Storie originali > Fantascienza
Ricorda la storia  |      
Autore: _Sinclair_    28/05/2013    3 recensioni
(Universo di Radiant) Anno 2, Ante-Esilio. Mentre il sistema solare è ancora dilaniato dalla guerra civile tra le colonie marziane e il governo terrestre, la Luna e i suoi insediamenti cercano di conservare una parvenza di pace e di ordine. La vita va avanti e a Novaja Sankt Petersburg, la città più grande del satellite, una famiglia gestisce un ristorante nei quartieri bene. Ma tutto cambierà con l'arrivo di una ragazza, Claire, che con la sua sola presenza finirà con l'infrangere equilibri apparentemente immutabili. E niente sarà più come prima...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Novaja Sankt Petersbug (NSP), Luna, 22 luglio Anno 2, Ante-Esilio


Da quanto tempo mi trovo qui? Un'ora, due? E ora che è arrivato lei sono sicura che ricominceremo da capo, sempre a parlare delle stesse cose!

Ma no, ma chi si lamenta... è solo che tutta questa storia è un po' difficile da gestire per me. Mi capirà. Ma poi, in fondo, lei cosa vuole da me? Cosa vuole che le dica?

No, sul serio, glielo chiedo davvero. Vuole che le parli di Alex? Di chi era, della sua storia? Magari della famiglia o di sua madre... lo so, lo so, quasi sempre i guai cominciano dalla madre. Oppure è più interessato a sapere che cosa lui volesse dalla vita, le sue ambizioni, i suoi progetti. In questo caso si metta in fila perché nemmeno io, dopo cinque anni di relazione e un matrimonio in vista, sono mai riuscita a capirlo davvero.

Alex... beh, lui era Alex. Tutto il contrario di Lev, suo fratello (e glielo leggo negli occhi: vuole che gli parli anche di lui... come se fosse facile per me...). Ma sì, Lev era facile da comprendere. Un bulletto mancato, sempre pronto ad attaccare briga col prossimo e con così tante stupidaggini per la testa da poterci riempire una navetta per Giove e ritorno. Lev dipendeva dalle sue stesse emozioni, ne era drogato. Voleva cambiare l’universo per poterne provare sempre di nuove, per essere libero di non essere un bel niente. Uno stronzettino viziato, ecco quello che era.

Alex invece no. Alex era diverso. Se ne rimaneva in silenzio per giorni e giorni. E non uno di quei silenzi che ti fanno capire che è meglio lasciar stare una persona, andartene in un’altra stanza e aspettare che gli passi. Erano silenzi che facevano paura, i suoi. Perché Alex pensava, e pensava, e pensava... Non la smetteva mai, cercava sempre nuove idee da analizzare, organizzare, classificare, torturare... E tutte ruotavano ad un’unica cosa, quel maledetto ristorante.

Ecco, mi trema di nuovo la mano. Una sigaretta, ho bisogno di una sigaretta. E non mi dica che qui non posso fumare: il suo amico, lì, me l'ha concessa dieci minuti fa. Ecco, bravo, mi faccia accendere.

Però, come sale strano. Cosa? Ma il vostro fumo. Da quando me ne sono andata da Caboto, la mia colonia, e mi sono trasferita qui sulla Luna non mi sono mai abituata a vedere queste nuvolette così sottili, così lunghe. Sarà quell’aborto di gravità che avete qui, è ovvio. Però mi hanno sempre affascinata e mi giravano in continuazione nella mente quando ho deciso di smettere. Beh, quando Alex ha deciso che smettessi. Perché i clienti non mi dovevano vedere.

Cristo.

Beh, d’accordo, devo parlare di quel ristorante, no? Non posso evitarlo se voglio parlare di Alex, in fondo. La mano mi trema un po’ meno ora. Marziana o meno che sia, la cara vecchia nicotina fa miracoli.

Il ristorante era Alex. E viceversa. Di più, era la famiglia di Alex. I suoi anni passati, la sua infanzia, i suoi genitori, la sua scuola.... tutti messi insieme in un bel pacchetto regalo, con tanto di fiocco dorato e bigliettino da visita del locale. Un peso enorme, quasi insopportabile per chiunque, e infatti Alex non lo reggeva. Non da quando era morto il padre, almeno. Nel corso del tempo, un po’ alla volta, aveva cominciato a scaricarlo in avanti, gli lasciava occupare tutto il suo presente e lo proiettava nel futuro, al punto che ormai io e lui non ragionavamo nemmeno più in termini di anni o di progetti, ma in base alle scadenze dei fornitori, alle prospettive di ampliamento dei posti a sedere, o ancora seguendo le uscite dei nuovi modelli di cucina da acquistare.

Ora, si starà chiedendo, che c’è di male in questo? Nulla, se il locale è un buon esercizio commerciale, che ti da di che vivere e magari ti permette anche di fare una vita comoda.

Il problema è che noi, invece, eravamo al verde.

Ma no, non sia ridicolo. Le pare che un tipo come Alex potesse inguaiarsi con strozzini o banche o altra roba del genere? Per lui accettare un prestito sarebbe stato come accettare una propria debolezza, o peggio accettare la possibilità di fallire. E men che meno avrebbe mai pensato di trovarsi un socio, nonostante io stessa glielo avessi consigliato un milione di volte. Di nuovo, sarebbe stato come accogliere un estraneo in casa nostra... diavolo, ma quale casa nostra, nella casa sua e della sua bella famigliola. Noi non abbiamo mai avuto qualcosa di realmente nostro, solo pezzi di vita concessi dalla sua famiglia.

La sua famiglia, già. Del padre gliene ho già parlato e mi resta solo da dire che la cosa migliore che abbia mai fatto in vita sua è stata quella di togliersi di torno con una malattia rapida, senza dare troppe scocciature. Anche del fratello sapete ormai tutto, sicuramente anche più di me. E la madre... beh, la madre era quello che ci si potrebbe attendere da una signora bene di una famiglia bene della società bene di Novaja Sankt Petersburg: una rompiscatole impicciona ed arrogante, sempre pronta a dirti come si devono fare le cose pur non sapendo assolutamente nulla di quello di cui si sta parlando e intimamente convinta che nessuna donna sarebbe mai stata abbastanza per quel genio indiscusso del suo bel figlioletto. O almeno, di quello con la testa a posto, di Alex insomma.

Quanto a Lev, a conti fatti devo dirle che dei due almeno era il più onesto: la sua follia la esprimeva con atti chiari e concreti. Almeno lui le persone le uccideva e basta, non gli rovinava la vita godendosi con usoddisfazione lo spettacolo di un’esistenza distrutta.

Sono cinica? Sono cattiva? Ma, accidenti, dopo quello che è successo è il minimo, non crede? Me lo sono guadagnato il diritto di essere cattiva. Sulla mia pelle.

Comunque, eravamo al verde e quel che è peggio lo eravamo con i nostri patrimoni personali. Alex si era identificato con il suo ristorante a tal punto da fare in modo che un eventuale fallimento commerciale coincidesse con un fallimento personale. In altre parole, morto il ristorante sarebbe morto anche lui. E anche io avrei fatto la stessa fine, credo, anche se di certo questo era l’ultimo dei suoi pensieri. Perché, vede,  sono stata una stupida a non capirlo prima, in tutto questo grande gioco della sua mente la mia importanza non era superiore a quella del computer con il quale tenevamo i conti del locale. Non ero la sua vita, servivo alla sua vita. La differenza è sottile, ma fondamentale, al punto che ancora adesso se ci penso mi sento raggelare le ossa.

Con questo non sto dicendo che io non c’entrassi più di tanto con la sua vita o men che meno con questa brutta storia di ieri. Al contrario, io facevo parte integrante dello scenario. In buona misura, sto così male proprio perché, lo devo ammettere, senza di me molto di quello che è successo non sarebbe stato possibile. Devo solo capire se senza di me le cose sarebbero solo andate diversamente o se io stessa sono alla fine dei conti la causa scatenante di questo grande macello. E la risposta a cui sto arrivando non mi piace.

Io ed Alex ci conoscemmo cinque anni fa, sulla mia colonia, Caboto. Quando ero ancora felice e nemmeno lo sapevo. Lui e suo padre erano venuti a visitare dei nostri amici di famiglia, proprietari di una ditta agricola che coltivava primizie terrestri nelle stazioni secondarie disposte attorno alla colonia. Vidi quel bel ragazzo, alto, capelli scuri, barba appena fatta, e caddi come una pera cotta ai suoi piedi. Oh, doveva vederlo quel giorno... Anche se lei è un uomo capirebbe come una giovane occhialuta e un po’ secchiona, appena uscita dall’università, non potesse fare a meno di innamorarsi di un ragazzo che si presentava così bene, vestito in maniera elegante, dai modi gentili. Perché il bastardo ci sapeva fare, al contrario del padre che non è mai riuscito a togliersi di dosso quell’aria da cuoco di periferia con la pancetta e la calvizie in arrivo. Ma la madre era una donna molto bella e lui aveva preso tutto da lei, compreso il modo di muovere le mani... quelle mani sottili, che ancora adesso mi rivedo davanti, che sento sulla mia pelle.

Insomma, ero cotta a puntino. I due ospiti rimasero per un paio di settimane e mentre il padre faceva su e giù dalle stazioni agricole, io ed Alex passavamo le giornate insieme. Lui, era ovvio, mi parlava del suo ristorante, ma anche dei suoi altri progetti, quelli che poi qualche anno dopo si sarebbe dimenticato. I viaggi da fare, i posti da conoscere, l’idea di visitare un giorno la Terra... e ancora la volontà di divenire un grande chef, magari su una di quelle gigantesche navi da crociera che prima della guerra facevano avanti e indietro tra la Terra e Marte, fermandosi in mezzo alla fascia degli asteroidi.

Me le ricordo ancora adesso quelle giornate, minuto per minuto. Ad ogni sogno che lui mi metteva davanti, spostava una ciocca dei suoi capelli nerissimi dal volto, ed io mi perdevo in quel gesto, in quei dannati riccioli. Ero una stupida, una felicissima stupida, seduta accanto a lui nel parco cittadino di Caboto, con i piedi nudi e a mollo nel fiume artificiale. Mi godevo la luce dei grandi riflettori centrali, mi sembrava di vederla per la prima volta e se chiudevo gli occhi potevo immaginare di trovarmi sulla Terra, volando coi pensieri proprio come facevo da bambina. Solo che questa volta ero con lui, sulle rive di uno di quei grandi fiumi che hanno laggiù, baciata da un vento che non era generato da una turbina per il ricircolo automatico dell’aria, lo sguardo perso in quella cosa strana che sono le nuvole non pianificate da un programma meteorologico ma dalle semplici leggi della natura, quelle che all’improvviso e senza un orario prestabilito ti inzuppano d’acqua e ti fanno correre sotto i tetti delle case perchè ti sei dimenticata di portare l’ombrello.

Solo che in quei giorni, per la prima volta, nei miei sogni c’era lui. Era troppo tardi, lo avevo fatto entrare. Si era infilato nei miei desideri, li aveva fatti propri, mi aveva convinto che senza di lui non avessero più senso alcuno. Ecco, ero perduta. Senza saperlo, la mia felicità moriva di fronte ai miei occhi e io non sapevo fare di meglio che ridere. Ridere, ridere sempre. Quanto ridevamo assieme, cazzo...

Le due settimane passarono, ma come può immaginare non mi bastavano. Non potevano bastarmi. Gli diedi il mio numero di telefono - il che è come dire che gli diedi una pistola carica per spararmi alla tempia - e lo pregai di usarlo. Sì, pregare è il termine corretto. E’ così umiliante adesso dirlo, ma ero totalmente nelle sue mani, al punto che la prospettiva di non sentirlo più era così orribile da spingermi a rinunciare a qualsiasi forma di dignità anche di fronte ai miei genitori, stupiti dal mio comportamento. Ventitre anni li si ha una volta sola nella vita, per fortuna.

Cosa successe poi? Andiamo, un po’ di immaginazione. Lui mi chiamò, io corsi da lui. Certo, nel mezzo c’erano state liti continue con i miei, la rinuncia agli stage di formazione presso una grossa azienda che mi stava puntando da prima ancora che finissi l’università, pianti e litigate con le mie amiche storiche di Caboto con cui ero cresciuta insieme... la solita roba, no? Lei comprenderà anche come una relazione a distanza diventi un po’ complessa quando la distanza è costituita da qualche milione di chilometri i quali, nonostante tutti gli avanzamenti della tecnologia interplanetaria moderna, rappresentano un bell’ostacolo.

E così, via, si parte per la Luna, per quella NSP così grande e caotica per una ragazzina delle colonie che ha sentito parlare e visto la grande città della Luna solo nei film e nei libri.

Mi ricordo ancora la mia prima impressione quando scesi dalla navetta, quel senso di soffocamento che provai nel vedere una città completamente grigia persa nel grigio della luna e divisa dal nero eterno dello spazio solo da una serie infinita di cupole di sicurezza, grigie anch’esse. E poi, quei palazzi, torri di vetro così alte, con così tante finestre e tanta gente dietro quelle finestre. E alla fine tu pensi che se c’è tanta gente, allora quelle persone contano poco, molto meno che nel tuo grosso cilindro di metallo orbitante in cui tutti si conoscono e in cui tutti hanno un significato. E ancora, quel senso sgradevole di una gravità che c’era, ma non era una gravità vera, con lo stomaco che non sapeva se andare su o giù e la testa che dondolava troppo, ma tu vedevi che gli altri erano tranquilli, che per loro era tutto normale, che non c’erano corrimani a cui aggrapparsi, perché le cose andavano così sulla Luna, e ti ci saresti abituata anche tu a saltellare più che camminare, ad afferrare una penna al volo o a balzare verso l’alto piuttosto che rimetterti in piedi da una sedia.

Insomma, non la prenda come un affronto personale a lei che qui ci vive, ma tale era stato il colpo per me che mi sentii venire meno e per poco il primo giorno su NSP non lo passai in ospedale. Ed ecco quindi la qui presente Claire Santon, neo-laureata in business managing ad alto livello, piegata in due e indecisa se vomitare la schifezza di pranzo che aveva mangiato sulla navetta o andare avanti e mantenere un’aria distaccata e rispettabile.

Una decisione importante che dovevo prendere da sola, perché Alex non era allo spazioporto ad attendermi. Avrei dovuto capire molte cose da quell’inizio, soprattutto dalla motivazione per la sua assenza, che all’epoca considerai del tutto legittima. C’erano stati problemi al ristorante, una delle cucine non funzionava e lui era dovuto rimanere ad attendere l’arrivo dei tecnici mentre il padre organizzava una serata privata per dei clienti di riguardo. E va beh, mi ero detta, in fondo il lavoro prima di tutto, no?

E poi quel ristorante era importante anche per me. La nostra idea era che io sarei andata a vivere dai suoi, ma solo per qualche tempo, in attesa di farci una casa tutta nostra. Anche perché in linea di massima saremmo rimasti in città solo per qualche tempo, un anno o due al massimo, nell’attesa che lui entrasse in uno dei corsi dell’Alta Scuola di Cucina che ha sede ad Aldrin per poi vedere dove avrebbe trovato un impiego, magari su una di quelle splendide navi da crociera. Io potevo cercare lavoro nelle varie ditte che avevano una sede sulla Luna - e in effetti, un paio di agganci buoni li avevo anche - ma nel frattempo ci saremmo limitati a dare una mano alla famiglia di Alex con il ristorante, lui in cucina e io alla contabilità.

Un progetto ragionevole, di buon senso. Insomma, la ricetta migliore per il disastro. E infatti.

Ripreso il controllo di me e del mio stomaco, mi diressi subito verso la casa di Alex e della sua famiglia, situata in una zona bene della città e costruita sopra il famoso ristorante.

Bene.

La sigaretta è già finita, accidenti. Me ne farei volentieri una terza.

No che non voglio farle perdere tempo, cazzo! Se le parlo di queste cose ho i miei buoni motivi. E poi lei ha forse degli impegni urgenti per questo pomeriggio?

Tutti questi dettagli sono essenziali per capire tutta questa storia, e lei deve capirla prima ancora di potersene fare un’idea.

Il ristorante, dunque. Il locale.

Le ho detto che la casa della famiglia di Alex ci era costruita sopra, ma sarebbe più esatto dire che il ristorante era cresciuto dentro quel palazzo. Sì, esatto, so a cosa sta pensando: era cresciuto proprio come un cancro. L’edificio, di quella bella tonalità “ossa di morto” che piace tanto a voi lunari, aveva anche un bello stile, più o meno classicheggiante con qualche vago accento europeo (prima che me lo chieda, se non avessi fatto economia all’Università mi sarei iscritta ad architettura... ma la passione mi è rimasta). Ma alla sua base, là dove normalmente ci si sarebbe attesi un bel portone, magari separato dalla strada con qualche gradino in marmo o un giardino, eccolo. Un buco nero con l’insegna rossastra, una sorta di voragine che ti attirava dentro di lei, o anche una tana che nascondeva chissà quale pericolo.

Sto un po’ esagerando? Sì, certo che sì. Quando lo vidi per la prima volta il locale mi piacque pure. Le sedie erano dorate e intarsiate, i tavoli spaziosi, le pareti ornate da applique sobrie ma raffinate. Il classico posticino “alla francese” che va tanto di moda oggi, un po’ ridondante ma reso perfino grazioso dal suo sfacciato essere “retrò”. E poi, prima ancora di entrare, sentivi nell’aria quel vago odore di cucinato, indefinibile eppure buono, invitante. Il menu esposto al pubblico era scritto su fogli di carta pregiata, rilegate in un volumetto di colore rosso e sorrette da un leggio in ferro battuto. Insomma, come Alex quel ristorante ci sapeva fare, ti faceva sentire speciale prima ancora di entrarci.

E io ci entrai, ritrovandomi di fronte ad Alex che parlava fitto fitto con uno dei tecnici e alla madre che rivedeva alcuni conti. Dalla cucina si sentivano gli sbraiti del padre, una strana distonia a confronto dell’arredo ricercato dell’interno.

Come mi accolsero tutti non appena mi videro? Magnificamente, è naturale. Ero nella penombra del locale da solo pochi istanti e già mi sentivo ricoperta di abbracci, di affetto, di calore. Mi sentivo una principessa, felice di essere accettata, al riparo dalle eterne discussioni con i miei, accolta da quel posto. Sì, ne ero contenta, era come se avessi superato una prova, dimostrando qualcosa a quella famiglia e a quel locale.

Che cretina che ero.

I miei guai, gliel’ho detto, cominciarono allora. Taglierò corto, perché questa è la fase più noiosa sia di tutta la vicenda che anche della mia vita. I miei anni lunari, i miei anni grigi, così li chiamavo tra me e me ogni notte, mentre non facevo assolutamente nulla per porvi fine.

Il locale andava male già allora. Non malissimo, galleggiava. Il padre di Alex aveva puntato tutto sulla cucina raffinata, adatta ad un ristorante di lusso, ma anche se era capace di preparare la migliore bouillabaisse di tutta la città e la sua orata terrestre allo zenzero era un piatto degno di un sovrano dei tempi andati, con i soldi proprio non ci sapeva fare. Spendeva e spendeva ancora, senza ritegno. Non per sè, è ovvio, e anzi in quella famiglia erano tutti un po’ taccagni, ma per il locale. Sempre per il locale. Il locale prima di tutto. Prima di tutti.

Insomma, gli ingredienti erano freschissimi, ogni giorno. Un flusso ininterrotto di fornitori si accalcava di fronte alle nostre porte ogni mattina, richiedendo prezzi esorbitanti rispetto a quelli pagati dai nostri concorrenti. E poiché la crisi era vicina e i clienti già cominciavano a scarseggiare, buona parte di quel ben di Dio andava sprecata. Un vero peccato, mi creda.

Dal canto mio, feci quel che potevo con quei conti disgraziati. Tanto per cominciare, dovetti ingaggiare una lotta feroce con la madre di Alex per assumere il controllo pieno dei conti. Quella donna... non era cattiva con me, anzi era fin troppo buona. Le basti solo pensare che in questi anni trascorsi con loro devo aver messo su almeno cinque o sei chili di peso in più, con quello che mi ha dato da mangiare! Però, pranzi e tremende vacanze comunitarie tutti insieme a parte, le assicuro che non fu facile riuscire a convincerla che io, con la mia laurea e la mia specializzazione, forse di contabilità ne sapevo un pochino più di lei che una università non l’aveva vista nemmeno col cannocchiale. Dopo tanti scontri, litigate, ripicche e Dio solo sa che altro ce la feci ad avere in mano l’intera gestione finanziaria del ristorante permettendogli - non lo dico per vantarmi ma perché è vero - di sopravvivere.

E che bell’affare che avevo fatto! Ripensandoci ora avrei fatto molto meglio a lasciarlo morire da solo quel posto, ma a ripensare adesso alle mie scelte e a quello che è accaduto l’unica conclusione logica a cui arrivo è che avrei fatto meglio a non scambiare nemmeno una parola con quel ragazzo sconosciuto venuto chissà da quale buco. Ma, vabbè, le cose stanno così.

Oh, e in tutto questo, il nostro Alex che faceva? Non certo il famoso corso di cucina, perché i soldi erano pochi, troppo pochi per pagare quell’iscrizione tanto costosa. Quindi, dava una mano al padre, non si qualificava, perdeva tempo. Anzi no, lasciava che quel locale, per il quale non provava chissà quale attaccamento quando ci eravamo conosciuti, gli entrasse dentro, si facesse strada nei suoi pensieri, soffocasse dolcemente e lentamente tutti i suoi sogni, e con loro anche i miei che vi si erano intrecciati.

Le settimane divennero mesi, i mesi divennero anni. Quella che doveva essere l’estate in cui avremmo dovuto cambiare vita si trasformò solo in un’occasione per una squallida vacanza sulla Stazione Ishtar con Alex e i suoi, perché Lev all’ultimo se l’era svignata ed era scomparso come spesso faceva.  Poi passarono altri mesi, un altro corso perduto, un altro rinvio... un’altra estate. Quindi arrivò la guerra e tutto si fermò, cristallizzandosi in attesa di qualcosa che nessuno sapeva ma che tutti aspettavano. Che fosse la pace, la vittoria o la sconfitta poco importava: doveva succedere qualcosa.

Per me non successe nulla, nemmeno con la mia famiglia. Con loro ormai avevo tagliato ogni rapporto. I primi tempi ci eravamo scambiati dei videomessaggi, qualche chiamata in simultanea. Poi solo scambi testuali, posta elettronica. Tutto molto cortese, gli antichi livori raffreddati e dimenticati. Forse pensavano che io fossi la figlia perduta, non so. Si concentrarono su mia sorella, Nadine, che si arruolò nella milizia coloniale e andò a combattere tra gli asteroidi. Sta ancora lì, so che sta bene. Almeno spero, sono un paio di mesi che non la sento. Anzi, se lei avesse notizie...

Ma no, magari dopo.

Insomma, la situazione era chiaramente instabile. A due anni dal mio arrivo sulla Luna nessuno dei nostri progetti era andato in porto e anzi tutto stava diventando più complicato. Avevo già fatto le mie rinunce, le mie amiche avevano trovato un lavoro e anche messo su famiglia. Un paio erano rimaste incinte.

Io stavo al computer, battevo i conti, facevo miracoli con i numeri, bevevo il vino del ristorante e, appunto, prendevo peso. Ogni giorno lì, la mattina a quella scrivania con le cifre e i nomi dei creditori che mi ballavano davanti agli occhi. Ogni tanto la noia veniva interrotta da una telefonata per la prenotazione e sentivo mariti che preparavano belle serate con le mogli, padri orgogliosi che riservavano un tavolo per la loro famiglia, tipi dalla voce sospettosa che chiedevano la massima discrezione per incontri romantici che forse non erano del tutto leciti. Oh sì, le capivo tutte queste cose, sa? Dopo un po’ ci fai l’orecchio e prima ancora che ti dicano il loro nome o il numero dei commensali ti spunta quel sorrisetto di complicità sulle labbra.

Ad ogni modo le mie impressioni venivano puntualmente confermate la sera, quando il sorrisetto si era trasformato in una smorfia di gentilezza stampata a forza sul volto, e io me ne stavo al banco di ingresso, smistando i clienti, assegnandoli ai camerieri e ricevendo poi i pagamenti. E vedevo quelle persone, i pezzi di vita che si portavano appresso o dai quali fuggivano per una serata. Danzavano tutti di fronte a me, alla luce delle candele e nei riflessi degli specchi, i giovani e i vecchi, gli uomini e le donne, i felici e i tristi. E io scrivevo, contavo, amministravo la loro gioia e il loro dispiacere. Alle volte mi sembrava di allungare una mano, cercavo di toccare un po’ di quella esistenza, quella realtà che c’era al di là delle porte del ristorante, quasi ci riuscivo... ma poi un rumore, o una voce dalla cucina, o un piatto che cadeva, o una nuova telefonata mi riportavano dove stavo. Dentro il ristorante, dentro la sua penombra calda, un po’ umida. Pesante.

Ci volle poco perché arrivasse la prima crisi seria tra me ed Alex. Era il terzo anno della mia residenza sulla Luna. Non ne potevo più, un bel giorno mi piantai davanti a lui senza un motivo preciso e gli vomitai contro tutte le mie frustrazioni, le mie attese tradite, le mie delusioni.

Vorrei poterle dire che stavamo per lasciarci. Vorrei davvero. Ma lui - e soprattutto la sua famiglia - avevano capito che ormai non ne avevo più la forza. Me l’avevano tolta i numeri, gli specchi, le sedie intarsiate, il profumo delle capesante al forno che veniva dalla cucina, il calore dei velluti, il lucido dei mobili, quella scrivania così grande... Urlavo sì, ma ero già legata, e proprio perchè intimamente me ne rendevo conto urlavo con ancor più disperazione.

Oh, lui fu così gentile, così comprensivo. E anche i suoi, la madre soprattutto. A spiegarmi che mi attendeva una vita felice lì, che avevo fatto tanto per loro, che il locale avrebbe ripreso ad andare bene e a darci di che vivere con agiatezza. Mi dissero che capivano i miei dubbi e le mie paure, era normalissimi e non mi dovevo sentire in colpa a causa di quei brutti pensieri, ma anche che io ed Alex avevamo costruito così tanto e che sarebbe stato davvero un peccato buttare tutto. Costruito... costruito... che cosa non lo so proprio. Avevamo protetto, questo sì. Avevamo conservato. Le nostre esistenze, le nostre abitudini, il nostro status quo... il nostro locale. Sì, quello stava bene, alla fin fine andava avanti.

Mi guardai intorno, circondata come ero da quella famiglia e dalle loro parole. Volevo ribattere qualcosa, annaspando per il mio bisogno di sentire finalmente una boccata d’aria fresca come quella che abbiamo a primavera nelle colonie, ma poi distrussero ogni mia resistenza con l’arma più insidiosa: la promessa. Mi dissero che quell’autunno Alex avrebbe frequentato il corso, che ormai il locale poteva andare avanti senza di lui. Lev, in uno dei suoi rari periodi di presenza in casa, arrivò addirittura ad annunciare a tutti che l’avrebbe piantata di andare e venire, di frequentare certe cattive persone da cui la madre l’aveva messo in guardia, e che avrebbe dato una mano agli affari di famiglia.

Quindi, grandi abbracci, grandi feste, cena generale al tavolo più bello visto che quella era la serata di riposo settimanale. Perfino la penombra eterna di quelle sale mi era risultata un po’ meno cupa e forse con qualche lampada nuova ci sarebbe stata un po’ più di luce...

Due settimane dopo il padre di Alex morì. Infarto secco, davanti ai suoi fornelli. Era spirato prima ancora di accasciarsi al pavimento. Aveva lavorato troppo la settimana precedente, aveva dato troppo per il suo locale. E il mondo, di nuovo, si fermò.

Ora, a difesa di Alex, voglio dirle che subito dopo la scomparsa di suo padre, mi disse che era sua intenzione vendere l’esercizio, usando i soldi per la sua iscrizione all’Alta Scuola e per dare una pensione alla madre. Anche Lev era d’accordo, senza alcun dubbio sollevato dall’idea di non dover prestare fede alla promessa un po’ azzardata che aveva fatto a tutti solo una quindicina di giorni prima.

Io ero al settimo cielo, iniziai a cercare possibili compratori e a valutare il prezzo complessivo dell’intera baracca. Certo, avremmo dovuto spuntare nell’accordo il permesso per continuare ad abitare nel palazzo, almeno per qualche tempo, ma non era un problema insormontabile. Calcolando tutto, avremmo potuto rimediare qualche centinaio di migliaio di lunar, una bella sommetta per ripartire e farci finalmente una nostra vita.

Oh, quanto l’ho amato Alex in quei giorni, anche più che durante il nostro incontro, perché vedevo nei suoi occhi una determinazione che mai avevo letto prima, una scintilla di maturità che attendevo da tempo e che mi faceva nuovamente sua. Di colpo, tutti i sacrifici fatti non mi erano più sembrati vani, sentivo che Alex era cresciuto e che anche io con lui ero diventata una donna migliore. Ora potevo essere una signora, la sua sposa. Ora potevo anche diventare una madre.

Tuttavia, di madre ce n’era già una: la sua. Le bastò una serata per distruggere tutta la mia vita di speranze. Io ero chiusa nella nostra camera da letto, ma sentivo le loro urla provenire da sotto, dal locale. La madre aveva voluto parlargli in mezzo ai tavoli, alle sedie e a tutto il lavoro che suo padre aveva fatto in quegli ultimi vent’anni. Quando Alex riaprì la porta e mi ricomparve davanti, non dissi una parola nè lasciai che lo facesse lui. Cancellai ogni mio appunto sulla vendita, il locale aveva vinto di nuovo.

Seguirono due anni, fino ad oggi. Beh, fino a ieri, è ovvio. Ripresi a fare i conti, a prendere le telefonate, a morire un po’ ogni giorno. No, non misi nessuna nuova lampada nelle stanze, mi sembrava inutile. E avevo ragione, perché con la morte del padre il nome del ristorante si guastò e i soldi cominciarono a scarseggiare davvero. Saltammo delle riparazioni e trascurammo un po’ tutto. Nel giro di qualche mese, il ristorante era ormai una “gloria passata”, un “posto che aveva visto giorni migliori”, un “luogo sciatto e malinconico, senz’altro da evitare visto anche il costo esagerato di una cena fin troppo convenzionale”, come dicevano alcune di quelle recensioni di giornalisti e clienti che Alex guardava con frequenza compulsiva e alle quali permetteva di guastare il proprio umore per giorni e giorni.

Ah, mi chiede di Lev. Certo, di Lev e di martedì scorso.

Col tempo, mano a mano che il fratello acquistava maggiore sicurezza nella gestione del ristorante, Lev si era fatto vedere sempre più di rado. La madre ormai non badava più alle sue brutte amicizie, evidentemente era troppo impegnata a tenere sotto controllo quella quasi nuora troppo ribelle, iniziando a pensare che non fosse un buon partito per il suo bravo Alex. Mi odiava? Forse. Del resto, avevo osato mettere in testa al suo bambino la folle idea di vendere il ristorante di famiglia!

Comunque, tornando a quel ragazzo, era ormai un anno che nessuno lo vedeva e quando martedì ricomparve alla porta del locale, capii benissimo l’atteggiamento sospettoso di Alex. Li lasciai andare nelle cucine, deserte vista l’ora, e sentii da subito le loro urla. Nell’aria c’era una tensione tale che perfino la madre non aveva osato entrare.

Quando poi ne uscì, Lev era... stravolto. Aveva un fisico più minuto rispetto ad Alex, ma con quei capelli sempre arruffati, la barba un po’ sfatta e quegli occhietti azzurri che ti perforavano la pelle le assicuro che incuteva più paura rispetto al fratello maggiore. Era il classico tipo che non vorresti mai incontrare in un vicolo la notte o se ti trovi da sola in un vagone della metropolitana. Mi passò accanto e anzi per poco non mi travolse. Sfiorandomi la spalla mi disse solo queste parole: «Il locale... che bel posticino che abbiamo messo su... e Alex ci tiene così tanto

Lo avrà capito, io quel posto lo odiavo con tutta me stessa. Ma mai, nemmeno in mille anni, sarei mai riuscita ad esprimere lo stesso astio che trapelava da quelle ultime due parole pronunciate da Lev. E lo sguardo... Dio mio... come se mi volesse dire che quella non era un’esclamazione fatta così, per caso. Mi aveva detto qualcosa di importante, qualcosa che mi ferì nel profondo.

La madre non la salutò nemmeno con un cenno e così quelle furono le ultime parole che gli sentii dire.

Ma gliel’ho detto, Lev aveva scatenato qualcosa dentro di me.

Corsi dentro le cucine, aspettandomi di trovare Alex in preda ad uno dei suoi soliti attacchi di ira o, peggio ancora, chiuso in quei silenzi di cui le dicevo prima. E invece eccolo lì,chino sui fornelli, intento a buttare un paio di gamberoni nell’acqua bollente.

«Devo ripassare questa ricetta. Dicono che il console generale sia ghiotto di crostacei e questi vengono direttamente dagli allevamenti vicino ad Armstrong. Il problema è capire quando sono cotti, l’istante esatto in cui vanno tolti dall’acqua perché non si induriscano troppo. Deve essere tutto perfetto per domani sera. Deve.»

Era avvolto dal vapore e vedevo a malapena il suo volto. Ma guardarlo negli occhi non mi serviva, perché una sorta di cappa mi calò davanti, del tutto all’improvviso.

La mia mano, poggiata su uno dei tavoli da lavoro, si strinse senza che nemmeno glielo ordinassi.

«Cosa è successo con tuo fratello, Alex?», gli chiesi.

«Cosa vi siete detti?», ripetei, visto che non si degnava di rispondermi. Stavo rompendo uno dei suoi silenzi dai quali fuggire, ne ero allo stesso tempo sorpresa e anche consapevole.

«Mio fratello è un idiota,» rispose Alex, senza smetterla di passare con lo sguardo dalla pentola ad un lettore nel quale senza dubbio era visualizzato uno dei suoi innumerevoli libri di cucina, mentre nella mano teneva una lunga forchetta, pronto a togliere i gamberoni dall’acqua.

Lì per lì non commentai. Oddio, non saprei nemmeno dirle con esattezza cosa feci. So solo che qualche istante di buio dopo, io mi trovavo di fronte ad Alex e il lettore con tutte le sue belle ricette era finito nella pentola assieme ai gamberoni. Così, semplicemente.

«Questo forse gli darà un po’ di sapore in più, non credi?», gli ringhiai contro. «Adesso che ho la tua attenzione, mi vuoi dire cosa cazzo voleva tuo fratello e per che cazzo di motivo si è fatto rivedere qui dopo un anno?» Ora nella mia testa c’era solo calore, nelle mie braccia solo fuoco, nella mia voce solo rabbia. Anni di rabbia.

Alex mi scavalcò e corse verso il fornello. Si rese però subito conto che il danno era irreparabile e poggiò le mani sui fornelli accanto alla pentola, sprofondando la testa nella sua stessa schiena. Se invece di una di quelle modernissime cucine a microonde avessimo avuto una della nostre antiquate cucine a induzione delle colonie si sarebbe provocato delle ustioni gravissime, ma l’impressione che avevo era che non se ne sarebbe neanche accorto. Si limitò a spegnere il fornello.

«Lui e i suoi amici idioti, loro che credono di cambiare il mondo. Figli di papà o spostati senza uno scopo nella vita, che non sanno cosa significhi...»

«Cosa significhi il lavoro, vero? Cosa significhi costruirsi una famiglia, una carriera, un futuro. Magari avere dei figli. Magari avere una vita. E’ questo che Lev non sa? E tu, lo sai?»

Alex si voltò di scatto. Leggevo più stupore che dolore nel suo viso, quasi che mi fossi messa a parlare in una lingua sconosciuta.

«Ma che vuoi dire, scusa?»

«Voglio dire che non me ne frega nulla di Lev, di quello che vi siete detti e neanche di te. Voglio dirti che mi fa male da morire trovarmi di fronte all’uomo che un giorno vorrei come marito, o che almeno fino a qualche tempo fa volevo che lo fosse, e che continua a trattarmi come una stupida, senza dirmi cosa succede. Voglio dirti che non sono una dipendente di questo schifo di posto, sono Claire, la tua donna! E che come tale ho il diritto di sapere cosa succede in questa famiglia disgraziata! Perchè se vuoi costruire qualcosa con me devi parlare con me!»

Lui si fece avanti di qualche passo. Provò ad accarezzarmi la spalla, come faceva sempre, come aveva fatto quei primi giorni su Caboto e come aveva fatto anche due anni prima quando avevamo avuto la nostra crisi. Mi scostai e fu la prima volta. Lui non fece nulla quando alzai le mani di fronte a me per allontanarlo e questo mi fece più male della sua reticenza.

«Claire, ti prego... Non ti ci mettere anche tu adesso. Lo sai quanto sono impegnato per la serata di domani...»

Socchiusi gli occhi, la cappa di buio si era fatta più pesante. Più accogliente. «Domani... Quando il signor console generale, membro del Consiglio Terrestre delle Colonie, verrà qui a riempire la sua bella panciona con i tuoi bei gamberetti, vero? E tu devi fare in modo che tutto sia perfetto per lui e per i suoi tirapiedi. Hai faticato così tanto a convincere la delegazione a venire da noi... hai leccato il culo a tutti i tuoi amici al Dipartimento Coloniale per ottenere questo risultato, a loro che almeno una posizione se la sono fatta...»

«No, non ti capisco. Il fatto che domani il console mangi qui da noi è un’occasione unica. Tutti i locali di un certo livello si contendono questo evento mondano. Pensa solo alle ricadute d’immagine. Potrebbe essere la rinascita del nostro ristorante, saremo pieni di giornalisti!»

Mano a mano che lui diceva quelle cose io mi ero accostata alla porta, parola dopo parola. Lo guardavo, sì. La rabbia si era fusa con la mia calma, diventando un sentimento nuovo e potente. «I locali di un certo livello... l’evento mondano... le ricadute d’immagine e i giornalisti. Ma ti senti quando parli?»

Alex scosse il capo. «Certo che sì. E’ una cosa troppo importante, come fai a non rendertene conto? Fa parte della nostra vita... è in gioco la nostra vita...»

Le mie mani si rilassarono, di colpo. Non erano più strette e rigide, solo ferme come quelle di un chirurgo. Mio padre era un chirurgo.

«La nostra vita, Alex? La nostra vita sono le orate della Terra? Lo zenzero di Phobos, l’unico che tuo padre usasse per le sue ricette, con quel saporino tutto suo che ti rimane sulle labbra anche quando hai finito di mangiare? Gli eventi, le serate private... oh, e poi i giornali di cucina, e le rassegne di settore... e ancora i clienti e le loro dissertazioni sul servizio, l’arredo, i piatti, i prezzi, l’ambiente che hanno trovato, i ricordi che gli hanno suscitato i colori e gli odori del posto... E tu ti sforzi, lavori, pensi a come renderlo più bello, più accogliente. Il miglior locale della città. Beh, ti svelo un segreto, amico mio: questa roba è tutta falsa. Non è roba vera! La gente viene qui per mangiare e per credersi diversa da quella che è, perché magari a casa la moglie cucina da schifo o il marito è troppo preso dal lavoro per avere tempo da perdere con le padelle! O ancora perchè vogliono qualcosa di speciale, perché vogliono giocare ad essere quelli che non sono! Tu gestisci un posto fasullo per gente fasulla, che brinda con lo champagne mentre cade a pezzi, proprio come te...e me... e la nostra relazione... e io...»

Come reagì Alex? Rimase lì dov’era. Il grembiule, ridicolo, legato attorno alla vita e il forchettone all’apparenza troppo pesante per la sua mano rimaneva adagiato lungo il fianco, penzolante dalle sue dita. Dio, come mi sembrava idiota in quel momento!

«Ma che dici, Claire? La nostra relazione?».

Ero arrivata alla porta. Mi ci schiacciai contro, sollevando la testa.

«Ieri ho ricevuto un messaggio da Caboto. Papà sta male.»

Oh, l’ho sorpresa? Davvero, non glielo avevo detto di mio padre? No, non glielo avevo detto. Beh, lasci un po’ di drammaticità anche a me, la prego. Un piccolo sfizio, niente di più. E comunque stia tranquillo, la sua aria è meno stupida di quella che assunse la faccia di Alex.

«Non... non sapevo nulla...» farfugliò, «Di certo vorrai andare a trovarlo. Beh, ci possiamo organizzare... magari tra un paio di settimane, tempo di avvertire mamma e accordarsi con Sasha per i turni di cucina e dei camerieri...»

Le giuro che sarei scoppiata a ridergli in faccia, se avessi potuto farlo. Non potevo.

«Tra un paio di settimane probabilmente papà sarà morto. Lui che ha fatto di tutto per farmi studiare, per garantirmi una posizione. Lui che non ho visto per cinque anni. Cinque anni... Ho perso fin troppo tempo con te e con questo posto, gli ho permesso di distruggere una parte troppo importante di me. Goditelo, è tutto tuo. Il tuo locale.»

Aprii la porta, e me ne andai. Sembra facile così, usando solo le parole. Ma a farlo, a fare quel passo, mi sentii come se stessi uscendo da un portellone senza tuta spaziale e mi mettessi a camminare tranquillamente sulla superficie lunare.

Incontrai la madre, fuori dalla cucina. Doveva aver sentito tutto. Provò a dirmi qualcosa, aprì le labbra, ma io fui più rapida.

Ero vicina alla mia scrivania, quindi mi fu semplice afferrare l’oloproiettore del computer. Le cifre danzarono nell’aria per qualche istante dopo che lo ebbi strappato dal tavolo, poi svanirono. Lo gettai a terra, ai piedi della vecchia, mandandolo in mille pezzi. Sorrisi.

«Bel posto. Ma un po’ buio. E vuoto. E spento. Sì, hanno proprio ragione quando dicono che ha visto giorni migliori. Non credo che ci tornerò mai più.»

Lei non mi disse nulla e anche se l’avesse fatto, non l’avrei ascoltata. Salii le scale, sentendomi più leggera ad ogni gradino. No, non rividi più Alex quel giorno, nemmeno quando un’ora dopo ridiscesi con un paio di valigie nelle quali avevo buttato dentro alla bell’e meglio parte delle mie cose, quel poco di indispensabile che avevo raccolto in quei cinque anni. Forse lui si era chiuso in cucina, non so.

La madre c’era, di nuovo alta e con l’aria arcigna. Doveva aver spazzato via i resti dell’oloproiettore, nel tenere pulita la sua casa e il locale era molto efficiente. Ancora una volta non mi disse niente, se ne stava ferma accanto alla porta probabilmente pensando di assumere un atteggiamento accusatorio nei miei confronti, cercando di farmi provare vergogna per quello che stavo facendo.

Ma il sollievo era troppo grande, la gioia troppo profonda. Due passi, molto più rapidi di quelli con cui ero uscita dalla cucina, e mi ritrovai di nuovo abbagliata dai lampioni della strada, dai suoi rumori, dall’incessante andirivieni delle automobili, con i polmoni che si dilatavano di nuovo nel sentire quell’aria che non era proprio buona come quella delle colonie ma che in fondo poteva anche andare, via.

Mi infilai di corsa nel primo taxi che mi passò davanti, senza nemmeno chiedermi se era occupato o meno. Mi sembrava all’improvviso tutto così perfetto che nulla poteva andare storto. Naturalmente il taxi era libero e in pochi minuti mi ritrovai in uno degli alberghi migliori della città, con gli ultimi lunar del mio conto bruciati, le mie valigie buttate su di un gigantesco letto matrimoniale, una bottiglia di vino frizzante della colonia di Arcadia come benvenuto e un olopropiettore collegato ai terminal dello spazioporto, alla ricerca della prima navetta per il punto L4. Per Caboto, casa mia.

La data riportata per la partenza era quella di oggi, il che al momento non mi sembrò un gran problema visto che un paio di giorni da dedicare solo a me stessa mi avrebbero senz’altro giovato. Purtroppo non avevo fatto i conti con Alex e con il suo dannatissimo locale.

L’albergo non era poi così lontano dal ristorante ed è per questo che ieri sera, anche se me ne stavo in camera a gustarmi la mia cenetta sul carrello del room service, ho sentito chiaramente il rumore dell’esplosione.

Poi le sirene, le urla sul piano fuori dalla porta, le macchine che si allontanano impazzite dal punto dell’esplosione come stormi di uccelli che si alzano in volo all’arrivo di un predatore. Sopra la scena, un sipario di fumo, che qui da voi si solleva in un modo tanto strano proprio come quello delle sigarette. E i notiziari, gli speciali, le dichiarazioni ufficiali. Tutto, ho visto tutto. Dalla mia finestra e sull’oloproiettore. Ma per me era come un film già visto, perché sapevo come era andata.

Oh, sì, un’idea ce l’ho, commissario. Quale?

Vede, so già che tra le macerie avete trovato sia i resti di Alex che quelli di Lev. La madre no, lui l’aveva fatta andare via con una scusa da certi parenti, ad Aldrin o che so io. Doveva farlo, mezzo caseggiato è venuto giù con l’esplosione.

Lui lo ha fatto consapevolmente. Non fatevi ingannare dal fatto che l’esplosione è avvenuta in un luogo lontano dal tavolo del console e che quel grosso panzone si è salvato. Nell’attentato sono morte altre dodici persone, alcune delle quali passavano per caso nelle vie laterali accanto all’edificio. Se Alex avesse voluto salvare il console non avrebbe richiamato indietro il fratello. Perché ne sono certa, lo ha richiamato lui. Lev non sarebbe mai tornato alla carica di sua volontà perché era così stupidamente orgoglioso da non riprovarci nemmeno.

Questa è l’idea che mi sono fatta: Alex lo ha richiamato, ma del console non gliene importava nulla, come non gliene importava niente degli amici secessionisti di Lev. Si figuri cosa gliene fregava a lui della Terra, della Dichiarazione di Marte, dell’idea di alcuni coloni della Luna di seguire quell’esempio... no, a lui importava solo del locale e forse all’ultimo Lev lo ha capito, hanno litigato e la bomba è esplosa accidentalmente, come sosteneva il notiziario di stamattina.

Ecco, il locale. Si ricorda quando all’inizio le avevo detto che ancora non sapevo se io ero o meno la causa scatenante di questo disastro? Beh, adesso, riparlandone con lei, l’ho capito. I vostri esecutori materiali sono morti nell’esplosione, ma la colpevole morale ce l’ha davanti agli occhi. Mi sono illusa, per tutti questi anni, di non essere io stessa la causa di come andava la mia vita, ed è stata una follia più forte della stessa ossessione di Alex per il suo locale. Una follia che ha provocato l’attentato non meno dell’esplosivo contenuto nella bomba o dell’ideologia dei separatisti. Noi non possiamo essere altro che cause continue degli eventi, commissario, per quanto terrificante questo ci possa sembrare.

Per me lo è, perché, vede, io respiro, ma ad ogni respiro devo convivere con la consapevolezza che l’aria che entra nei miei polmoni lo fa a discapito di dodici persone che non respirano più. Per colpa mia e delle mie parole. Perché andandomene e lasciando Alex in balia di quell’orribile posto ho distrutto la sua vita, la sovrastruttura che lui si era fatto. Gliel’ho letto in faccia mentre gli urlavo contro in cucina, lo avevo riportato di colpo ai giorni di Caboto, quando lui era libero come me, perchè anch’io ero tornata quella di prima. Solo che io potevo tornare ad essere chi ero, mentre lui era prigioniero della sua stessa follia, lui era condannato a rimanere in un posto che io non ero riuscita a distruggere due anni prima.

Di conseguenza, io potevo ancora permettermi il lusso di essere consapevole, lui no.

Questa differenza tra le nostre due situazioni gli aveva impedito di fermarmi, questo lo aveva immobilizzato in quella ragnatela fatta di ombre, riflessi, velluti, legni intarsiati, odori di cucina... e tutto il resto.

Cosa gli restava? L’odio. Lo stesso odio che provavo io, reso ancora più doloroso dall’impossibilità di fuggire alla trappola dorata in cui aveva deciso di vivere. Il non poter lasciare quello che per anni aveva ritenuto essere il migliore locale della città, dovendo invece servirlo e accudirlo fino alla fine dei suoi giorni, come suo padre.

E allora, in tutta sincerità, la sorprende ancora che Alex abbia voluto farlo saltare in aria, console o non console? Ci metta tutta la politica che crede in questa ricetta, ma l’essenza del piatto è questa: è stata una vendetta, pura e semplice. Una vendetta contro quel locale, quello che gli aveva fatto perdere, ma anche contro la sua bella famigliola e tutte le sue ossessioni. Contro la madre, contro quello stronzo del fratello e soprattutto contro il responsabile di tutto il disastro: suo padre, che aveva rovinato tutti con la mania di quel bel locale. Perché se proprio lo vuole sapere, il primo colpevole della strage è proprio lui, il vecchio.

Dicono che le colpe dei padri non devono ricardere sui figli. Stronzate. Io ho imparato che le colpe dei padri sono scritte nella carne dei figli. Scorrono nelle loro vene, influiscono sulle loro scelte, sono il peso che si dovranno portare appresso fino alla fine dei loro giorni. Sono il prezzo che devono pagare per essere stati messi al mondo. Alcuni ci riescono, pagano il loro debito e vivono felici. Altri falliscono, rovinandosi. E nel frattempo, tutti commettono altre colpe che entreranno nel sangue dei loro stessi figli, e così via e così via.

Davvero, può tenermi qui anche una settimana, ma non ho altro da dire. Solo, la prego, mi permetta di prendere la prossima navetta per L4. Parte dopodomani e non so se troverò mio padre ancora vivo quando arriverò su Caboto. Ecco, e magari prima mi faccio un'ultima sigaretta.

Ma no, lasciamo stare. Non devo riprendere a fumare, è vero. Magari per un po’ lascio stare anche gli alcolici. E non perché me lo dice Alex, ma perché lo voglio io.

Perché è la mia vita, di nuovo la mia vita, e devo custodirla anche per quei poveri disgraziati che ho fatto uccidere. Glielo devo.

Ora posso andarmene, commissario?




*****

Nota dell’Autore: E dopo questo finale, lasciamo Claire al suo ritorno a Caboto e a quel che resta della sua vita. Anche questo racconto, come vi ho segnalato nell’introduzione, è ambientato nel mio universo persistente di Radiant, anche se in questo caso sulla Luna.

NSP è la città più grande del nostro satellite naturale, un luogo in cui si intrecciano migliaia di vite, ricco di opportunità ma anche di trappole ed insidie. Sulla Luna la sicurezza personale è ormai un ricordo, mentre gruppi di attivisti rimangono sedotti dall’esempio dei ribelli degli insediamenti marziani e provano a forzare la mano al governo coloniale, spingendolo con ogni mezzo verso l’indipendenza da Madre Terra. Un luogo in cui al gente tira avanti come può, con una guerra sempre più cruenta e spietata ormai irrimediabilmente entrata a far parte delle loro vite.

Vi riporterò sulla Luna e tra le sue ombre, ma per adesso spero più semplicemente che questo nuovo racconto vi sia piaciuto. Alla prossima storia!

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantascienza / Vai alla pagina dell'autore: _Sinclair_