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Autore: Chiandistelle    27/05/2013    1 recensioni
John Watson era arrivato come un inaspettato ed ostinato filtro, rendendolo sempre più trasparente, puro e bello. Un conduttore di luce efficace e tremendamente normale, come milioni al mondo. Somigliava al Sole: una stella come miliardi di miliardi nell’universo, eppure essenziale per la Terra, mentre continuava a gravitarle intorno.
E se non era il Sole a girare attorno alla Terra, allora non esisteva un paragone possibile per loro due e il loro rapporto indelebile.

Ricominciare dopo tre anni di distanza non è semplice...
Note: pre-slash (anche se dipende dall'interpretazione)
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: John Watson , Mary Morstan, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao ancora.
Dopo l'inaspettato e piccolo successo nella mia prima one-shot ho deciso di pubblicarne una seconda.
E' una sorta di pre-slash, ma vi si può anche solo leggere "un'accorata amicizia" (no, è slash, poche discussioni xD). 
Tutto parte da un litigio fra John e Sherlock...
Mi piacerebbe se lasciaste una recensioncina. Grazie,

Chiandistelle



Un Sole per la Terra.




- Quindi è così.
 
- A quanto pare.
 
- Non si torna più indietro.
 
- Stai decidendo tutto tu. E stai sbagliando per una considerevole quantità di ragioni che non starò qui a illustrarti, sarebbe noioso. Sei un idiota, John. Non mi sarei dovuto aspettare nulla di meglio da te.
 
- Ti ringrazio. E, ti giuro, è l’ultima volta che lo farò.
 
John uscì lasciando la porta dell’appartamento aperta, senza aver bisogno di prendere la giacca, tenuta indosso per tutta la durata del litigio.
 
La pioggia leggera gli bagnò il viso e una nebbia fumosa e bassa gli avvolse le gambe mentre si allontanava a grandi passi da Baker Street. Era buio e la luna era celata alla vista da una spessa coltre di nubi, la quale filtrava la luce delle stelle. Decise ugualmente di tornare a casa a piedi, senza taxi o metro che aiutassero lui e la sua gamba nuovamente zoppicante.
 
Cominciò a camminare senza meta, prediligendo le zone d’ombra agli spicchi di luce gialla creati dai lampioni. Si sentiva come un cane randagio abbandonato sul ciglio della strada a chilometri da casa: privato del senso dell’orientamento e di ogni certezza si ritrovava a camminare, in cerca di qualcosa di familiare che scaldasse il suo cuore ferito.
Gli rimaneva solo un malandato istinto di sopravvivenza che si suggeriva di procedere, un piede avanti all’altro, finché le scarpe non si fossero consumate, i piedi non si fossero ricoperti di vesciche, le gambe non avessero ceduto e il cervello non avesse più conosciuto numeri adatti per contare i passi compiuti.
Voleva scordare tutto: la propria infanzia, la scuola, gli studi universitari, il militare, la guerra, i feriti, la depressione, lui, i casi, la sua morte, l’interrogatorio, gli attacchi di panico, lei, il matrimonio, la sua resurrezione, il litigio. Voleva diventare Dio, con davanti la vita di John Watson scritta a matita, per poter cancellare le cose che aveva sbagliato, quelle che erano andate storte, per poi spazzare via con un gesto convulso della mano i trucioli dolorosi dei ricordi.
 
Aveva assimilato la morte del proprio migliore amico per tre anni.
Era andato da psicoterapeuti, aveva preso antidepressivi, si era ficcato pugni in bocca nel cuore della notte per non urlare.
Aveva incontrato quella perla dorata, quel fiore raro di nome Mary Morstan e si era fatto curare come il cane ferito che era e che continuava ad essere. Era stato accudito e aveva ricambiato con affetto e scodinzolii le attenzioni ricevute.
Si erano sposati, tra i sorrisi incerti di Harry e quelli radiosi della sposa.
Aveva trovato un nuovo lavoro al Guy’s Hospital, a Southwark, vicino l’appartamento di Mary. Il loro appartamento.
 
Semplicemente, Sherlock Holmes stava sbiadendo lentamente dalla mente di John, come una macchia nera e ostinata di cui rimane solamente un fastidioso alone su una maglietta altrimenti immacolata.
Ma poi era tornato. Due mesi prima.
C’erano stati l’immancabile pugno sul naso, il rapimento, l’arresto di Moran, l’abbraccio insicuro.
E lui aveva voluto che tornasse tutto come prima. Tipico.
Ci avevano provato. Sherlock con più forza di volontà di John, in effetti. Ma non aveva funzionato ed era finita con il freddo litigio di quella sera.
John avrebbe preferito che fosse morto davvero. La sua vita si sarebbe messa in sesto da sola, come sempre; ma lui era ripiombato nuovamente dal nulla, facendo cadere con un soffio tutto quel fragile e sottile castello di carte che John aveva abilmente costruito attorno a sé, barricandovisi come se fosse stato una fortezza inespugnabile.
 
Il telefono gli vibrò nella tasca e John cercò di mascherare il proprio umore con una voce neutra.
 
- Mary.(1)
 
“John. Tesoro, com’è andata?”
 
- Non lo so.
 
Il medico udì un sospiro deluso trattenuto a mala pena all’altro apparecchio. “È tardi. Torni a casa o preferisci stare un po’ per i fatti…”
 
- Sì – la interruppe John, più brusco del necessario.
 
“Calma, riccio” lo redarguì Mary.
 
Il dottore sospirò una risata. – Non…
 
“Non ti aspetterò alzata, John. Non usare frasi da film con me.”
 
- D’accordo.
 
“Tesoro?”
 
- Mm?
 
“Un’ultima cosa. Ti ricordi di quando mi hai raccontato di Dartmoor? Mi dicesti che lui ti chiamò ‘conduttore di luce’ e tu ti sentisti orgoglioso e fiero di essere il suo assistente e il suo unico amico. So per certo che tu pensasti alla luce che quell’uomo ti ha donato quando eri nel buio, alla nuova vita che ti ha costruito. E scoprire che anche per lui è stato così ti ha fatto sentire felice. Rifletti su questo, John, sulla vostra luce” piccola pausa. “Sei ancora lì o…?”
 
- No. Cioè, sì, sono ancora qui. Grazie. Grazie, Mary.
 
“Di nulla, dolcezza. A più tardi.”
 
- Certo – chiuse la chiamata e si sforzò di non correre mentre ritornava a Baker Street.
 
 
~~~
 
 
Sherlock era sdraiato sul divano in modo da occuparne tutta la lunghezza. Cercava invano di distendere e rilassare i propri pensieri quanto lo erano i muscoli.
Ma riusciva solamente a rivivere ancora e ancora quel dannato litigio nella propria mente. Tutte le stanze del suo Palazzo Mentale erano state riverniciate in malo modo coi colori della confusione, della tristezza, dello smarrimento, della rabbia e dell’amarezza.
Lui era tante cose. Era un essere umano e un uomo prima di tutto, classifiche e categorie che lo infastidivano fino al midollo. Era un consulente investigativo, tra i pochissimi detentori della scienza esatta della deduzione.
E poi Sherlock Holmes era un sociopatico. Vale a dire un uomo senza rispetto verso regole, società e tanto meno altre persone. Era stato disinteressato alla compagnia altrui fin da quando aveva memoria e la progressiva sociopatia in cui era caduto avevano tramutato la sua indifferenza in ostilità e apatia.
La sua vita si era mescolata all’arroganza come un bicchiere d’acqua trasparente si miscela col nero di un acquerello. Adesso lui era tutto tranne che puro: una pozza d’acqua così sporca da non poter riflettere nulla se non in maniera distorta.
John Watson era arrivato come un inaspettato ed ostinato filtro, rendendolo sempre più trasparente, puro e bello. Un conduttore di luce efficace e tremendamente normale, come milioni al mondo. Somigliava al Sole: una stella come miliardi di miliardi nell’universo, eppure essenziale per la Terra, mentre continuava a gravitarle intorno.
E se non era il Sole a girare attorno alla Terra, allora non esisteva un paragone possibile per loro due e il loro rapporto indelebile.
Tutto quel tempo distanti e la relazione fragilissima che avevano tentato di ricostruire… era stato innaturale semplicemente perché il Sole non poteva lasciare la Terra sola e senza luce. Ritrovare nuovamente il tempo esatto di rivoluzione era difficile e faticoso. Era poi ancor più fuori natura pensare che la stella si rifiutasse di tornare dal proprio pianeta.
Eppure con loro due era successo. Perché non erano due dannatissimi e incomprensibili corpi celesti. Erano persone.
Ed era difficile, così difficile… Un buco nero sembrava voler inghiottire tutte le cose.
Qual era il motivo? C’era un ragione per quello? Per quella sofferenza, quel dolore, quell’angoscia, quel vuoto? A quello, a quell’immenso interrogativo, l’intelletto non aveva ancora trovato una risposta.(2)
 
 
~~~
 
 
John aprì la porta nera del 221B freneticamente, con le chiavi che sembravano voler fuggire dalle sue mani sudate.
 
I diciassette gradini non gli erano mai sembrati così interminabilmente brevi.
 
Spalancò la porta e Sherlock era lì, disteso sul divano a fissarlo, gli occhi velati da una leggera tristezza.
 
John si chiuse la porta alle spalle e lo osservò di rimando, in piedi, cercando di controllare il tremore alla gamba, alle mani, al cuore.
Passarono dei minuti carichi di insofferente rancore e passione.
 
- Torni?
 
La voce di Sherlock assomigliava a quella di un bambino malato che implora la propria madre di fare qualcosa.
E John in quel momento personificava sua madre, il suo dottore e la sua unica medicina.
Non sapeva cosa sarebbe successo dopo: le incognite erano troppo numerose e i sentimenti troppo ingombranti. Non sapeva come avrebbe fatto con Mary, se lui e Sherlock sarebbero riusciti a conciliare tutto o se si sarebbero semplicemente saltati addosso a vicenda.
Per il momento, non poteva fare altro se non dire la battuta che aveva dato inizio alla loro amicizia e che l’avrebbe curata, anche stavolta, come un piccolo bacio su una ferita.
 
- Oh, Dio, .(3) 
 
 
 
 
 
 
 
(1) Per quanto possa “non amare” Mary Morstan, ho cercato di rendermela il più leggera possibile, “plasmandola” da un misto tra la Mary dei film di Guy Ritchie, Amanda Abbington e River Song.
(2) Citazione da Le avventure di Sherlock Holmes con Jeremy Brett.
(3) Lo so, la fine non si può chiamare “fine”, ma spero non vi dispiaccia più di tanto.
  
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