mai tornata quella di prima, come mai le cose sarebbe tornate quelle di un tempo per quanto lo avesse voluto. Era impossibile ripetere il passato.
Una ciocca di capelli grigia, sfuggita dalla crocchia che aveva raccolto in alto le scivolò davanti, sul viso, dandole quell’aria da ragazzina che ormai aveva perso. La ricacciò indietro nervosamente, come per allontanare un pensiero non gradito.
Gli occhi incominciarono a pruderle fastidiosamente ma si sforzò di ricacciare indietro le lacrime imminenti. E anche se l’avesse fatto, se si fosse abbandonata al pianto, sarebbe stato un gesto inutile. Aveva già versato così tante lacrime, così tanto dolore in passato, che non sapeva più per che cos’altro avrebbe dovuto farlo. Non c’era più spazio per il dolore dentro di lei. Non c’era più spazio per niente.
Nella luce soffusa del tramonto che filtrava dalla finestra, le sembrò di tenere tra le mani qualcosa di irreale. E ancora una volta non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe arrivato quel momento. Il momento in cui si sarebbe separata per sempre da quella scatola.
Dopo aver saputo da suo fratello, Luke, che Jace era il figlio di Stephen, la prima cosa a cui aveva pensato era che quella scatola sarebbe dovuta appartenere a quel ragazzo e non a lei. Fino a quel giorno l’aveva riempita di lettere, fotografie, tutto ciò che le era rimasto di Stephen. Tutto ciò che la teneva ancora legata a lui e che aveva nascosto per tutti quegli anni. All’inizio non sapeva bene da cosa ma poi col tempo aveva capito: l’aveva nascosta soprattutto da se stessa, per paura che i ricordi tornassero a galla e la trascinassero con sé. Aveva paura di annegare, che questa volta non ce l’avrebbe fatta a sopportare il peso di quella vita che non le apparteneva e che odiava con tutta se stessa ma che non poteva fare altro che vivere.
Eppure quella scatola era l’unica cosa concreta che la teneva ancora legata a Stephen, a quella vita perfetta che le era capitata tra le mani così velocemente come se n’era andata. In tutti quegli anni non aveva mai avuto il coraggio di aprire il prezioso cimelio che custodiva tra le mani, per paura che quello che vi avrebbe trovato dentro, quello che lei stessa aveva conservato con cura per anni, l’annientasse definitivamente.
Ma quella era l’ultima occasione che le restava per farlo.
Fece scattare il fermo del lucchetto e inspirò a fondo mentre la parte superiore della scatola si alzò davanti ai suoi occhi. 
Non avrebbe dovuto farlo.
I ricordi che fino a quel momento aveva tenuto lontani la investirono come il vento violento e implacabile di una tormenta. Ma uno più di tutti afferrò la sua mente.
Il giorno in cui tutto era cambiato.


La fresca brezza della sera soffiava leggera tra le ciocche castane di Amatis, sfuggite via dal fermaglio d’argento che portava alto sulla nuca. Quel freddo insolito che accompagnava gli ultimi raggi di sole la fece rabbrividire.
Si strinse nel vestito argenteo che le lasciava scoperte le braccia e si strofinò le spalle per riscaldarsi. Era seduta sul muretto di pietra che costeggiava la strada terrosa al limitare della foresta, estesa sconfinata attorno ad Alicante. Una pace assoluta regnava intorno a lei.
Fin da quando era piccola le era sempre piaciuto estraniarsi in un posto in cui nessuno l’avrebbe trovata, il suo passatempo preferito era chiudere gli occhi e concentrarsi unicamente sui rumori di tutto ciò che le stava intorno ma era invisibile ai suoi occhi. Come se un intero mondo nascosto si schiudesse, per mostrarsi a lei e a lei soltanto. Aveva sempre avuto una fervida immaginazione.
Perciò, anche quella volta, chiuse gli occhi e restò in ascolto. Catturò il cinguettio squillante di quella che probabilmente doveva essere una ghiandaia, poi il gracchiare lontano di un corvo. Era così concentrata, immersa nel suo mondo, che non si accorse minimamente dei passi sommessi di una figura che le si stava avvicinando silenziosa.
 
“Ehi, sognatrice!”

Riaprì gli occhi sapendo già chi si sarebbe trovata di fronte. Conosceva fin troppo bene quella voce profonda e rassicurante.
Stephen.
Un sorriso si fece strada agli angoli della sua bocca e un improvviso nervosismo le attraversò tutto quanto il corpo, come una scarica di elettricità.
Per un momento le sembrò di tornare alla prima volta in cui lo aveva visto, la prima volta in cui gli aveva parlato, come quando si riavvolge il nastro di una videocassetta e lo si fa ripartire dall’inizio e ci si sente attraversare da quell’impazienza e curiosità che si prova solo di fronte a cose nuove e sconosciute.
Era quello l’effetto che le faceva sempre la sua presenza. Come fosse qualcosa di prezioso e nuovo ogni volta.
 
“Stephen!”

Si alzò dal muretto e con un balzò scese a terra coprendo la distanza che li separava, in una corsa frenetica con il sorriso sulle labbra. Lui la catturò con le sue braccia possenti e sollevandola da terra l’avvolse a sé. L’impatto lo fece barcollare leggermente all’indietro.
Si dimenticava sempre che, nei tratti dolci e nella costituzione sottile di Amatis, si nascondeva un’incredibile forza. Chiuse gli occhi e con una mano le accarezzò i capelli. Lei gli premette il viso contro il petto inspirando forte il suo odore. Sapone e limone. Le mani aggrappate alla sua camicia.
Per un attimo ebbe la fugace illusione che gli avvenimenti delle settimane precedenti, si fossero dissolti come sogni. Che tutto fosse perfetto come sempre.
Ma si sbagliava.
C’era qualcosa in quell’abbraccio, una certa rigidità e incertezza nel modo in cui lui la stava stringendo a sé che le fece capire che qualcosa non andava. Ormai era in grado di cogliere l’umore di Stephen dalla sua postura o da un suo semplice gesto. Alzò lo sguardo verso il suo viso scontrandosi con le pagliuzze verdi azzurre dei suoi occhi.
Non aveva mai visto il mare in vita sua, eppure era sicura che sarebbe stato dello stesso colore dei suoi occhi.
Le rivolse un sorriso contrito, forzato, velato da una leggera inquietudine che Amatis colse all’istante.
Stava cercando di apparire sereno, ma a lei, che lo conosceva come il palmo della sua mano appariva come per quello che era veramente in quel momento: combattuto.
Per cosa, non riusciva a immaginarlo.
 
“Stephen… è successo qualcosa?” A quella domanda il viso di lui si contrasse ancora di più, preso alla sprovvista. Amatis lo aveva capito sin dall’inizio. Quando lui le aveva chiesto di incontrarsi in quel posto appartato e inusuale aveva subito capito che c’era qualcosa di strano, qualcosa d’importante che lui doveva dirle. Eppure non era riuscita a capire cosa. Anche se, ora che percepiva la sua irrequietezza, non poteva che essere una brutta notizia.
Stephen sospirò e fece scivolare le mani sottili sulla sua schiena fino alle spalle ossute, dove si arrestarono. Fu solo quando fece un passo indietro che Amatis lasciò andare le mani, che un momento prima erano strette alla sua camicia. Le mani inerti lungo i fianchi.
Stephen sostenne a lungo il suo sguardo come se stesse cercando disperatamente nei suoi occhi qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa che gli impedisse di cadere e trascinare lei con sé.
Salvare entrambi.
Ma sapeva che per lui non c’era salvezza. Ormai era troppo tardi. Era impossibile tornare indietro. Doveva dirglielo, e basta.
 
“Amatis, noi...” fece una pausa e per un breve attimo studiò il suo viso nella speranza di trovarvi un qualche segno di comprensione. Ma era impenetrabile, come sempre.
E, come sempre, non poteva sopportare di vedere il proprio dolore riflesso negli occhi di lei. Inspirò a fondo e, poiché lei non disse niente, continuò.
 
"Dobbiamo smettere...” Le parole gli scivolarono via dalle labbra, come l’acqua sulle rocce levigate di un fiume. Strinse più forte le mani sulle sue spalle nude, l’unico appiglio che gli impedisse di cadere a terra.
Ed era così.
La sua presenza era sempre stata essenziale per lui. Lei era sempre stata la sua colonna, il suo porto sicuro, mentre intorno a loro imperversava la tempesta.
 
“Smettere? Smettere cosa?” gli chiese lei, con voce spezzata, un angolo della sua bocca si piegò in una smorfia di scherno, se per l’incompletezza di quella frase o per l’assurdità della situazione non seppe dirlo. Lui chiuse gli occhi, con una smorfia di dolore, come se fosse stato appena accecato dalla luce del sole. Ma Amatis stessa era quella luce.
La sua luce.
Sapeva che, guardandola negli occhi, non sarebbe stato capace di andare fino in fondo, sapeva che, guardandola nel profondo della sua anima, nella quale non avrebbe visto nient’altro che il suo stesso riflesso, sarebbe stato sconfitto. 
 
“Smettere di vederci.” Sussurrò Stephen. Le aveva pronunciate, le parole da ci non si poteva più tornare indietro. 
Smettere. Di. Vederci.
Ogni parola detta era come un ago velenoso, sia per lui che le aveva pronunciate sia per lei che le aveva sentite. Perché dirle ad alta voce le rendeva vive, reali.
Amatis scattò indietro, liberandosi dalla presa di lui come se le sue mani, a contatto con la sua pelle, l’avessero scottata all’improvviso.

“Cosa…?” Ma non fu capace di andare avanti, di formulare un frase sensata, tra tutti i pensieri che le affollarono la mente come uno stormo di uccelli rapaci. L’idea che non l’amasse più era un pensiero insopportabile quando inconcepibile.
E poi capì.
Stephen le aveva detto ‘dobbiamo’, come se non fosse stata una sua decisione, ma quella di qualcun altro presa al posto suo, per lui.
 
“Valentine…” disse in un sussurro, gli occhi ridotti a due fessure. Ma il fatto di tradurre in parole ciò che pensava la resero solo più incredula.
Fu solo l’espressione di puro terrore che attraversò il viso di Stephen, non appena pronunciò quel nome, a confermare la sua supposizione. “Lui… E’ stato lui a dirti di venirmi a dire questo, non è vero?” La sua voce si alzò di un tono sulle ultime parole.
Per un attimo pensò che sarebbe scoppiata da quanta rabbia stava trattenendo dentro di sé.

“Amatis, io…”

“Dimmelo! Ho il diritto di saperlo!” Ora stava urlando, urlando per soffocare il dolore che aveva cominciato a prenderla, come una morsa. Lui la guardò mestamente, immobile. Qualche metro di distanza a separarli. Tutto intorno a loro sembrava essersi fermato all’improvviso. Il sole esitava nel suo tramontare e dalla foresta ora non proveniva alcun rumore. Nessun segno che potesse dare prova della realtà che li circondava. Era come se Amatis stesse vivendo un sogno.
O meglio: un incubo.
 
“Sì.” E mentre rispose, Stephen si portò una mano sul viso, tra i capelli, celando un occhio. “E’ stato lui. Ma non importa… Perché ho capito, ho capito che quello che mi ha ordinato di fare, è in realtà un’occasione, un’opportunità. E’ l’unico modo…” Fece un pausa, per riprendere fiato. “L’unico modo in cui potrò allontanare almeno te da tutto questo. Salvarti.

“Salvarmi? Perché te lasciarmi significa questo?” Sentì un dolore lancinante al petto, e il sangue le affluì alle guance. Strinse i pugni con il cuore che le batteva violentemente. Non riusciva a credergli.
Come poteva minimamente pensare che la lontananza l’avrebbe salvata?
 
“Non lo capisci? Io ti amo, per l’Angelo, ti amo! E proprio per questo devo lasciarti.”
 
“No. Tu dici di amarmi ma… Tutto questo non ha senso. Non ha senso!” Urlò lei, con tutta l’aria che aveva nei polmoni. Lui non rispose e abbassò la testa, lo sguardo così vacuo che Amatis si spaventò del vuoto che colmava i suoi occhi inghiottendone l’azzurro.
Da quando Stephen era cambiato così radicalmente? Come aveva potuto non notare il turbamento che lo stava divorando dentro? Come aveva fatto a non notarlo?
 
 “L’amore è una contraddizione.” Le disse, e nella sua voce non ci fu altro che disperazione, ma anche rassegnazione, rassegnazione per l’ineluttabilità di quelle parole.
E Amatis, nonostante la rabbia cieca che la stava divorando, e che, in realtà, non era altro che un diversivo del dolore, nonostante la sensazione di essere appena stata tradita dall’uomo che amava, non poté fare a meno di notare quanto quello stesso uomo che aveva di fronte, all’apparenza forte, sicuro di sé, ora non era altro che un semplice ragazzo, spogliato di tutte le sue apparenti sicurezze: fragile, vulnerabile, perso.
Non poté fare a meno di pensare a quanto per una volta avrebbe voluto essere lei a salvarlo. Avrebbe dato qualsiasi cosa, solo non sapeva come.
Stephen la fissò a lungo e poi andò avanti, più il tempo passava più si sentiva soffocare.

“Dopo che te ne sei andata dal Circolo, Valentine ha incominciato a insospettirsi, a dubitare sempre di più delle mie capacità in quanto suo secondo. Ha paura che tu possa farmi cambiare idea, che io possa tradirlo, come se dentro di me non l’avessi già fatto… E per questo, per far sì che sappia con certezza della mia lealtà nei suoi confronti mi ha ordinato di lasciarti e...” la voce gli si spezzò. Ci siamo, pensò Stephen. Il punto di non ritorno.
 
“E cosa? C’è dell’altro?” lo incalzò lei, alla sua esitazione. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non sapere la conclusione di quella frase, perché aveva una vaga idea di come sarebbe finita.
 
“Vuole che sposi un’altra donna. Celine Montclair…” Stephen alzò lo sguardo e incrociò i suoi occhi. Sapeva che questo era ciò che le avrebbe procurato il dolore più grande. Si era preparato in tutti i modi, per dirglielo nel modo meno doloroso possibile ma la verità era che in un modo o nell’altro non avrebbe potuto salvarla dal dolore.
Tutto ciò che voleva in quel momento era stringerla a sé, darle un briciolo di conforto, farle capire che l’amava e l’avrebbe sempre fatto. Ma si sentì impotente, bloccato, incapace anche solo di sbattere le ciglia.
Sono solo un codardo, pensò con amarezza. Non so nemmeno proteggere la donna che amo.
Anche Amatis era ferma, immobile come una statua, incapace di parlare, sentiva solo un ronzio sordo alle orecchie e per un momento pensò di essersi immaginata tutto, di stare impazzendo. Ma poi sentì le parole di Stephen riecheggiarle nella mente. Vuole che sposi un’altra donna. Un’altra donna. Celine.
E capì che era tutto vero. Che quello non era un semplice incubo, un brutto sogno da cui presto di sarebbe risvegliata, ma la realtà.
Il suo futuro con Stephen, tutto ciò che si era immaginata, tutti i suoi sogni, tutto, svanì in un buco nero della sua mente.
E cadde. Cadde a terra in ginocchio, come un peso morto. Le sue stesse gambe incapaci di sorreggerla più. Le sue mani aperte, sulla terra, erano l’unica cosa che le impedivano di crollare definitivamente. Gli occhi sbarrati fissarono per qualche secondo i sassolini tra le dita e poi la sua vista si offuscò e lacrime che non poteva fermare impregnarono la terra sotto di sé. Non voleva piangere, non in quel momento, non davanti a lui.
Ma il dolore che provava era troppo grande per poter essere nascosto.
Sapeva ciò che Valentine era in grado di fare pur di ottenere ciò che voleva. Non importava che quello che faceva, fosse sbagliato e immorale, se era destinato a un bene più grande. Il suo fine giustifica sempre i mezzi con cui aveva intenzione di ottenerlo. Lo aveva capito sin dall’inizio, o almeno quasi.
Nonostante inizialmente avesse abbracciato le idee del Circolo, il loro intento di purificare la razza degli Shadowhunters, a scapito dei Nascosti, si era ben presto accorta che gli ideali di Valentine erano solo quelli di un pazzo visionario, dissoluto e pronto a tutto pur di raggiungere i suoi scopi. E lei non avrebbe mai accettato di far parte di una cosa del genere. Mai.
Aveva sperato che anche Stephen l’avrebbe capito prima o poi, e così era successo ma troppo tardi, troppo tardi per tornare indietro e riaggiustare le cose.
Entrambi sapevano che, essendo la persona più vicina a Valentine, il suo secondo, dopo che Luke, il fratello di Amatis, era rimasto ucciso in uno scontro con un branco di licantropi, qualora Stephen avesse deciso di abbandonarlo, ne avrebbe pagato le conseguenze con la vita stessa.
Era l’unico motivo che impediva ad Amatis di lasciarlo solo, in balia del suo destino, oltre al fatto che lo amava più di qualsiasi cosa.

“Amatis, ti prego…” la supplicò lui. “Dì qualcosa… qualsiasi cosa ma non ignorarmi, non posso sopportare un minuto di più del tuo silenzio.”
Immersa nei suoi pensieri, non si era minimamente accorta che ora le stava di fronte, in piedi, a qualche centimetro di distanza. Stephen allungò, incerto, un braccio verso di lei e le sfiorò dolcemente i capelli, ma Amatis allontanò bruscamente la sua mano, schiaffeggiandola. “Non…” Disse, tra i singhiozzi. “Non toccarmi.” Stephen si irrigidì, lo sguardo ferito. Amatis alzò la testa per guardarlo in faccia e subito si sentì in colpa per la durezza delle sue parole.
 
“Se solo mi lasciassi spiegare. Non pretendo che tu capisca, ma almeno lasciami spiegare.” Non lo aveva mai sentito parlare con così tanta disperazione prima di allora.
E il suo sguardo perso, come quello di un uomo poco prima della sua esecuzione, per poco non la fece crollare in pezzi.
“Allora dimmi, che cosa c’è da spiegare? Se non che quell’uomo pazzo, che corrisponde al nome di Valentine, ti sta portando via da me, facendoti sposare un’altra donna che conosci a mala pena e che non ami?”
 
Stephen incapace di rispondere, incapace di contraddirla, si inginocchiò a sua volta e avvolse le braccia intorno al suo corpo. La strinse forte a sé, facendole sentire tutto se stesso.
E Amatis questa volta non lo respinse. Intrecciò a sua volta le braccia intorno al suo collo, aggrappandosi al colletto della sua camicia. Rimasero così, abbracciati ma eternamente divisi.
Infine fu Stephen a spezzare il silenzio.
 
“Non ho scelta…” le disse lui con voce rotta, asciugandole le lacrime che le solcavano il viso.
 
“Una scelta c’è sempre.” A quelle parole, Stephen la guardò in viso e desiderò con tutto se stesso che lei avesse ragione.

“Non questa volta.” Le sussurrò, scuotendo la testa. Le prese il viso tra le mani, costringendola a guardarlo a sua volta. Amatis desiderò disperatamente immergersi in quel mare che sembrava prendere vita propria nei suoi occhi.
 
“Credi che, se potessi scegliere, ora sarei qui, a dirti tutto questo? Credi che sarei costretto a lasciarti se sapessi che c’è un altro modo? Ma non c’è. Non c’è.” Il respiro di lei tornò più regolare, confortata dal calore così familiare che emanava il corpo di Stephen intorno a lei. La sua camicia era bagnata dalle sue lacrime, nel punto in cui lui l’aveva stretta a sé.
 
“Potremmo scappare, andarcene da Idris, in un posto sicuro, in cui lui non ci troverà mai.” Disse Amatis debolmente, e si sentì ridicola, ridicola perché sapeva che quella che covava dentro di sé era solo una delle tante vane speranze di cui ogni essere umano non poteva fare a meno.
Ma ormai era troppo tardi, troppo tardi per loro di essere felici e al sicuro.
Troppo tardi per tutto.
 
“Sai che ci troverà, lui ci troverà… sempre.” Le sussurrò Stephen, tra i capelli, solleticandole la pelle dietro la nuca. La cullò dolcemente come una bambina appena risvegliatasi da un incubo, sfiorandole delicatamente la schiena. E per un po’ quel gesto la confortò, inebriandola con il suo profumo. La rabbia cieca che aveva provato all’inizio era svanita più velocemente di quanto aveva previsto.
Ora, l’unico sentimento che provava, peggiore della rabbia stessa, era il vuoto.
“Quinti è tutto inutile. Qualsiasi cosa faremo sarà tutto inutile…”

Stephen annuì lentamente senza dire nulla.
 
“E io dovrò semplicemente stare a guardare, mentre tu sposerai un’altra donna, e magari ti innamorerai di lei?”
 
“Lo sai che questo non accadrà.” Gli ultimi raggi del sole si erano posati sui capelli di Stephen, rendendoli più dorati che mai. Un gioco di luci e ombre degno di essere ritratto da un pittore. Il pensiero che avrebbe dovuto rinunciare a ogni parte di lui le fece male. Deglutì a fatica e cercò di trovare le parole.
 
“So che l’amore è qualcosa d’imprevedibile. Non puoi essere certo che non accadrà. Col tempo finirai per amarla…”
 
“Non sum qualis eram bonae sub regno Cynarae.” Recitò lui, così a bassa voce che Amatis pensò di esserselo immaginato. Non essendo mai stata molto brava in latino capì solo qualche parola confusa.
Fu Stephen a tradurre per lei.

Non sono più lo stesso che ero quando stavo nel regno della bella Cynara. Questo succederà. Non sarò più lo stesso senza di te al mio fianco. Non potrò mai amare un’altra donna all’infuori di te.” Con una mano le tracciò il contorno del viso, degli occhi e infine delle labbra. “Tu sei stata, sei e rimarrai per sempre l’unica donna che abbia mai amato.” Le sfiorò delicatamente le labbra e continuò. “Ho fatto tante scelte sbagliate nella mia vita. Ma non permetterò che quella che riguarda la donna che amo diventi una di quelle scelte. Non ti sto lasciando. Ti porterò sempre con me, qui.”
Sbottonò qualche bottone della camicia e le prese una mano, appoggiandola sul proprio petto, nel punto esatto in cui si trovava la runa che simboleggiava il loro matrimonio. La runa a metà che andava a completarsi con quella che Amatis aveva marchiata su un braccio. Quando Stephen le sfiorò la runa con la mano libera, le tornarono in mente le parole sacre contenute all’interno del Cantico di Salomone, le parole che, nel momento in cui erano state pronunciate, avevano legato le loro vite per sempre.
 
Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l'amore.
 
“Allora te le ricordi…” disse lui, con aria sognante. I suoi occhi che poco prima le erano apparsi così vuoti all’improvviso si accesero, come illuminati di luce propria. Amatis sussultò, rendendosi conto di aver parlato ad alta voce e che Stephen l’aveva sentita.
 
“Certe che me le ricordo! Sai, ero abbastanza consenziente quando ti ho sposato.” Rispose indispettita, accennando un sorriso. Stephen le rivolse un sorriso sghembo, divertito e triste al tempo stesso.
Fu un attimo e subito tornò serio. Prese il viso di Amatis tra le sue mani con delicatezza e la guardò, nel profondo dei suoi occhi color ghiaccio.
 
“Voglio darti una cosa.” E così dicendo infilò un mano in una delle tasche e ne estrasse una piccola pietra, all’apparenza come tutte le altre. Ma nel momento in cui entrò a contatto con la sua pelle si illuminò di un bagliore azzurro.
La sua stregaluce. La pietra che ogni Cacciatore portava con sé, la pietra in grado di illuminare anche i luoghi più oscuri e profondi della terra.
La appoggiò sulla mano di Amatis e con l’altra mano la chiuse intorno al suo palmo. La pietra piacevolmente fredda nella sua mano strideva con il calore delle mani di Stephen sulla sua.
 
“Stephen, non puoi donarmela… Appartiene a te.”
 
“C’è solo una cosa che mi appartiene veramente. E questa cosa sei tu, Amatis.” Le disse con dolcezza, accennando un debole sorriso e accarezzandole le mani. Lei non riuscì a trovare le parole, così abbassò lo sguardo sulle mani intrecciate a quelle di lui. Piccole cicatrici ricoprivano le sue dita e andavano a intrecciarsi come sottili ragnatele.
Avrebbe dovuto rinunciare per sempre a quelle piccole imperfezioni che lo rendevano perfetto, reale. Stephen le alzò il mento con una mano, costringendola a guardarlo negli occhi che ora, con la luce del crepuscolo, erano più verdi che azzurri.
 
“Questo non è un addio.” Le disse, scandendo ogni parola. Gli occhi ardenti e vivi. “Okay?”
Era davvero come diceva lui? Tutto quanto non presagiva forse una separazione inevitabile? Non si stavano forse dicendo addio? No, aveva ragione. Questo non era un addio  e mai lo sarebbe stato. Non importava se avrebbero dovuto stare lontani l’uno dall’altra, non importava se lui avrebbe dovuto sposare un’altra donna, non importava se lui avrebbe amato un’altra donna.
Solo quell’attimo contava.
La certezza che lei sarebbe sempre stata sua e lui sarebbe sempre stato suo.

“Okay?” chiese di nuovo Stephen, questa volta con più insistenza. La voce tremante, in attesa.Amatis avvicinò il proprio viso al suo e con un sussurro sfiorò le sue labbra.
 
“Okay.” E i muscoli di Stephen si rilassarono. Le sue mani si insinuarono tra i suoi capelli fino a fermarsi nel punto in cui erano raccolti in una crocchia. Lentamente sfilò il fermaglio argenteo e i capelli castani le ricaddero dolcemente sulle spalle, solleticandole la pelle.
Lui la guardò negli occhi, guardò dentro di lei, e poi la baciò. La baciò come non aveva fatto mai fatto prima. Le baciò gli angoli della bocca, come se nessuno altro, all’infuori di lui, avrebbe potuto farla ridere. Le baciò le guance, come se nessun altro avrebbe potuto sfiorarle più. Le baciò gli occhi, come se nessun altro, eccetto lui, sarebbe mai stato guardato ancora da lei. Le baciò le spalle, le braccia, le mani, come se nessun altro avrebbe potuto più prenderla per mano, toccarla. La baciò ovunque come a dimostrare che ogni parte di lei apparteneva a lui e a lui soltanto.
Un bacio, un sigillo.
Tra un bacio e l’altro, Stephen sussurrò deboli parole, senza però che lei riuscisse a carpirne il significato. Le spostò dolcemente i capelli castani da una parte e premette le sue labbra sul suo collo. Amatis inarcò la testa, scossa da brividi e le sue dita si fecero strada tra i suoi capelli arruffati.
Fu quando le sue labbra si posarono dietro il suo orecchio sinistro che finalmente capì ciò che le aveva sussurrato sulla pelle fino a quel momento.
Il suo nome.
Solamente il suo nome.
Le labbra di lui finirono per posarsi di nuovo sulle sue, delicate come il tocco di una farfalla e lo ripeté di nuovo, come se mai ne sarebbe stato stanco. Le sembrò di ascoltare una dolce litania di cui lei stessa ne era le parole e il significato. Non si era mai accorta di come il suo nome suonasse così delicato nella sua bocca fino a quel momento.
Strano, pensò, che se ne fosse accorta solo alla fine.
 
“Amatis, Amatis, Amatis…”
 

Amatis aprì gli occhi e un bagliore azzurro la colpì in pieno viso. Guardò in basso verso la piccola pietra fredda e luminescente adagiata sul palmo della sua mano.
La stregaluce di Stephen. La stessa che lui le aveva donato. Mentre il ricordo l’aveva posseduta non si era accorta di averla presa tra le mani.
Si alzò di colpo in piedi, come se avesse avuto tra le mani un carbone ardente, facendo cadere la scatola e lasciando andare la pietra, che rotolò con un tonfo secco sul pavimento. Il forte bagliore che emanava fino a poco prima, divenne sempre più flebile fino a spegnersi completamente. Senza la sua luce azzurra sarebbe stata scambiata per una pietra qualunque.
Amatis si allontanò bruscamente e barcollando raggiunse la finestra come un cieco che dopo interi giorni passati a brancolare nel buio vede la luce per la prima volta. Ci si appoggiò contro, con le mani saldamente tese sul davanzale di pietra, quasi temesse di crollare a terra da un momento all’altro. Dopodiché si concentrò su un punto fisso davanti a lei e strinse forte gli occhi per cancellare la visione che aveva appena avuto. Il ricordo era stato così vivo che per un momento aveva davvero creduto di essere tornata indietro nel tempo.
Che la stregaluce portasse con sé i ricordi dei Cacciatori che un tempo era stati loro proprietari?
Non lo sapeva. Era troppo assurdo perché potesse crederci. Cercò di allineare il suo respiro con i battiti del suo cuore che le pulsava violentemente nel petto, chiedendosi come fosse possibile che i ricordi potessero esercitare ancora una così grande influenza su di lei.
Anche a questo non seppe rispondere. Forse valeva così per tutti.
Fece un lungo respiro e alzò la testa. Non appena guardò oltre la finestra il suo sguardo si posò su una figura alta che stava attraversando l’altra parte della strada, diretta verso casa sua.
C’era qualcosa in quella persona che la fece sussultare e sgranare gli occhi. La camminata decisa e sicura di sé, i capelli biondi e lucenti che catturavano gli ultimi raggi del sole morente. Tutto in quella persona le diceva che quello era Stephen. Ma lui era morto, tanti anni prima, come poteva solo minimamente pensarlo?
Non è possibile, pensò sconcertata. Per un momento si convinse di stare veramente impazzendo se non fosse che il ragazzo, avvicinandosi sempre di più, alzò leggermente il viso e Amatis poté scorgere il colore dei suoi occhi. Erano di un marrone così chiaro e intenso da sembrare oro.
Gli occhi di Celine.
Gli occhi della donna che gli aveva portato via Stephen.
Amatis sapeva che lei non aveva veramente colpa: era stato Valentine a dividerli. Ma era lei ad ed essersi addormentata ogni notte al suo fianco, era lei a essersi svegliata con il respiro di lui che le solleticava il viso, era lei la persona con cui aveva passato il resto dei suoi giorni, era lei che aveva preso il suo posto, lei che le aveva rubato la sua felicità e l’unica cosa per cui era certa valesse la pena vivere.
E ora guardando Jace, quel giovane ragazzo sotto casa sua, il figlio della persona che aveva amato più di chiunque altro, si chiese come avesse fatto a non accorgersene prima della forte somiglianza che, nonostante gli occhi, aveva con Stephen.
Due colpi decisi alla porta del piano di sotto la riportarono alla realtà, lontano dai dolorosi ricordi del passato. Raccolse la stregaluce che aveva fatto cadere e quando si inginocchio per raccogliere la scatola d’argento notò, tra gli oggetti che si erano riversati sul pavimento, una lettera sigillata e mai aperta.
Tre parole, in una calligrafia sinuosa che Amatis conosceva bene, erano tracciate sulla busta.
A mio figlio.
E all’istante si ricordò di quella lettera, la lettera che Stephen le aveva consegnato qualche settimana prima di morire, facendole promettere che l’avrebbe data a suo figlio.
Jace.
E allora capì, senza la minima incertezza, che il contenuto di quella scatola era destinato a lui e a lui soltanto. Si rialzò in piedi, lisciandosi il vestito leggermente sgualcito, e scese le scale quasi per inerzia, che scricchiolarono a ogni passo. Quel suono familiare le conferì la calma di cui aveva bisogno, come l’effetto che una runa aveva su un Cacciatore. Fece scattare la serratura d’ottone arrugginita e aprì la porta con il cuore in gola e le mani tremanti.
Jace. Il ragazzo è il figlio di Stephen.
Le parole di Luke le riecheggiarono persistenti nella mente. Senza proferire parola i due si guardarono in attesa che l’altro rompesse il silenzio intorno a loro.
Amatis scrutò dall’alto in basso quel ragazzo che presto sarebbe diventato un uomo, soffermandosi sul viso, sulle linee dure che lo attraversavano, sugli zigomi leggermente spigolosi, e all’improvviso capì che di una cosa si era sbagliata.
I suoi occhi.
Riuscì a scorgere il suo Stephen anche nei suoi occhi ambrati, così estranei eppure allo stesso tempo familiari per ciò che comunicavano: una certa impazienza e spavalderia che lei conosceva fin troppo bene e aveva amato.
E per un momento le sembrò davvero che tutto sarebbe andato per il meglio, che sarebbe riuscita ad andare avanti, ancora una volta. Se non altro ci avrebbe provato.
Per Stephen. Per se stessa.
 
“Sì?"






Innanzitutto, se sei arrivato/a fin qui significa che il mio obbiettivo è riuscito nell’intento, quindi grazie, grazie per essere entrato/a nella mia mente per un po’ :)
Credo che questa one shot fosse nella mia testa già da molto tempo. Aspettavo semplicemente il momento giusto, l’ispirazione soprattutto, per metterla per iscritto.
Perché ho scelto proprio Stephen e Amatis? Semplice, perché penso che non esista storia più tragica e triste della loro.
E io amo le storie tristi.
 
Giulietta
 
NDA:
La frase latina, “ Non sum qualis eram bonae sub regno Cynarae ”, è tratta dal libro 4 delle Odi di Orazio ed è presente nella lettera stessa che Stephen scrive a Jace prima che lui nasca, nella parte in cui si riferisce ad Amatis.
Andate subito a leggerla, se non l’avete già fatto (non si sa mai.)
  
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