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Autore: hurrjcane    28/05/2013    1 recensioni
E quando nella testa non hai più principi, principesse, castelli, folletti, sogni, sole e fiabe cosa ti resta? In cosa crederai? Cosa difenderai con tutta te stessa? A cosa ti aggrapperai quando cederai?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Guardai l’ora: le quattro del mattino.
Cosa cazzo ci facevo alle quattro del mattino in una BMW nera con mezzo finestrino dal lato del guidatore abbassato, i sediolini beige, la radio che aveva ormai smesso di passare delle canzoni decenti, una coperta verde a terra vicino ai sedili posteriori sui quali ero sdraiata seminuda vicino ad un tizio di cui non riuscivo neanche a vedere la faccia considerando che era girato nel verso opposto, anche lui seminudo, in una posizione che faceva concorrenza alla gatta di Death quando decideva di dormire interamente sdraiata sul suo letto, i capelli sconvolti e il corpo sudato?
Mi diedi un’occhiata allo specchio, i miei lunghi capelli marroni ricadevano disordinati sulla spalla sinistra, il mascara era ormai colato sulle gote tinte di un rosa acceso e non c’era più traccia del rossetto rosso che avevo deciso di indossare la sera prima e della mia borsa.
Guardai un po’ in giro senza accennare a nessun movimento ma la mia borsa bianca era scomparsa. Così decisi di alzarmi in piedi (per quanto mi fosse possibile considerate le dimensioni dell’auto e la mia altezza superiore al metro e settantacinque) ma non mi accorsi di una bottiglia di vodka, ormai vuota, fin quando non la calpestai coi miei piedi rimasti scalzi.
Diedi involontariamente un urlo risedendomi e mandando al diavolo in tutte le lingue conosciute e sconosciute quella dannatissima bottiglia.
Il tizio accanto a me scattò in piedi urtando la testa sul soffitto dell’auto e risedendosi automaticamente con una mano posta sul punto sul quale aveva sbattuto la testa iniziando ad imprecare in aramaico fin quando non si voltò nella mia direzione mentre non riuscivo più a trattenere una risata.
“Era proprio necessario quell’urlo? Ed ora cos’hai da ridere?”
“Sei uno sfigato.” Gli risposi non riuscendo a smettere di ridere dimenticando per un attimo il mio piede dolorante.
“Cos’hai fatto al piede?” Chiese lui quasi preoccupato.
Abbassai lo sguardo concentrandomi sul mio piede sinistro che aveva preso a sanguinare.
“Merda.”
“Aspetta sfigata, dovrebbe esserci una fascia davanti.”
Detto ciò si alzò in piedi e si chinò in avanti cercando di allungare il più possibile il braccio sinistro per arrivare al piccolo cassetto posto davanti al sediolino del passeggero.
“Bel culo!”
Recuperò la fascia dal cassetto per poi ritornare alla sua posizione precedente.
“Grazie. Ora alza il piede.”
“Mi fa male!” Mi lamentai.
“Va bene,tienilo così.”
“Vuoi lasciarmi così?”
“Come faccio a medicarti se non alzi il piede?”
Sbuffai sonoramente cercando di alzare il più possibile il piede e tentando di sopprimere i gemiti di dolore.
“Bene, ho fatto. Ora mi spieghi come hai fatto a ridurti così?”
Gli spiegai che avevo calpestato la bottiglia di vodka per il semplice fatto che non l’avessi vista quando avevo cercato di alzarmi in piedi. Lui scoppiò a ridere sonoramente.
Mi soffermai a fissarlo. Era bellissimo.
“Non dirmi che stanotte noi …” Me ne uscii all’improvviso, sperando che i miei pensieri fossero una totale cazzata.
“Non ricordi niente?”
Feci segno di no con la testa e lui continuò.
“Sì abbiamo scopato.”
“O mio dio avevi il preservativo?”
Fece cenno di sì con la testa mentre mi rivolgeva un sorriso a trentadue denti.
“Non ti dispiace vero se resto con te ancora un po’? Ho troppo sonno.”
“Non sai neanche come mi-”
Non lo feci neanche finire di parlare che mi accoccolai sul suo petto, stendendo i piedi fuori dai sediolini e permettendogli di cingermi i fianchi.
Mi sentii al sicuro.


La mattina seguente mi svegliai accoccolata alla piccola coperta verde che la notte precedente giaceva a terra e che non riusciva a coprirmi interamente: i miei piedi scalzi erano paragonabili a due iceberg, ora.
 Soffermai lo sguardo sul piede sinistro avvolto in una fascia bianca.
Rievocai tutto ciò che era successo e mi voltai istintivamente.
Non c’era. Notai, disposte a terra, tutte le mie cose: la borsa bianca che non riuscivo a trovare, i tacchi, il mio vestito ed il mio i-phone 4s, posto sopra la mia borsa, che prese ad illuminarsi. Un nome comparve sullo schermo: Manuel.
Cristo, cosa avrei potuto dirgli, adesso? Come sarei riuscita a mentirgli e a guardarlo in faccia ora che ero stata con … con un tizio di cui non conosco il nome?
Con quale coraggio avrei sfiorato le sue labbra per poi baciarle poco dopo?
Guardai l’anulare destro, il nostro anello. Cos’avevo fatto?
“Nulla, Cheryl: hai appena distrutto i tre anni di fidanzamento con la persona più importante per te.”
Il telefono continuava a vibrare ed avevo deciso di lasciarlo lì mentre fissavo immobile il vuoto e lasciavo che i sensi di colpa mi mangiassero viva.
Uno scatto mi fece sobbalzare e svegliare da quei pensieri che continuavano a ripetermi quanto fossi stata stronza.
La portiera anteriore dal lato del guidatore si aprì. Era lui.
Il cuore cominciò a fare le capriole tentando di sfondarmi le costole e la carne.
“Ti sei svegliata, finalmente …”
E quel ‘finalmente’, in quella frase, proprio non ci stava. Mi ero svegliata, purtroppo.
Inizialmente lo ignorai: ero arrabbiata, furiosa con me stessa e con la mia testa.
Lo vidi entrare al posto di guida e girarsi verso di me.
Mi sporsi per arrivare a guardare fuori dal finestrino: eravamo in autogrill.
“Mi spieghi cosa cazzo ci facciamo qui?”
“Stiamo andando ad una fiera?” Mi rispose il tipo, raggiante.
Vidi i suoi occhi illuminarsi all’idea. Che bambino.
“Stiamo?”
“Sì, verrai con me.”
“Allora, mettiamo in chiaro le cose: io non ti conosco, non so come ti chiami o una qualsiasi cosa su di te e se vuoi saperlo non ricordo neanche quanto è grande il tuo cazzo e se mi è piaciuto farlo con te. Ora sono coperta solo da una fottutissima biancheria intima e da questa coperta e non ho niente da mettere se non il vestito che avevo ieri sera. Scordatelo. Aspetta … Mi hai vestita? Cioè mi hai messo le mutande?”
“Hai finito? Sì, ti ho vestita io, stavi gelando. Non ti ho messo il vestito perché era troppo stretto, così ho dovuto recuperare la coperta. Se vuoi saperlo mi chiamo Andrew e ti ho appena preso dei vestiti quindi ora ti calmi e vieni con me, ok?”
Andrew … non era così brutto come nome, anzi, non lo era affatto.
Mi guardò dritto negli occhi e non potei fare a meno di pensare che erano bellissimi.
Nocciola, nocciola e miele.
Si sporse verso di me e mi passò i vestiti che aveva comprato: il completo da basket dei Lakers. Dietro la maglia avevo il numero 7.
“Io sono Cheryl, ora girati e non spiarmi.”
“Cosa sto facendo?” continuavo a ripetermi.
Vidi il mio i-phone illuminarsi per la quinta volta. Ecco cosa stavo facendo: scappavo, ancora.
“Come facevi a sapere il mio numero?” Me ne uscii all’improvviso interrompendo il silenzio che si era creato mentre cercavo di vestirmi il più velocemente possibile.
“Prevedo il futuro!”
“Non sei simpatico, come facevi a saperlo?”
“L’ho visto sui tacchi che indossavi ieri.”
“Furbo.”


Dopo essermi vestita, aver rimosso il trucco rimasto e aver sistemato alla meno peggio i miei lunghi capelli passai al posto del passeggero evitando miracolosamente di inciampare nel freno a mano. Lo guardai: aveva gli occhi stanchi di chi non aveva chiuso occhio per tutta la notte, delle occhiaie pazzesche, i ricci del suo ciuffo che ricadevano disordinati sulla sua fronte, le guance leggermente rosee coperte da un accenno di barba e le labbra distese in un sorriso.
Era un reato pensare che fosse bellissimo?
Lo vidi lanciarmi un’occhiata per assicurarsi che fossi apposto. Subito dopo accese lo stereo, appoggiò le sue Beats sul cruscotto e mise in moto.
Dopo circa quindici minuti di viaggio in cui l’unico a parlare, anzi, a cantare, era stato Ligabue, la macchina si fermò.


“Sei un’incapace!”
Lo sentii ridacchiare dietro di me mentre provavo ancora una volta a mirare la lattina.
Eravamo fermi lì al gioco a premi da circa venti minuti e, mentre i bambini piangevano tra le braccia della loro mamma e Andrew non faceva altro che ridere di me esultai perché riuscii finalmente a colpire la decima lattina alias il numero minimo per vincere un portachiavi.


Presi il portachiavi: avevo scelto una mini-tigre bianca con delle strisce nere di peluche.
“Ma tu non volevi quella tigre?” Mi chiese Andrew non appena gli mostrai, soddisfatta, il portachiavi che avevo momentaneamente legato all’indice destro, riferendosi ad una tigre, grande quasi quanto me, bianca con le strisce nere, di peluche.
“Sì ma oggi sono troppo sfortunata per riuscire a colpire cinquanta lattine.”
“Sfortunata, eh?” Mi rispose di rimando alzando le sopracciglia e facendo una strana smorfia con la bocca.
Okay, forse non era proprio sfortuna. Diciamo che ero proprio negata con i giochi a premi ed il massimo che ero riuscita a vincere, con l’aiuto di mio fratello, era un peluche a forma di elefante grande sì e no venti centimetri.


“Non riuscirai a prenderla!” Gli avevo ripetuto per la quattordicesima volta ma Andrew si era già messo in fila dietro due bambini che cercavano di vincere la bambola dei gormiti.
Era cocciuto e sicuro di sé. Presuntuoso.
Dopo aver visto i due bambini lasciare il gioco a premi con la bambola dei gormiti ed essermi data dell’incapace mi soffermai a fissare Andrew.
Lo guardai senza alzarmi dal piccolo muretto di fronte alla bancarella del gioco a premi sul quale mi ero seduta poco prima dire qualcosa alla signora che poco dopo gli porse la pistola.
Lei gli chiese qualcosa come “Cosa vorresti vincere?” e lui le indicò la mia tigre.
La signora era sbalordita e gli disse qualcosa che non riuscii a capire.
Lo vidi sbagliare un paio di colpi ma continuare fisso sul suo obiettivo.
Cocciuto, presuntuoso, dolce.
Vidi la signora sorridere e porgergli la mia tigre mentre gli diceva qualcosa.
Lui la prese e si diresse verso di me.
“Allora, cosa dicevi?”
“Sei solo fortunato.”
Mi porse la tigre, sorridendomi. Io gli sorrisi e istintivamente mi alzai e gli gettai le braccia al collo sussurrando un “grazie” al suo orecchio sinistro.


“Perché ho fatto sesso con te?” Me ne uscii all’improvviso dopo alcuni minuti di silenzio.
Stavamo ancora camminando tra le bancarelle della fiera mentre io continuavo ad abbracciare la mia tigre che, nel frattempo, avevo chiamato Joy.
Quello che i miei occhi vedevano quando regnava il silenzio tra me e lui era il costante pensiero di quanto tutto quello che facessi fosse sbagliato. E non c’erano più bancarelle, zucchero filato, giochi a premi e bambini felici.
Io ero sbagliata, ero nata sbagliata e non potevo cambiare, neanche per Manuel.
A volte neanche Joseph, il mio angelo custode, riusciva a capirmi.
Hai un casino grande quanto una rivoluzione, in testa.” Mi ripeteva.
Ed io pensavo che per combatterla, quella rivoluzione, mi sarebbero servite davvero tante armi, di quelle che basta azionarle per metterti al tappeto.
Joseph non era della mia stessa opinione.
“Devi essere tu l’arma vincente.” Mi ripeteva.
Ed io ancora non capisco se mai potrò essere un’arma vincente.
Non ero brava a vincere. Fallire, in quello ero brava.
“Non vuoi una vera risposta, vero?”
La volevo, una risposta, ma non sarebbe stato facile trovarla tra le macerie dei castelli incantati, ormai crollati, nella mia testa.
E quando nella testa non hai più principi, principesse, castelli, folletti, sogni, sole e fiabe cosa ti resta? In cosa crederai? Cosa difenderai con tutta te stessa? A cosa ti aggrapperai quando cederai?


Erano le nove di sera. Stavamo camminando da parecchie ore e, iniziando a sentire male al piede sinistro, mi fermai.
“Cosa c’è?”
“Il piede.”
Andrew spostò il suo sguardo sul mio piede sinistro appoggiato a terra solo con la punta.
“Togli la scarpa, ti porto in braccio fino alla macchina.”
“No!”
Senza il mio consenso si abbassò leggermente e prese le mie gambe legandosele sulla vita.
Presa alla sprovvista mi aggrappai alle sue spalle per non cadere e diedi un urlo.


Era buio, aprii gli occhi e mi sentii chiamare dolcemente: realizzai che eravamo arrivati alla macchina e che mi ero addormentata durante tutto il tragitto sulle spalle di Andrew accoccolata alla mia tigre.
“Sei sveglia?” Mi chiese lui non appena avvertì un mio movimento.
Mi limitai a stiracchiare le braccia ed ad emettere un verso che avrebbe dovuto sostituire un ‘sì’.
Mi girai verso lo sportello anteriore del passeggero della macchina aperto, scesi dalle spalle di Andrew e mi ci fiondai dentro.
Richiusi la portiera e mi sporsi in dietro, sistemai Joy nei sediolini posteriori e li perlustrai con lo sguardo alla ricerca della copertina verde che trovai poco dopo.
Tornai nella mia posizione iniziale e sentii lo scatto dell’altra portiera aprirsi.
Presi a sistemare la copertina verde e mi accoccolai al sediolino rivolta verso Andrew che nel frattempo aveva richiuso la portiera. Si voltò verso di me e mi sorrise.
“Hai freddo?”
Annuii.
“Vuoi andare a casa?” Aggiunse lui poco dopo.
“Voglio restare qui.”
Lui sorrise e, involontariamente, lo feci anch’io sotto la coperta.


Aprii lentamente gli occhi e mentre la mia vista cominciava ad essere meno sfuocata e la mia mente un po’ più attiva udii delle grida.
Mi guardai intorno senza muovermi mentre vidi una signora uscire dalla stanza.
Acqua, fili, monitor, letto, me, pareti verde acqua.
La signora tornò con un signore vestito completamente di bianco a cui continuava a ripetere: “Si è svegliata, è viva, ce l’ha fatta!”
“Andrew … dov’è?” chiesi lentamente e con quel briciolo di voce che mi bastava a far capire cosa volevo dire.
I due signori mi guardarono straniti.
La signora, sorridente, lasciò quello che avevo capito fosse un dottore vicino alla porta per avvicinarsi al letto sul quale ero distesa.
La guardai: capelli arruffati, corti, mossi e neri; gli occhi marroni e stanchi contornati dalle occhiaie; il sorriso di chi aveva sofferto ma di chi, alla fine, ce l’aveva fatta; magra, non molto alta.
Nonostante ciò non la riconobbi ed ero sempre più confusa.
“Chi è Andrew?” Mi chiese lei continuando a fissarmi senza smettere di sorridere.
Andrew non era stato qui, non era mai venuto.
Ero sola.
“Perché sono qui? Sono svenuta?” Chiesi alla signora che era occupata a spostare una coperta dalla sedia accanto al mio letto, ignorando la sua domanda.
Appoggiò la coperta sui miei piedi che erano rimasti scoperti dal piccolo lenzuolo bianco che mi copriva il resto del corpo fin sotto al seno e si sedette sulla sedia. Vidi il suo volto cambiare espressione.
“Hai fatto un sonno un po’ più lungo.” Mi disse lei cercando di portare in su gli angoli della sua bocca, con scarsi risultati, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
“Quanto lungo?” Chiesi spaventata mentre molti pensieri mi si affollavano in testa.
Chi era quella signora? E Andrew? Perché ero in ospedale? E da quanto?
“Tre …” si interruppe la donna ingoiando il groppo che le si era formato in gola. “… mesi”
Lo disse in un sussurro, come se fosse un’arma letale.
Tre mesi. Tre mesi significava coma. Come ci ero finita in coma?
Mi soffermai a fissare la parete bianca di fronte al mio letto e varie immagini mi ripercorsero la mente ma nonostante ciò non riuscii a coglierle, era tutto troppo veloce. Vidi una macchina, una macchina nera. Grande. E poi il vuoto. Mi portai una mano alla testa mentre cercavo di mettere a fuoco tutto ciò che mi circondava.
“Tu chi sei?” Mi decisi così a chiedere alla signora.
“Sono … Sono tua madre, Cheryl.”
Delle lacrime iniziarono a rigarle la guancia destra, poi anche quella sinistra.
Si portò una mano alla faccia per asciugarle prima che arrivassero al mento.
Si alzò di scatto dalla sedia e corse via singhiozzando leggermente.
Ero sola, adesso.
Vidi mia madre passare un paio di volte davanti alla porta della mia stanza camminando per tutto il corridoio alla ricerca di qualcosa che non riuscivo ancora a capire.
La vidi fermarsi a pochi metri dalla mia stanza per parlare con quello che mi sembrava un dottore.
Restai in silenzio e non accennai a nessun movimento.
Riuscii a sentire il “Che cosa le ha detto?” del dottore riferito a mia madre.
Capii che quella donna usava un tono di voce molto basso, così mi soffermai a cercare di leggere il labiale.
“Andrew.” e “Chiesto chi sono” fu tutto quello che riuscii a capire.
Vidi il dottore voltarsi nella mia direzione così feci finta di dormire.
Aprii gli occhi pochi secondi dopo aver sentito ciò che aveva detto a mia madre: “Se, come mi ha detto in precedenza, sua figlia non conosce alcun Andrew, sarà meglio che parli con uno psicologo. Potrebbe essere che …”
Vidi la confusione sul volto di mia madre e il dottore continuò.
“Potrebbe averlo solamente sognato.”
Il dottore si voltò di nuovo verso di me per assicurarsi che stessi dormendo e che non avessi sentito nulla della loro conversazione.
Serrai gli occhi impedendo alle lacrime di scendere.
Era stato davvero tutto un sogno?


 

“Andrew, aspettami, non correre, voglio venire con te.”
“Cheryl, è ora.”
“Ora di fare cosa?”
“Che questo sogno finisca.”
“Non voglio.”
“Deve, piccola. La porta dei sogni chiudila tu.”

  
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