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Autore: _Jaya    28/05/2013    2 recensioni
Sono passati quasi tre anni dal giorno del suicidio del migliore amico, ma John Watson non si è ancora ripreso.
Il fantasma del suo vecchio conquilino è onnipresente, fino a che non arriva una mail, la cui provenienza è inequivocabile.
“Oggi, ore 18.30.
Aspettami nel tuo studio
SH”
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Primo esperimento nel fandom di Sherlock. Spero vi possa piacere.
Ha partecipato al concorso "My favourite character".



 


One more miracle






“E così avete deciso di studiare le meraviglie del corpo uman…”

« John, svegliati! » urlò una voce. John aggrottò le sopracciglia, gli occhi ancora chiusi. Era il suo primo giorno come studente di medicina, cosa ci faceva la voce di Sherlock?

« Svegliati! » a questo secondo richiamo si unì uno scossone piuttosto violento che obbligò il medico ad aprire gli occhi.

« Chccosasuccde? » biascicò, alzando un poco la testa dal comodo cuscino, prima di bloccarsi di scatto. Aveva davanti al viso, a pochi centimetri di distanza, gli occhi grigio-azzurri del proprio coinquilino.

« Sherlock? » domandò l'uomo, dubbioso, sbattendo le palpebre e riprendendo parzialmente coscienza della realtà.

« Preparati, usciamo » gli comunicò il coinquilino senza muoversi.

« Che ore sono? » bofonchiò John, ributtando la testa sul cuscino e passandosi le mani sugli occhi chiusi.

« Le cinque e mezzo » rispose con tranquillità Sherlock. John sentì dai movimenti dell’aria che il “consulente investigativo” si era alzato dalla sua posizione.

« E' un otto. Muoviti. » gli disse, prima di lasciare la stanza.

John sorrise prima di aprire definitivamente gli occhi e lasciarsi scivolare fuori dal letto: una nuova giornata stava per cominciare.
 




DRIIIIIIN


« Maledizione! » imprecò una voce, distogliendo l’uomo dal suo sogno. Cigolio di molle, il materasso si abbassa e poi si alza, qualcuno sta correndo fuori dalla stanza indossando una sola ciabatta, prima di tornare indietro e recuperare anche la seconda.

« John, è tardissimo! Era la seconda sveglia, quella di emergenza! » ripeté la voce di poco prima. John si sentì chiamato in causa e aprì gli occhi, tirando leggermente su la testa dal cuscino: una donna stava uscendo dalla stanza, erano visibili solo i capelli biondi svolazzanti.

John si lasciò cadere di nuovo sul letto e chiuse gli occhi. Lasciò che la mano destra vagasse oltre il proprio posto e si spandesse sul grande letto matrimoniale.

Il ricordo del sogno era ancora terribilmente vivido e reale. Poteva ancora vedere tutte le sfumature di quei due grandi occhi incorniciati da spettinati capelli neri. John non credeva di potersi ancora ricordare così nel dettaglio il volto del suo migliore amico. Due anni erano passati, stava per finire il terzo, e John sentiva ancora le sue ultime parole risuonargli in testa.

Cercò di ricordarsi ogni dettaglio del sogno appena fatto ma venne ben presto richiamato dalla voce della donna, in cucina.

« Non riaddormentarti! Non hai il primo turno oggi? »

Il medico sbuffò stizzito e si sedette sul letto, alla ricerca delle pantofole.

“Un otto”: ecco cosa aveva detto Sherlock. Lo stava alzando dal letto, come stava facendo lui stesso in quel momento, e gli aveva annunciato di un caso da otto. John sospirò pesantemente e si passò una mano sugli occhi stanchi: sicuramente quella giornata non sarebbe stata da otto, con quel turno massacrante in ambulatorio.

Si portò lentamente in cucina: Mary stava versando il tea in due tazze uguali. Nel mezzo alla tavola un vassoio di biscotti fatti in casa faceva bella mostra di sé.

« E’ venuta la signora Hudson ieri? » domandò John, addentando un biscotto e avvicinando una tazza a sé. Nonostante fosse in ritardo, John non aveva voglia di fare in fretta. Voleva assaporarsi ogni momento di quella nuova quotidianità, ma non poteva obbligare Mary a fare come lui. Il suo lavoro di insegnante la obbligava a degli orari piuttosto rigidi e stancanti.

Mentre John si gustava con piacere un altro biscotto intinto nel tea, intorno a lui sembrava passare un uragano: Mary andava avanti e indietro tra le stanze di quel piccolo appartamento bofonchiando a mezza voce imprecazioni e maledizioni. Alla fine Mary apparve sulla soglia della porta della cucina, gli occhi leggermente segnati dalla matita nera, un cappello di lana ben calcato in testa in tinta con la sciarpa. Si avvicinò a John e gli stampò un bacio sulle labbra.

« Io vado, vedi di non fare tardi stasera » gli sussurrò ad un soffio da lui « ti voglio tutto per me »

John annullò la distanza tra loro e s’impadronì delle labbra della donna per qualche lungo secondo, costringendola a sedersi sulle sue ginocchia. Mary guardò gli occhi del suo uomo per qualche istante prima di alzarsi dalle sue gambe e incamminarsi per andare via.

« E non ti scordare di passare a prendere il computer nella pausa! » esclamò, uscendo definitivamente dall’appartamento. John sbuffò e si allungò a prendere un terzo biscotto.

Il suo vecchio computer aveva deciso di spegnersi ed emettere strani versi, alcuni bip decisi, che ricordavano i segnali orari mandati dalle radio. Si era infuriato e lo aveva lanciato sul divano nel momento in cui aveva emesso il settimo segnale.

Mary lo aveva esortato a prendere un nuovo pc, ma John non voleva separarsi da quello: c’erano troppi ricordi importanti per essere buttati via, quindi aveva preso la decisione di provare a ripararlo. Sicuramente gli sarebbe costato più che comprarne uno nuovo, ma a John andava bene così.

Con quel nuovo pensiero in testa il medico mangiò l’ultimo pezzo del biscotto e finì di bere il tea. Lanciò uno sguardo all’orologio appeso sopra la porta: Mary non aveva tutti i torti, era decisamente tardi. John si alzò dal tavolo e mise la tazza nel lavandino, riempiendola d’acqua fino all’orlo. Con mosse decise si lavò e si vestì di tutto punto.

Una nuova giornata stava per cominciare, ma John non sapeva quanto sarebbe stata particolare rispetto alla nuova quotidianità, a cui finalmente si stava abituando.
 
 
 



John aveva visitato pazienti per tutta la mattina: si era giostrato egregiamente tra tonsilliti, brutti raffreddori e un caso di varicella. Per tutta la mattina il telefono dello studio non aveva fatto altro che suonare, come al solito, e la segretaria non aveva avuto neppure il tempo di portargli un caffè.

Finalmente giunse l’agognata pausa pranzo: John aveva a disposizione due ore completamente libere da passare come voleva. Lasciò lo studio salutando i colleghi e rifiutando ogni invito di andare a mangiare il cinese con loro, come faceva sempre. John preferiva andare alla panineria vicino allo studio medico, rigorosamente da solo. I suoi nuovi colleghi gli erano simpatici, ma il dottor Watson non riusciva a tollerare quel continuo ciarlare: sembrava che ci fosse sempre qualcosa da dire, e i silenzi non esistevano. Così aveva trovato la panineria vicino allo studio, praticamente sempre deserta, in cui poteva sedersi, godersi il silenzio del negozio e approfittare del collegamento internet gratuito.

Il rivenditore da cui John aveva portato il computer era vicino all’ospedale della zona, il St Bartholomew's, conosciuto da tutti come il “Barts”. Per due periodi della sua vita John aveva frequentato molto spesso quella zona, fino a conoscerla abbastanza bene. I negozi e i rivenditori erano molto cambiati da quando frequentava ancora le lezioni per diventare medico, ma le sue ultime visite risalivano solo a tre anni prima, troppo pochi perché cambiasse tutto. Il negozio in cui aveva preso il computer era sempre lì ed era proprio in quel posto che John era diretto a passo di marcia.

Camminava dritto, composto. Non guardava molto quello che lo circondava, teneva lo sguardo fisso davanti a sé, come se cercasse eventuali ostacoli al suo percorso. Rimase fermo per qualche istante davanti ad un attraversamento pedonale e alzò la testa verso il tetto dell’ospedale: il Barts era a poche centinaia di metri da lui, e, nonostante la distanza, sembrava che lo sovrastasse.

John intravide una figura là sopra e, in riflesso automatico, la sua mano sinistra andò alla tasca dove nei tempi andati riponeva la pistola di soldato. La mano si chiuse intorno al cellulare e lo strinse forte, incapace di distogliere lo sguardo da quell’ombra che intravedeva in controsole.

“Sherlock?” pensò stupidamente John, incapace di muoversi. Alzò la mano destra per schermarsi gli occhi dal sole e vedere più nitidamente. Lentamente mise a fuoco una tuta bianco sporco e una miriade di capelli rossi.

John riprese a respirare con calma. La mano sinistra si aprì dalla stretta furiosa intorno al cellulare e la destra ritornò al suo posto.

“È solo un operaio” cominciò a ripetere la voce mentale di John, come un ritornello atto a rilassarlo. Non era il suo migliore amico, non poteva esserlo, doveva smettere di pensarci: Sherlock era un uomo e un uomo che si butta da un palazzo di quattro piani è un uomo morto. Niente da fare, le sue conoscenze mediche oltre che al suo buon senso gli continuavano a ripetere l’evidenza della sua morte.

John riportò lo sguardo al livello della strada e rincominciò a camminare lungo il marciapiede in maniera meccanica, le sue abitudini militari sembravano essere tornate a galla all’improvviso. Cinque passi in avanti, svolta a destra. John percorse ancora qualche metro in strada, poi entrò nel rivenditore di computer.

“Dlin dlin” John non sopportava quegli inutili campanellini posti sulle porte dei negozi, riuscivano a fargli saltare i nervi molto facilmente.

Un viso sconosciuto spuntò da dietro al bancone. Occhi e capelli scuri, carnagione olivastra. Aveva un segno di penna nera sulla guancia destra.

« Ho portato un computer portatile una settimana fa » disse John prendendo dal portafoglio la ricevuta. L’uomo allungò la mano e prese il foglietto, lo osservò per qualche istante e poi lo riposò sul bancone.

« Glielo porto subito » disse con voce atona, prima di varcare una porta. John ipotizzò che dietro ci fosse il magazzino o un laboratorio in cui erano eseguite le riparazioni.

« Eccolo » non era passato nemmeno un minuto che l’inserviente già era tornato, con in mano una scatola di cartone della dimensione di un computer. John allungò le mani e la prese.

« Quanto le devo? » domandò rimettendo mano al portafoglio.

« Niente, era ancora in garanzia » rispose l’uomo dall’altra parte del bancone. John alzò un sopracciglio, stupito.

« Ne è sicuro? L’ho acquistato più di quattro anni fa » chiese il dottor Watson senza intascare ancora il portafoglio.

« Questo modello ha una garanzia molto lunga » fu l’unica risposta che ottenne, prima di un freddo « arrivederci »

« Arrivederci » salutò John, sul viso sempre una certa smorfia sorpresa. L’inserviente rimase ad osservare per qualche istante la porta chiusa dietro alla figura del dottore, prima di riabbassare lo sguardo sulla tastiera del computer della cassa.

Uscì dal negozio e tornò verso lo studio medico, il pacco ben saldo sotto il braccio. Si fermò alla panineria e ordinò la solita piadina vegetariana.

Si sedette ad un tavolino tondo e tolse delicatamente il computer dalla scatola. Pigiò il pulsante dell’accensione con un tremito, aspettandosi un qualsiasi rumore assurdo. Il computer si avviò normalmente, senza mostrare i segni dello squilibrio che presentava sette giorni prima. John si concesse un breve e tirato sorriso.

Fece l’accesso alla linea wi-fi presente nell’ambiente e aprì la propria posta elettronica. C’erano diversi nuovi messaggi, tra cui qualche bolletta.

« Vegetariano! » urlò la donna addetta alle piadine: John rispose subito all’appello e si alzò dal suo posto per recuperare il pasto.

Si sedette di nuovo davanti al pc e cominciò a sbocconcellare il pane della piadina scorrendo con lo sguardo l’elenco delle mail arrivate. C’era qualche mail che notificava un commento sul suo vecchio blog, alcune lettere di spam, altre che lo esortavano a lasciare tutto e a fare una vacanza. John scosse la testa e cominciò ad eliminare tutte le mail inutili che si erano accumulate nella settimana con gesti lenti e ripetitivi. Spesso nemmeno leggeva il contenuto, cestinava direttamente.

Arrivò ad avere solo una decina di mail interessanti: la prima era di un suo vecchio commilitone che lo invitava per una birra in ricordo dei vecchi tempi. John storse il naso e addentò la piadina, cercando una scusa che non suonasse come tale. Non avrebbe detto nulla a Mary, lei lo avrebbe esortato ad “andare a divertirsi con i suoi vecchi amici”, per non dire che lo avrebbe obbligato anche a trovarsi con l’ispettore Lestrade.

Scribacchiò un paio di parole e addusse la scusa del troppo lavoro: quella funzionava sempre, lo sapeva per esperienza. John diede un morso soddisfatto alla piadina, poi scorse il resto delle lettere con occhio critico.

L’attirò una in particolare, una che in un primo momento aveva snobbato. Non aveva un oggetto e il mittente era composto da una serie di cifre e lettere apparentemente senza senso, ma che a John parvero familiari: s221b@mail.uk.

Senza un vero perché aprì l’email e trovò solo qualche carattere al suo interno: la lettera era estremamente corta e coincisa.

“Oggi, ore 18.30.
Aspettami nel tuo studio
SH”

John spalancò gli occhi e fissò lo schermo del computer per qualche minuto. Il condimento del suo pranzo cadeva a gocce lente e irregolari sul tavolino e sui fazzoletti che giacevano lì abbandonati.

I milioni di pensieri che di solito ingombravano la sua mente furono completamente dimenticati per qualche istante: solo quelle lettere ballavano nella testa di John, accompagnate dalla consapevolezza della morte dell’autore dell’email. Il suo migliore amico, Sherlock Holmes, era morto. Ormai era riuscito a realizzare quella dolorosa idea, la speranza in un miracolo era svanita non appena la richiesta aveva lasciato le sue labbra.

Ci aveva messo molto a riuscire a pronunciare quel nome di nuovo, a non dover lottare contro le lacrime ogni volta che il suo sguardo toccava qualcosa collegato a lui.

E ora quell’email, quelle due lettere finali, quelle otto parole, riportavano a galla tutto.

« Dottore, tutto a posto? » domandò la proprietaria del locale. John si era alzato di scatto dal suo posto, incapace di rimanere ancora fermo. La mano sinistra gli prudeva insistentemente, come se sentisse la mancanza della sua vecchia pistola, sua compagna in tante avventure. Come un automa annuì e tornò al suo posto. Prese il computer, i tovagliolini e il pranzo ormai abbandonato e buttò nel cestino le ultime due cose, la fame completamente dimenticata.

John portò il suo corpo fuori dal negozio. Si fermò per qualche istante dopo aver varcato la soglia, solo per recuperare quel minimo di lucidità necessaria per riuscire a raggiungere l’ambulatorio.

Varcò la soglia dello studio medico ed entrò nella sua stanza senza nemmeno vedere la segretaria. John chiuse la porta dietro di sé e si appoggiò ad essa con tutto il suo peso. Il suo corpo si muoveva piano, ma la mente si era ripresa completamente. Poteva quasi sentire i collegamenti tra i vari neuroni, più veloci che mai.

I suoi occhi cominciarono a vagare per la stanza, soffermandosi su ogni punto e nessun luogo. Si soffermò sulla finestra, sulla sua scrivania, sul lettino su cui visitava i pazienti, per poi soffermarsi sulla lampada appesa in alto.

Lentamente i contorni persero definizione, sempre più annacquati dalle lacrime. Le guance di John si rigarono, le gocce scendevano lentamente dagli occhi chiusi per cadere dal suo viso. A molte lacrime fu precluso questo destino, spazzate via da un gesto deciso della mano.

Dopo qualche tempo, John rialzò il viso dalle mani, accorgendosi solo in quell’istante di essere scivolato per terra, la schiena pigiata contro la porta. Per un momento si domandò cosa ci facesse seduto lì per terra, inabile a ricordare quello che era successo poco prima.

Parole a caso presero a vorticare nella mente di John, e solo con un grande sforzo riuscì a ricostruire. Computer, posta, email, Sherlock Holmes.

John strinse le labbra fra loro, stizzito, ricordando tutto. Era solo uno scherzo di pessimo gusto, e lui ci era cascato come un cretino, senza nemmeno dubitare. L’alogica speranza di vedere di nuovo il volto del migliore amico, di veder compiere quel miracolo tanto agognato, lo aveva ingannato.

John mise una mano per terra e si diede una spinta per rialzarsi in piedi. Una volta in posizione eretta il mondo riprese a girare normalmente. Ogni cosa aveva riacquistato la sua reale velocità, niente era accelerato o rallentato. John si avvicinò alla scrivania e si lasciò cadere sulla sedia. Non appena toccò il cuscino della poltroncina, il telefonino suonò: John scattò di nuovo in piedi come una molla. Con un movimento semplice e fluido prese il cellulare dalla tasca. Questo continuava a suonare spandendo la suoneria ovunque. Sul display la scritta “Mary” si illuminava a tratti.

Con un sospiro, John si portò il cellulare all’orecchio e rispose.

« Pronto? » la voce apparse roca, strozzata, come se fosse troppo tempo che non parlava.

« Ti sei ricordato del computer John? » disse una voce conosciuta all’orecchio. Sul volto del medico si aprì un sorriso. Mary sembrava salvarlo in ogni situazione, anche se in maniera involontaria. John si schiarì la voce prima di parlare di nuovo.

« Sì Mary, l’ho preso » rispose sedendosi pesantemente sulla poltroncina girevole. Questa si abbassò di qualche centimetro, come se fosse stata presa alla sprovvista.

« Bravo! Allora, ci… » la voce si interruppe di colpo e cambiò tono. Il sorriso di John si aprì ancora di più quando sentì Mary dire “No James! Quel pennarello non deve andare nel naso di Samantha!”. Normalità, ecco cosa necessitava.

« Dicevo: ci vediamo stasera! » riprese Mary, come se nulla fosse « Ti amo! »

« Ti amo anche io » concluse John chiudendo la telefonata.

La giornata, grazie all’intervento di Mary, aveva ripreso i suoi normali connotati. John ora riusciva a vederne la fine, lui e la sua ragazza seduti sul divano a coccolarsi e guardare un film. Tutto riprendeva i soliti contorni decisi dalla quotidianità: su quei binari, John riusciva ad essere felice, a vivere con tranquillità e serenità la sua vita. Quando aveva incontrato Mary per la prima volta era stata la sua fiducia nel futuro e la ricerca di una vita semplice che lo avevano colpito. Erano passati tre mesi dalla morte di Sherlock, e lui non era ancora riuscito a passare una notte di sonno completa. Quando aveva conosciuto Mary invece, era riuscito a dormire, riposando finalmente la sua mente, sempre troppo attiva da quel giorno. Non si erano più separati da allora, John si era aggrappato a lei come un naufrago stringe un pezzo di legno per mantenersi a galla.

Il telefono dello studio squillò un paio di volte. John alzò la cornetta prima che suonasse il terzo squillo.

« Dottore? Il primo paziente è qui » disse la voce della segretaria.

« Fatelo passare » rispose John, prima di riattaccare. Si passò una mano sul viso per mascherare le lacrime ormai secche sul suo viso e per indossare la maschera di buon medico, felice del suo lavoro.

Una vecchietta dai folti capelli grigi bussò ed entrò nella stanza nel giro di qualche secondo. John mostrò il suo migliore sorriso.

« Buongiorno signora Miller. Come va l’anca? » le domandò mettendosi più comodo sulla sedia.
 



 
 
Il pomeriggio era trascorso senza alcun intoppo. I pazienti si susseguivano uno davanti all’altro, John cercava di rispondere ad ognuno di essi al massimo della sua professionalità, ma non riusciva più a ingannare se stesso.

Dopo la telefonata di Mary poteva definirsi più calmo, ma una certa agitazione gli era rimasta addosso. Guardava ad intervalli regolari l’orologio al polso, un regalo di sua sorella per il Natale dell’anno passato. O forse dell’anno ancora prima: John non ci faceva più molto caso.

Le 16:00 scacciarono ben presto le 15:00, così come le 17:00 debellarono le 16:00. Ogni volta che osservava le lancette dell’orologio riusciva a calcolare il tempo che lo separava da quelle fatidiche 18:30. John era consapevole che la sua fosse una speranza del tutto irrazionale e lui stesso cercava inutilmente di estirparla dalla sua mente. Ma, con suo profondo dispetto, non era lì che si era legata più forte: la speranza di veder varcare la soglia del suo studio da Sherlock Holmes si era ancorata nel suo cuore. E da lì solo la più cocente delusione sarebbe riuscita a debellarla.

Erano finalmente arrivate le 18:00 anche quel pomeriggio. Ancora un'ora e sarebbe stato libero di lasciare lo studio, di rifugiarsi tra le accoglienti braccia di Mary, lasciare indietro ogni pensiero. John non desiderava altro, ma qualcosa sarebbe successo molto prima a modificare i suoi piani.

Il telefono sul tavolo suonò all'improvviso, cogliendolo di sorpresa. Era perso nei suoi pensieri tanto da non accorgersi che nessuno aveva ancora bussato alla porta.
« Pronto? » domandò con voce esitante. Dall'altro capo rispose la voce della segretaria, pratica ed esperta.

« Non ha alcun’appuntamento per le sei e le sei e un quarto. Il prossimo è per le sei e mezzo, e poi ha finito per oggi » gli comunicò, leggendo dall'agenda.

« Perfetto grazie » John chiuse la comunicazione. Sicuramente la segretaria si aspettava di vederlo uscire dallo studio per scambiare due parole e sgranchirsi le gambe, e magari invitarla a bere un tea con lui. Niente di più sbagliato. Sarebbe rimasto lì, a crogiolarsi nel dubbio e nell’illusione di vedere Sherlock superare quella porta, i suoi capelli neri sparsi per l’aria e non appiattiti sotto un cumulo di terra, i suoi occhi grigio-azzurri aperti e vivi.

Senza sapere quello che stava facendo John si alzò di scatto in piedi e, nonostante il ricordo della vecchia ferita fosse più recente, camminò con passo scandito fino alla poltroncina azzurra che ornava il suo studio. John si sedette pesantemente, la gamba sinistra più stesa e rigida rispetto alla destra, e prese il computer dalla borsa in cui lo aveva riposto ore prima. Non lo aveva neppure spento nella foga, quindi non appena aprì lo schermo gli occhi di John furono calamitati dalla email.
Rilesse quelle poche parole e chiuse gli occhi, sforzandosi di non rincominciare a piangere. Non voleva, non poteva.
 

 
Si passò una mano sugli occhi prima di controllare di nuovo l’indirizzo email da cui era arrivata quella lettera e il suo cuore mancò un battito. Come poteva non essersi accorto prima di quelle lettere?
s221b@mail.uk

Sherlock Holmes: il suo migliore amico.

221b: l’appartamento nel centro di Londra che aveva condiviso con lui fin dal loro primo incontro.

“E’ davvero…?” pensò, prima di chiudere il computer di scatto. Si alzò e si risedette davanti alla scrivania, al suo posto. Prese la penna tra le dita della mano sinistra, cominciando a scarabocchiare quelle lettere e quelle cifre con scarso entusiasmo su un blocco per appunti.

« No, no. Sherlock è morto. L’ho visto buttarsi » disse John con evidente sforzo. Nel pronunciare l’ultima parola assunse una smorfia quasi di disgusto.

« Tu vedi ma non osservi, John » gli rispose un uomo appena comparso davanti a lui, stupendo ancor di più il medico, che non si era accorto dell’intrusione. Era un uomo molto alto, capelli scuri che sfuggivano da un berretto da cacciatore; indossava un cappotto scuro, una sciarpa blu al collo che gli copriva parzialmente il viso. Un tipo che voleva passare inosservato, si sarebbe detto ad un’occhiata superficiale.

John rimase pensieroso, senza osservare neppure l’uomo misterioso: quella frase gli sembrava averla già sentita da qualche parte, era come se stesse vivendo un potente déjà-vu. Ma, il fatto ad averlo colpito veramente era stata la voce… quella voce. John poteva dire di conoscerla molto bene: l’aveva sentita in tutti i suoi diversi toni. Felice e arrabbiata, delusa e triste, di persona e tramite un telefono.

John alzò finalmente lo sguardo sull’uomo, un’espressione confusa dipinta in viso.

Al continuo silenzio del dottor Watson, lo sconosciuto parve divertito. Sorrise e aprì platealmente le braccia, facendo un giro su se stesso. Il lungo cappotto ondeggiò intorno al suo corpo, la sciarpa scivolò leggermente e permise a John di vedere il viso pallido. Con un gesto veloce l’uomo si tolse il cappello, rivelando così una folta chioma di riccioli neri.
« Per dio John! Ti sembro davvero morto? » disse continuando a sorridere. Gli occhi erano fissi in quelli del medico: erano grigio-azzurri, inconfondibili.

John rimase immobile per qualche istante, nei suoi occhi saettavano le più disparate emozioni, come se fosse indeciso su cosa provare. Si alternavano sentimenti come rabbia, incredulità, sospetto, sorpresa, prima di chiudersi di scatto. Il viso era una maschera: a tratti la mascella si induriva come se i denti fossero ben stretti tra loro.
« Tu… » la voce era rotta, non riusciva a continuare.

John scosse di scatto la testa verso sinistra, incapace di continuare la frase. Riaprì gli occhi di scatto puntandoli in quelli dell’amico, presunto, morto. La penna era rimasta in bilico tra le sue dita immobili, solo la testa si muoveva, leggermente. Sembrava che continuasse a dire di no, solo con quella.

« Tu sei un uomo morto. » John si alzò di scatto e buttò la penna sulla scrivania, senza nemmeno guardare dove l’aveva gettata. Sherlock smise di sorridere e lo guardò fisso dall’altro lato del tavolo, in piedi, leggendo le sue intenzioni direttamente dai suoi movimenti, dai suoi occhi o da qualche altro particolare.
A John non importava veramente che riuscisse a capire quello che stava per fare. Voleva dare un pugno in faccia a quel figlio di puttana che aveva davanti. Sì, un figlio di puttana, perché non può essere chiamato altrimenti un uomo che finge la propria morte e ritorna così platealmente.

 Spinse lontana la sedia alle sue spalle, evitando così un intralcio nel suo percorso. Girò attorno al tavolo e si piantò davanti a Sherlock. Erano ad un metro di distanza più o meno, e il suo sguardo sembrava perforare gli occhi dell’altro. Il respiro era calmo, John era un soldato, sapeva come gestire il respiro e le emozioni forti, di solito, in condizioni normali.
Rimasero in quella posizione per qualche eterno secondo. John sentiva una vena pulsare sulla fronte, sapeva cosa doveva fare. Aveva caricato tutta la forza disponibile nel suo corpo, ma non riusciva a lasciare quello sguardo, quel viso tanto ricercato nel corso degli ultimi tre anni.

Quello che lo fece scattare fu il patetico tentativo di Sherlock di sorridere. Il pugno arrivò prima ancora che John riuscisse a pensare di voler evitare le labbra e il naso. Il lungo corpo di Sherlock crollò verso il pavimento, ma fu acchiappato all’ultimo momento dal braccio destro del dottore, in un disperato tentativo di strangolamento.

« Tu! » urlò con la voce rotta dall’affanno il dottore « Tu, maledetto figlio di puttana »

Sherlock per un momento rimase fermo, immobile. Poi portò le mani sulle braccia del dottore strette intorno al suo collo e gliele strinse, nel tentativo di liberarsi.
« John… » sussurrò, la voce rotta. Era impossibile sapere se fosse spezzata per la mancanza di ossigeno o per l’emozione. Tuttavia fu abbastanza per far realizzare a John quello che stava facendo.

Un pensiero lucido comparve nella mente del dottore: Sherlock era vivo e lui lo stava uccidendo soffocandolo con tutte le sue forze.
Le braccia mollarono la presa prima ancora che il cervello riuscisse a dare l’ordine. Il corpo del suo migliore amico stramazzò a terra con un tonfo, ma si riprese subito. Sherlock si alzò in piedi, pronto ad affrontare altri colpi da parte di John. Il dottore rimase immobile, a qualche passo di distanza dall’amico, gli occhi che ancora saettavano emozioni non amichevoli, il respiro accelerato.

« E così non sei morto? » domandò John in maniera retorica. Non appena Sherlock cercò di parlare, forse per spiegare come fosse riuscito a salvarsi, John lo interruppe, senza nemmeno farlo cominciare: sapeva quanto adorasse parlare e far notare agli altri quello che lui riusciva a vedere.
« Evidentemente no! Sei qui, vivo e vegeto, dopo tre anni dalla tua morte » John sottolineò l’ultima parola usando un tono diverso « Cosa vuoi che ti dica? Vuoi che ti faccia i complimenti anche per questo trucco riuscito alla perfezione? »

John si fermò per un attimo, preso dal fiatone per aver parlato così velocemente e a voce così alta. Non gli importava di essere sentito dagli altri medici dello studio o dai pazienti.
« Bravissimo! Fantastico! Brillante! Ora puoi anche andartene! »
Il dottore continuò a fissarlo per qualche istante, prima di voltarsi e andarsi a sedere dietro alla scrivania.

Sherlock lo fissò sedersi senza aprire bocca. Lo zigomo era arrossato, gli sarebbe venuto un livido entro poco tempo.
John rimase per poco tempo seduto. Strappò il foglietto su cui aveva scarabocchiato prima e chiuse il computer. Lo mise nella borsa con tutto il resto delle sue cose. John si alzò e si tolse il camicie prima di indossare la giacca: il clima di Londra non era mai clemente, in nessuna stagione.

Durante tutto questo tempo Sherlock continuò a fissarlo in silenzio, senza perdersi neppure un movimento, un gesto o uno sguardo: tutto era sotto il suo più completo controllo. Solo quando John mise la mano sopra la maniglia, parlò.
« Dove vai? » chiese senza mollare con gli occhi la figura del dottore. John chiuse un secondo più del normale gli occhi ed emise un respiro strozzato.

« Dal mio migliore amico » rispose, poi aprì la porta di scatto e uscì, senza guardarsi indietro.
Sherlock non aspettò nemmeno un secondo e lo seguì, chiudendosi la porta alle spalle.
 



 
John arrivò fino in strada, la borsa sotto il braccio. Girò a destra, percorse qualche metro per arrivare nella strada principale. Alzò un braccio per chiamare un taxi che passava in quel momento.
« Taxi! » disse per attirare l’attenzione dell’autista. Questo si fermò, poco più avanti. John non si concesse nemmeno un sorriso soddisfatto e lo raggiunse. Montò e diede l’indirizzo al tassista.

Mille pensieri gli affollavano la mente, e nessuno sembrava avesse un vero inizio né una vera fine. Mezze frasi si sovrapponevano senza alcun senso, senza alcuna logica. Era riuscito ad accettare, dopo moltissimi mesi di lutto stretto, la morte di Sherlock Holmes, il suo migliore amico. Era stato un percorso tremendamente doloroso, mortalmente lungo. John aveva adesso rattoppato quel grande buco che aveva lasciato la scomparsa del suo migliore amico, era riuscito a sopravvivere, ad andare avanti.
Se prima uno dei suoi punti fissi era l’averlo sempre accanto, ora era l’averlo conosciuto veramente, aver conosciuto il suo genio, la sua parlantina veloce, il suo comportamento scostante e spesso insopportabile, il sapere che lui non fosse una finzione.

Ora… ora cambiava tutto di nuovo. Shelock non era morto, era tornato nel mondo dei vivi, voleva tornare a far parte della sua vita. John aveva aspettato quel miracolo, lo aveva sperato inconsciamente, nonostante il suo cervello gli urlasse l’evidenza.
Le lacrime sgorgarono dai suoi occhi senza alcun freno.

Sherlock era vivo. Il suo migliore amico era vivo. La persona più intelligente di questo fottuto mondo era riuscito a farla a tutti di nuovo, era vivo.
John guardò fuori dal finestrino, ringraziando quel Dio in cui non credeva più da molto tempo per il miracolo che gli era stato concesso.
 


 
Sherlock aveva tallonato il medico molto da vicino. Il suo cervello lavorava veloce, dopo la batosta di poco prima. John aveva detto che andava dal suo migliore amico: Sherlock era certo che non si riferisse ad un altro amico, tipo Lestrade o Molly, ma a lui stesso. Eccola lì, l’illuminazione che stava cercando.

John stava andando al cimitero dove era sepolta la bara vuota che portava il suo nome.

« Taxi! » urlò Sherlock buttandosi in mezzo alla traiettoria di un taxi. Questo riuscì a frenare per evitarlo all’ultimo secondo, ma il moro non si fece alcun problema. Aprì semplicemente la portiera posteriore della vettura, trovandola già occupata da una coppietta.
Sherlock gonfiò le guance, indispettito, e frugò nella tasca del cappotto, alla ricerca di un distintivo di Lestrade, rubato anni prima. Non trovò niente, evidentemente Mycroft aveva deciso di togliergli tutti i suoi vecchi “trofei”.

Il detective bofonchiò qualche parola a mezza bocca contro il fratello e chiuse di schianto la porta del veicolo. Ora gli toccava aspettare un altro taxi libero, sperando che John non cambiasse idea a metà strada sulla sua meta. Non era nel suo stile cambiare i suoi piani, ma Sherlock non poteva permettersi errori in quel momento.
Salì sul primo taxi libero e ordinò con voce imperiosa al tassista di andare al cimitero nel più breve tempo possibile. Una volta che la vettura fu partita dal marciapiede con un’accelerazione notevole, Sherlock si appoggiò al sedile posteriore e unì le mani sotto al mento, cominciando a pensare. Aveva riflettuto molte volte a come avrebbe reagito John alla sua rivelazione, e tutte le sue ipotesi finivano con l’accettazione del dottore dell’amico ritrovato. Sherlock aveva effettivamente considerato la possibilità di una reazione violenta, John era un soldato e lo sarebbe sempre stato, ma era stato sempre più propenso ad immaginare una riunione più… affettiva. John lo aveva sempre rimproverato di trattare gli altri con freddezza e senza rispettare i loro sentimenti: Sherlock non ci aveva mai fatto caso, non ci credeva.

Il taxi frenò precipitosamente davanti al cimitero: Sherlock guardò il cancello nero dal finestrino per qualche secondo, leggermente confuso per essere stato catapultato fuori così bruscamente dal suo palazzo mentale, poi si precipitò fuori dalla vettura lasciando i soldi sul sedile. Sherlock corse, cercando di evitare i passanti e si avventurò per le strette stradine del cimitero. Come immaginava, a poca distanza dalla sua lapide c’era John. Rimaneva lì, in piedi, a pochi passi dalla tomba vuota.

Sherlock percorse a lunghe falcate lo spazio che li separava e cominciò a sentire la voce di John nell’aria, come anni prima. Un tono pacato, semplice e calmo.
Stava raccontando alla lapide quello che era successo in quei giorni. Del guasto al computer, della mail, del loro incontro, di come avesse cercato di ucciderlo. Ridacchiò anche ad un certo punto, ironizzando sulla sua forza. Sembrava che fossero ritornati alla normalità.
 
 


 
« Sono passati tre anni Sherlock » disse John. Si passò una mano sul viso e sugli occhi. L’espressione era stanca, ma serena. Nessuna ombra passava sul suo viso.

« Lo so John, mi sei mancato anche tu » rispose Sherlock affiancandolo nella contemplazione della tomba con il suo nome.







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Spazio autrice:
Grazie mille di essere arrivati fino a qui. Questo è stata la mia prima ff nel fandom di Sherlock, e spero non resti per molto tempo da sola.
Chiedo un piccolo parere, per sapere se sono riuscita a tenere i personaggi IC, specialmente quel ballerino di uno Sherlock. u.u
Ringraziamenti doverosi: alla mia beta Rì, alla mia amica di fangirling Costanza e alla giudicia del contest.

Grazie ancora,
_Jaya



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