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Autore: Telyn    31/05/2013    0 recensioni
Bianco. Cos’è il bianco?
Bianco per sua madre era pace, purezza. Innocenza.
Per questo aveva chiamato così sua figlia: perché sperava che portasse un po’ di tranquillità in quella famiglia così ferita.
Per Bianca quel colore era dolore, giogo di un destino imposto.
Sentì una fitta in mezzo alle costole. Socchiuse gli occhi, mordendosi il labbro e respirando forte. Poi si allontanò dalla finestra, con un’amarezza che traspariva dai gesti. Bianca non era più una persona. Non era.

questa storia si è classificata quarta al contest "Lasciati ispirare... da ciò che scegli" indetto da Fight_4 sul forum. Il giudizio lo trovate all'interno :)
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Raiting: giallo tendente all’arancio per gli ultimi pensieri di Andrea

Genere: Introspettivo, Malinconico, Angst. Yeah :D

Canzone: Rocket Man

Numero: 13 (l'immagine prompt la trovate qui)


Not just a tale



Bianco. Cos’è il bianco?

Bianco per sua madre era pace, purezza. Innocenza.

Per questo aveva chiamato così sua figlia: perché sperava che portasse un po’ di tranquillità in quella famiglia così ferita.

Per Bianca quel colore era dolore, giogo di un destino imposto.

Sentì una fitta in mezzo alle costole. Socchiuse gli occhi, mordendosi il labbro e respirando forte.

Poi si allontanò dalla finestra, con un’amarezza che traspariva dai gesti. Bianca non era più una persona. Non era.


Bianca, in realtà, non era mai esistita, pensò lui.

Andrea sospirò. Quella storia lo stava tormentando. Si era svegliato così, il giorno prima. Aveva scarabocchiato quelle parole su un tovagliolo senza quasi pensarci e ora, per quanto vi tornasse sopra con lo sguardo, non riusciva a pensare a neanche un modo per continuarla, né vi trovava una sola frase da elaborare.

Si passò una mano sugli occhi, stanchi e cerchiati. L’unica cosa che gli veniva in mente era il volto emaciato di quella ragazza: vedeva i suoi occhi - e il suo sguardo, naturalmente - come se fossero stati davanti a lui.

Lo guardava nello stesso modo in cui si guarda un paladino impotente.

Si alzò, stanco, e sbadigliando iniziò a riempire la caffettiera con l’acqua e la polvere scura. Il modo in cui i suoi passi risuonavano sulle mattonelle e sulle pareti bianche aveva un che di inquietante, ma Andrea era abituato a fingere di non farci caso. Fingeva anche con se stesso, quando qualche parola un po’ troppo cruda si perdeva nei meandri della sua mente e arrivava a lui.

Sbadigliò, mentre spegneva il fuoco del fornello.

Dal salotto suonava ancora quel disco che aveva messo qualche ora prima. Honky Chateau, Elton John. Stava ascoltando un disco in vinile.

Fece una smorfia. Faceva così tanto cinquantenne nostalgico da far storcere il naso: scrittore mezzo fallito, solo, una storia che non era capace di scrivere e un vecchio vinile. Che pena, pensò con una smorfia.

Il caffè caldo, amaro, quasi gli bruciò la lingua, mentre l’odore forte lo portava fuori da quel torpore bianco. Bianco. Come la storia.

Ridacchiò, mentre scuoteva la testa: stava decisamente diventando matto. Forse, gli disse una voce dentro di sé, stava diventando un po’ troppo solo: se ci fosse stata Marta di sicuro non sarebbe stato così triste e attaccato a quelle poche righe.

– Niente Marta, mi spiace! Marta se n’è andata, perché chiunque sarebbe fuggito da un matto che pensa di poter scrivere per sempre! – disse ad alta voce nel silenzio della cucina.

Sentendo il rimbombo della sua voce, alzò le sopracciglia e spalancò gli occhi.

“Non posso davvero essere arrivato ad urlare alla mia coscienza!”

Davanti ai suoi occhi passò l’ombra di quella ragazza. Sospirò, stanco. Era stanco, stanco di quella storia. Stanco di essere solo un uomo senza più ambizioni né qualcuno a fianco.

Sbadigliò di nuovo, prima di fingere un’altra volta che la caffeina facesse effetto.

Era arrivata l’ora di mettersi al lavoro.

Riprese in mano quel tovagliolo quasi controvoglia, lo spianò sul tavolo e lo rilesse per l’ennesima volta.

Per questo aveva chiamato così sua figlia: perché sperava che portasse un po’ di tranquillità in quella famiglia così ferita.

Una famiglia ferita. Poteva pensare a come si era ferita quella famiglia: anche senza finire nella storia, avere uno sfondo chiaro su cui stendere le proprie idee era sempre ottimo.

E poi avrebbe descritto quella ragazza. Gli occhi scuri, invisibili e fissi nella sua mente, parvero attraversati da un lampo di inquietudine.

Andrea si chiese, un’altra volta, se stesse solo immaginando quello sguardo.

La solitudine forse mi fa più male di quello che sembra”

Si mise al lavoro, immergendosi in quel mondo strano dove realtà e invenzione erano mischiate, appuntando con una penna i dettagli che sprizzavano dalla sua mente.

La prima cosa che gli venne in mente era che Bianca era alta. Non oggettivamente alta: quello gli era venuto in mente dopo, quando aveva notato che la sua testa, nell’immagine che ne aveva, superava fin dalle spalle la maniglia della finestra.

Aveva pensato che la ragazza fosse alta quando aveva visto il modo in cui teneva la testa dritta, quando aveva visto lo sguardo perforante, addolorato e ora un po’ malinconico, capace di attraversare i suoi pensieri e la realtà. Un’altra bozza sul foglio.

La seconda cosa a catturare i suoi pensieri era la pelle. Cinerea, come quella che non viene mai toccata dalla luce. Quasi trasparente.

E poi lo sguardo. Aveva due occhi scuri, incastonati nel viso. Erano grezzi, quasi sbozzati nell’ossidiana o tracciati velocemente col carboncino. Carichi di una rabbia che a tratti non esisteva più, o forse di semplice dolore.

Non la capiva, e se ne rendeva conto. Percepiva solo il suo sguardo, e l’inquietudine che gli metteva addosso.
Si riscosse, poi davanti a quelle righe sgranò gli occhi. Com’era possibile, si chiese, che un solo personaggio lo catturasse tanto?


Altre righe, sempre troppo poche, erano comparse qualche ora dopo su un altro tovagliolo, come ad imitare le prime.

Andrea picchiettò la superficie del tavolo con la punta della penna. Non aveva trascritto al computer neanche una di quelle frasi, mentre ora da dietro il monitor lo osservavano ben ottocento parole spese a raccontare quella storia dal punto di vista puramente oggettivo della trama. Niente di tanto originale, in realtà: una ragazza senza storia ossessionata da un giovane uomo con gli occhi scuri.

Il suono di un’ambulanza che passava attraverso il quartiere lo sorprese nel suo torpore. Era quasi notte, ormai, se così si potevano definire le dieci di sera. Sicuramente, qualche anno prima non le avrebbe chiamate così, pensò con un sorriso un po’ malinconico.

Riguardò lo schermo del computer e il tovagliolo. Lo sguardo di Bianca, quel personaggio che ormai sentiva suo, si era addolcito, dopo ore di lavoro. La vedeva bene, mentre iniziava ad ambientarsi nella sua mente. Ora si affacciava ad una finestra, tenendo i gomiti sul davanzale, chinata verso l’esterno e con la testa girata in modo da guardarlo negli occhi. Sorrideva, quasi, ma il dolore non se ne era affatto andato da quegli occhi fatti di carboncino e idee.

Anche Andrea sorrise: seppe, in quell’esatto istante, che era arrivato il momento per Bianca di continuare a raccontargli la sua storia. Sempre che non fosse lui ad inventarsela; ma questa, ormai, cominciava ad essere solo un’idea malsana, l’ombra di una sciocchezza.


Bianca era fragile, così fragile che avrebbe, per tutta la vita, detestato mostrare la sua fragilità.

Era solo una ragazza: in un certo senso, una farfalla di carta straccia.

Era nata in un paesino isolato di cui il nome, per i cittadini, non aveva importanza pari al tenere costantemente un rosario tra le mani.

A Bianca piaceva sorridere, anche nel sole cocente delle ore pomeridiane, dove tutto appariva rosato agli occhi sotto le fronti accaldate.

A Bianca piacevano quelle ore. C’era il sole, l’odore della polvere, e c’erano gli sguardi duri delle donne anziane. Quella era la cosa che preferiva fare: osservare gli sguardi degli altri.

Nessuno manteneva sempre lo stesso sguardo, ma secondo Bianca c’era uno sguardo, in ogni persona, che la identificava meglio di ogni altro.

Lo sguardo di quelle donne, duro come il cuoio e con l’odore del tabacco dei mariti, era uno sguardo che la affascinava. Quello sguardo, e quelle mani, dicevano che c’era il lavoro davanti ad ogni rimpianto, un figlio davanti ad ogni giustizia, una scelta per ogni errore.

Era una cosa affascinante, per Bianca, vedere la vita di ognuna di quelle anime scolpirsi ed incidersi in un paio di occhi. Anche se in quegli sguardi fremeva la disapprovazione, anche se vi ribolliva la rabbia per quella curiosità così vivida da risultare meschina, Bianca era attratta dagli sguardi della gente come una farfalla dal polline.

E l’avrebbe dovuto sapere, ma nessuno gliel’avrebbe detto.

Bianca non conosceva i lupi, ma ne aveva inconsciamente visto l’ombra nello sguardo di Enrico.

Enrico era l’orfano della casa ai margini del paese. Si diceva che suo padre fosse morto in guerra, si diceva che sua madre fosse stata una prostituta, si diceva che fosse nato in mezzo alla polvere. Quello che tutti sapevano per certo era che i suoi lupi mordevano forte, e avevano lo stesso sguardo ferino e maligno del padrone.

A Bianca lo sguardo di Enrico non era mai piaciuto: era troppo torbido, troppo confuso per essere capito, pericoloso come uno stagno di acqua limacciosa in cui smettere di respirare poteva semplicemente succedere. Non le piaceva la cattiveria, non le piaceva la facilità con cui le si mozzava il fiato in gola quando i loro sguardi si incrociavano.

Quella notte, Bianca si era fermata a fissare i lupi. E i lupi avevano guardato lei, frustando l’aria con le code, facendo schioccare fameliche le fauci.

Poi, quegli occhi. E il suo sogghigno.

Quello sguardo. Bianca si era resa conto solo dopo, quando il sangue aveva cominciato a scorrere caldo sulla pelle e il dolore a piagarle la carne, che il suo respiro era annegato nello sguardo torbido.

Quando, un anno dopo la guarigione delle ferite, Bianca tornò a farsi vedere per le strade, nessuno ebbe il coraggio di dirle che i suoi occhi erano diventati gli stessi di Enrico.


Andre appoggiò di scatto la schiena alla sedia, come se avesse dovuto assorbire il contraccolpo di una frase scritta troppo forte.

Guardò l’orologio nello screensaver del computer, inutilizzato da ore: segnava la mezzanotte passata. Riportò lo sguardo sulle righe che aveva scritto, questa volta sullo stesso tovagliolo in cui aveva cominciato a scarabocchiare quasi due giorni prima, e spalancò gli occhi. Era da un tempo considerevole che non scriveva così tante righe di fila.

E credo che passerà molto tempo prima che un racconto mi convinca di nuovo che non sono l'uomo inutile che mi crede Marta **” pensò, con uno sbuffo, alzando le sopracciglia.

Si alzò, prese un accendino e un pacchetto di sigarette dal cassetto della credenza. Poi uscì fuori, in balcone, aprì il pacchetto e accese una delle sigarette. Vecchia abitudine, quella di non fumare dentro; probabilmente, un’altra vedendo quell’abitudine avrebbe pensato ad un uomo serio e responsabile. “Oh, no!” Pensò lui. “Marta ha ragione: io sono proprio l'uomo razzo di quella canzone, un uomo razzo che se ne sta a fondere le sue uniche speranze di vita lontano da tutto e da tutti.***”

– Probabilmente lei ora sta pure meglio – disse a mezza voce, soffiando una boccata.

Il fumo, quasi perlaceo contro il cielo indaco, si sciolse subito nell’aria, insieme alle sue parole.

– Me la vedo come se fosse davanti a me. Eccome se la vedo: in un piano bar, uno di quei pub dove l’unica donna mai entrata è lei, seduta davanti ad un pianoforte sgangherato con più anni di suo nonno che lei suona perché il suo è jazz, non importa uno strumento nuovo perché ogni cosa stonata è una giusta da un’altra parte, o come diavolo si diceva...

Aveva abbassato la voce e la testa, nel dirlo, lo sguardo nella strada deserta sotto di lui.

Scosse la cenere e sfiorò la sigaretta con le labbra. Inspirò, sentendo la nicotina che gli grattava la gola, e poi buttò fuori il fantasma di fumo. “Stronzate sue”

Schiacciò il mozzicone con lo zoccolo - altro tratto tipico da cinquantenne standard -: gli era passata la voglia di fumare.

E a Marta è passata la voglia di stare con te.

Stava tornando dentro, e per un attimo gli mancò il respiro, poi riprese regolare. “Va tutto bene”, pensò. “tutto bene. È così che è andata, non serve piangere: è semplicemente andata così”

Dalla sua mente il viso di Bianca scomparve, per essere sostituito da uno che aveva visto per molti anni.

I capelli castano chiaro corti quanto un caschetto, mossi da un’unica direttrice nell’incavo destro fra collo e clavicola, e il ciuffo sulla fronte. Gli occhi nocciola, grandi, che di mattina erano sempre impastati di sonno; la pelle chiara sporcata da qualche lentiggine sul naso.


“Andrea, stanotte ho dormito malissimo... Cos’hai fatto, hai tenuto di nuovo la luce accesa tutta la notte?”

“Non è vero, giuro che sono andato a letto subito dopo di te!”

“Bugiardo, c’era la luce accesa almeno fino a mezzanotte... Ehi, non mi toccare i capelli!”

“Ma cosa credi, io sto inculcando un po’ di ingegno a questa testolina!”

“Ma lasciami, che mi stai solo spettinando! E poi cosa credi, solo perché ho dodici anni per te sono stupida?”


Andrea si appoggiò al muro, mentre ansimava forte.

Gli era costato, crescerla. Gli era costato crescere una bambina sapendo che la madre, sua sorella, non sarebbe mai uscita da quella macchina in fiamme. Gli era costato rispondere alle sue domande sempre più precise, sempre più acute; un altro avrebbe detto “la bambina è troppo precoce”, ma Andrea non aveva voglia di perdersi in chiacchiere.

E gli era costato anche quello, vedere le lacrime, vedere il dolore squarciarle il petto. Si era rassicurato, in un certo senso, quando l’aveva vista sedere al pianoforte del bar sotto casa insieme ad un vecchio maestro. “Un po’ ti aiuta, quando ti senti solo” diceva quello a mo’ di spiegazione che non sarebbe servita.

Le lacrime si erano raggrumate fra i tasti, a formare perle di melodie che conosceva soltanto Marta. Quelle lacrime che, un giorno all’improvviso, avevano bruciato. Doveva essere stato così, senz’altro: le perle si erano infiammate, il fuoco era divampato, i tasti sollevati dal calore che mostravano quelle brutture di legno, stoffa e metallo dietro il lucido, e Marta - spaventata, ovvio - si era alzata, allontanata, corsa via. Doveva essere andata così, certo, perché lei scappasse di casa senza dire niente e facesse poi comparire il suo nome sui giornali con le foto scattate nei piano bar.

Marta, nella sua mente, tornò gradatamente Bianca. Era impassibile, ora. Diversa da come l’aveva lasciata: sembrava più solida, più consistente nella sua vita fatta di pensieri. Cresciuta. Come era cresciuta anche Marta.

La visuale dietro i suoi occhi aperti cambiò, e Andrea la riconobbe subito: era il pianoforte del baretto, quello su cui lei aveva imparato. I tasti presero fuoco in modo diverso dalla sua spiegazione: erano gioiosi di bruciare, felici di ardere sotto le dita di qualcuno.

Marta aveva bruciato: non poteva spalancare le ali come tutti, non se sua madre era bruciata sulla terra. E anche lei era bruciata, con ogni intenzione ed amore nel farlo, ma senza dirglielo.

Era la fissa di Marta, quella: “Non si deve salutare qualcuno quando si va via” diceva, seria, “perché ora facciamo finta, ma un giorno moriremo e ce ne andremo veramente, senza salutare proprio nessuno; se vogliamo evitare di offendere qualcuno conviene abituarci già da subito a non salutare”.

Se n’era andata e basta, perché in un modo o nell’altro sarebbe cresciuta e l’avrebbe lasciato. Aveva scelto solo il modo più doloroso per farlo.

Si sedette, strizzando le palpebre. La cosa peggiore era sapere che nessuno si sarebbe più seduto al suo fianco in un locale, che nessuno oltre al suo amministratore di condominio l’avrebbe più chiamato sul cellulare. Avrebbe ricevuto solo le rendite dei vecchi libri su un conto corrente, appuntamento regolare come una pensione statale. Quando quella si sarebbe esaurita lui sarebbe rimasto solo il fantasma di una casa e, forse, un ricordo nella mente di una donna ormai adulta.

Era rimasto solo.

Andrea ricacciò il grumo di lacrime in gola, asciugando con le dita ruvide quelle sfuggite dalle palpebre.

“Caffè, mi ci vuole un caffè” pensò alzandosi di scatto. Pulì la caffettiera e il filtro, riempì il colino con la polvere e serrò le due parti prima di posarle sul fornello.

Si appoggiò nuovamente al bancone.  

Aveva sbagliato, chiudendosi così tanto in se stesso. Non avrebbe dovuto far dipendere la propria felicità da una persona sempre pronta ad andarsene****. E non avrebbe dovuto restare solo nel suo dolore. Non vedeva più neanche il barista, ormai: non sapeva perché, un giorno era sceso e aveva intravisto dalla vetrina una ragazza al posto del vecchio omaccione. Si era rifiutato di entrare.

Guardò il computer e i tovaglioli sul tavolo.

Forse la sua vita non aveva più un senso. Forse non ce l’aveva più, però... Però aveva ancora quella storia da raccontare. Dopo sarebbe anche potuto morire, ma prima doveva finire di metterla insieme; magari, un giorno, qualcuno l’avrebbe trovata e apprezzata. E poi, non gli era rimasto nient’altro. Tanto valeva finirlo, prima di decidere se ne valeva ancora la pena.

Spense il fuoco sotto la caffettiera.

Aveva ancora qualcosa per cui vivere, pensò prendendo la penna in mano. Gli occhi di Bianca attendevano solo di esser raccontati da una storia.




* l’uso della forma arcaica di questo participio (perduto al posto di perso) nella mia mente è giustificato da ragioni stilistiche. Ovvero: io penso che in questa frase e in questo paragrafo si adatti meglio perduto, ma ovviamente ciò non lo esime da possibili correzioni

**And I think it’s gonna be a long long time, ...

La canzone prompt era Rocket Man di Elton John, di cui qua ho ricalcato un po’ il ritornello. Sì, l’ho un bel po’ adattata, ma l’idea era quella di richiamarne questa prima parte :)

*** idem, solo con i versi successivi

****È una frase che ho trovato su weheartit, ma non ho ancora capito chi l’abbia realmente inventata; io l’ho solo utilizzata u.u


Altre note:

lo stile che ho usato nelle parti “scritte” da Andrea è volutamente diverso dal mio: fa uso di un registro che non è il mio preferito, sicuramente più aulico, e cerca di trasmettere una storia in modo diverso da come farei io, in modo lento, forse spezzato, e (questa era la mia idea mentre ci provavo, ma mi sembra difficile che esca dalla mia testa per esser capita) ritmico.

Questo perché è il narratore, lì, di una storia che non è la sua vita, e perché lì il narratore doveva essere lui, non io. Ho cercato di far notare lo stacco stilistico, ecco, sia allungando le frasi che lavorando in modo particolare sulla loro costruzione. Non so se sia bello, ma era un’idea.

Poi: anche il modo di integrare “Rocket Man” voleva essere un po’ particolare: non solo con le citazioni, ma impersonando l’uomo razzo direttamente con Andrea; ho solo cambiato “wife” in “figlia adottiva”... o:)

E poi... Bof, spero che vi sia piaciuta :) Qui sotto trovate il giudizio del contest, al quale sono arrivata quarta :D

P.S: se vi state chiedendo cosa diamine c’entri il titolo... me lo sto chiedendo anche io :P

Bi


Not just a tale


- Grammatica, lessico e correttezza formale 13/15

Il lessico è vario ed appropriato. Non ci sono molti errori di grammatica, quindi te li elenco:

- Il più GRAVE: (no sto scherzando:P): Elton Jhon anziché John

- perchè con l’accentazione errata

- “a mò di” invece di “a mo’ di”

- “pesona” anziché “persona”


- Originalità 9/10

Prendi questo voto con grande considerazione, perché non è facile che io metta un voto sopra l’8 :P

Più che per la trama, che di per sé nasconde solo un piccolo dramma familiare, (il grande topos dei romanzi di oggi), ho voluto premiarti per altri aspetti quali la scelta della narrazione: una versione semplificata delle famose “scatole cinesi” (il narratore nel narratore) e la caratterizzazione di Bianca, che ho trovato molto interessante, sebbene, essendo nel suo stato embrionale, non è sempre precisa.

Devo dire che l’interesse per gli sguardi è altro argomento molto trattato, oggi, ma tu gli hai dato un tocco di freschezza e di profondità che hanno sbanalizzato dalla narrativa di oggi un aspetto meraviglioso dell’essere umano. Per farla semplice sei stata brava. Pollice in su =)


- Contenuti e Coerenza 4/5

Il dramma familiare, l’anima ferita da una perdita o un affronto di vari generi sono argomenti abbastanza frequenti.

Devo dire che Andrea ha un carattere particolare (anche se non particolarmente nuovo, scusa il gioco di parole), anomalo in una società come quella di oggi, in cui la solitudine viene vista come terribile mostro.

Non ho trovato chiarissimo l’incontro tra Bianca ed Ernesto. Non hai voluto, o meglio, Armando non ha voluto utilizzare un linguaggio crudo e diretto per narrare questo episodio, ma forse è stato troppo indefinito, poetico sì, ma poco chiaro.


- Canzone 4.5/5

Ho apprezzato molto il tuo tentativo di rielaborazione della canzone in chiave personale, per uscire un po’ fuori dalle righe. Ci sei riuscita anche abbastanza bene, l’idea di associare la vita da eremita di Andrea alla solitudine del nostro Rocket man è molto originale. Tuttavia, non ho voluto darti il punteggio massimo perché, nonostante i tuoi sforzi, non sono riuscita a percepire pienamente la presenza della canzone nella storia. Ha preso il suo corso, diciamo.


- Immagine 5/5

Qui non ho molto da dire. Hai inserito l’immagine in modo naturale e originale. Molto bene :).


Ps. No, perché dici che il titolo non c’entra niente? Io trovo che abbia comunque un suo perché, anche se si può sempre fare di meglio :P (io stessa con i titoli sono una frana!). Come hai detto tu c’è una certa somiglianza tra Marta e il personaggio inventato di Bianca quindi: Not just a tale ;).


Totale 35.5/40

  
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