Aurore’s
bridge
Quando
i bambini sono piccoli si
raccontano loro favole e fiabe per farli addormentare, per far si che
si
crogiolino nel loro sonno con un sorriso sulle labbra e le fossette
sulle
guance; ancora piccoli ed innocenti.
È
risaputo, inoltre, che
cresciamo tutti con la nostra storia speciale, quella che abbiamo fatto
leggere
ai nostri genitori così tante volte
che ormai l’avevamo imparata a memoria, eppure gliela
facevamo leggere di
nuovo.
Biancaneve,
Cenerentola… chi non
ama i classici?
Eppure
c’è chi, nel buio della
sera, racconta ben altro alla propria bambina.
Una
bambina piccola, lei non è
particolare, ma la storia che la sorella maggiore le racconta ogni sera
lo è.
Parla
di una bambina, proprio
come lei.
Bassa,
tanto bassa, con grandi
occhi verdi e lunghissimi capelli neri.
La
storia racconta di questa
bambina… Aurore.
La
mamma l’aveva chiamata così:
Aurore. Perché era bella come l’aurora boreale.
Bastasse un nome a far di una
bambina la perfezione!
Lei
era gentile, lei era docile e
obbediente. Tutti la prendevano ad esempio, era la gioia della famiglia.
I
genitori di Aurore sono sempre
state persone troppo impegnate con gli affari per portare la figlia a
scuola.
“E’
qui vicino tanto, basta attraversare
il ponte, pochi passi e sei arrivata!” diceva la mamma.
E
Aurore li contava, quei passi.
Uno,
due, tre, quattro… dieci, undici, dodici…
ventuno, ventidue… trentasei…
A
quarantadue ancora non erano
finiti.
-
devi essere paziente – si rimproverava
– arriverai a scuola, vedrai!- che i passi di mamma e
papà fossero più lunghi
dei suoi? Forse addirittura tre dei suoi passi sarebbero potuti essere
uno dei
loro!
E
al centesimo passo era a
scuola.
Man
mano che cresceva, Aurore cominciava
a giocare con quei passi.
Un
salto e un passo, i vari punti
di riferimento ad un tot di passi…
E
poi il ponte.
Una
cosa strana e buffa che
Aurore notò ben presto fu che al cinquantesimo passo era
proprio al centro
spaccato del ponte, del suo intero percorso.
Più
volte la bambina si era
fermata, all’uscita di scuola, a guardare giù dal
ponte, così, per schiribizzo.
Le
era sempre piaciuto quel
ponte: era ad un buon venti metri dal suolo, e sotto le macchine
sfrecciavano.
Quante macchine!
Originariamente
era probabilmente
un bel ponte di legno, fiero, spesso e capace di resistere ad ogni cosa
– ecco come
se lo immaginava Aurore.
Ma
con il passare degli anni era
evidentemente invecchiato, diventando un Signor Ponte, uno di quelli
con il
legno marcio e muffito, capace di sostenere solo le persone e tutto
cigolante.
Il
comune l’avrebbe probabilmente
buttato giù a momenti.
Quando
Aurore aveva solo sette
anni il ponte era capace di traballare, quando il vento sferzava da
nord.
In
quei momenti la bambina rideva
a crepapelle, le piaceva quella giostra.
La
sua giostra, il suo Signor
Ponte.
Con
il passare del tempo, Aurore
crebbe sempre di più. I suoi genitori si fecero sempre
più assenti, sempre più
disinteressati.
Non
era più la bambina dalle
rosee guance, tutta fossette e sorrisini adorabili.
Ormai
aveva quasi quattordici
anni.
Per
uno strano scherzo del
destino sentì di appartenere più al freddo del
Signor Ponte che a casa sua, al
caldo.
Le
piaceva l’ululare del vento,
le folate taglienti e gelate sul viso, quando si sporgeva per avere
sempre più
libertà, per sentirsi sempre più parte di quel
posto.
Di
tanto in tanto prendeva una
coperta, la stendeva sul praticello accanto al ponte e rimaneva
lì a fare i
compiti, a fare la merenda.
Aurore
non aveva amici, era
troppo diversa.
Lei
preferiva stare lì, a
chiacchierare con le intemperie.
Una
volta era rimasta fuori con
la tosse, a prendere la neve sul ponte.
Nessuno
l’aveva sgridata, perché
non importava a nessuno, tanto meno a lei.
Ma
quel muffito ponte di legno
aveva un richiamo speciale, per lei.
Un
richiamo che raggiungeva
debolmente tutti i passanti, che rimanevano solo con un interrogatorio
nei
recessi della mente, troppo occupati a pensare ad altro per pensare al
ponte
che stavano calpestando.
E
quel richiamo spingeva Aurore
sempre più in là, sempre più oltre il
vecchio parapetto.
La
voce del vento le sussurrava
alle orecchie le parole del ponte.
Buttati,
Aurore, buttati.
La
ragazza di volta in volta si
sentiva sempre più esaltata.
Le
parole crebbero, si
insinuarono dentro le orecchie e ben presto si mischiarono al corso dei
pensieri nella sua mente.
Non
ci volle molto prima che i
pensieri di Aurore cominciassero a ruotare unicamente attorno al
richiamo del
ponte.
All’idea
di cadere e prendere il
volto, di assaporare la rapida discesa, di godersi il suo urlo di gioia
prima
di…
…di
cosa? Cosa le sarebbe potuto
succedere? A questo Aurore non aveva mai pensato.
Continua
a chiedersi, incuriosita,
come sarebbe stato buttarsi di sotto.
In
silenzio o urlando non aveva
importanza, l’importante era farlo.
Un
giorno invernale, quel lontano
1993, Aurore aveva sedici anni.
La
ragazza era appoggiata al parapetto
marcio del ponte, il caro vecchio Signor Ponte.
E
la voce la chiamò di nuovo, per
l’ultima volta.
Buttati,
Aurore, buttati.
E
per la prima volta in vita sua,
Aurore ebbe le vertigini guardando giù dal quel suo storico
amico.
E
cadde.
Aurore
si lasciò librare in
avanti e chiuse gli occhi.
Si
era spinta più in là, aveva
chiesto la sua libertà,
quella che
tanto agognava, quella che significava andare oltre: incontro al vento
che
tanto la faceva vivere.
E
per la prima volta in tutta la
sua vita, Aurore si esaudì.
-
Bloody’s corner-
Scrivere
quest’FF mi ha
particolarmente elettrizzata, non so se avete presente.. quando vi
scorrono le
dita sulla tastiera, quasi da sole, per l’eccitazione delle
parole che arrivano
da sole.
MissBloodyFangs