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Autore: Ste_exLagu    02/06/2013    2 recensioni
Allora questa fic è una pagina del diario di Kaede, in cui spiega un po' le motivazioni del gesto finale. Spiega la propria decisione parlando dei sentimenti riguardo i sentimenti per Hanamici, e i sentimenti per i suoi genitori.
Fa parte della serie Tutta la vita in un secondo. Nella linea Temporale si posiziona come prequiel alla storia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Tutta la vita in un Secondo'
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Ti trovi solo a quattordici anni, e molti vengono a dirti che il dolore passerà, ma il dolore non passa, ti strazia il cuore.
Ho convissuto con il dolore di aver deluso così tanto il mio papà da vederlo sparire davanti ai miei occhi.
Una giornata come le altre, una mattinata pigra a scuola, non ricordo assolutamente niente di quelle mattina, solo la sensazione di dover tornare a casa. Quando è suonata la campanella della pausa pranzo ho preso la mia bici ed ho pedalato come se avessi le ali ai piedi.
Il cuore quello batteva forte, rimbombava nel mio petto, ricordo il freddo invernale, la mia pelle bruciava per la velocità nella mattina gelata dalla recente neve.
Sono arrivato a casa, e dopo aver armeggiato con le chiavi per un po', penso mi siano cadute più volte, e le mani, fredde, gelide, mi tremavano.
Quando finalmente ho aperto la porta ho visto mio padre in piedi in mezzo al salotto.
Il salotto che fino a quel momento è stato pieno d'amore, pieno di risate, mie, sue.
Lui la mia roccia, il mio modello.
Per qualsiasi cosa per me c'è stato lui, lo ricordo come se fosse oggi, lo ricorderò sempre, lui mi ha sempre sorriso e abbracciato dicendomi “nekochan andrà tutto bene, sorridi è tutto così bello” non ho mai rifiutato il contatto, non ho mai rifiutato il suo sorriso, l'ho sempre condiviso. Solo che non ho mai visto oltre, oltre quel sorriso.
Il primo giorno dell'asilo non volevo staccarmi dalla sua gamba, il primo giorno alle elementari mi ha detto “ometto ci vediamo quando torni a casa”.
Ha sempre lavorato da casa, era un programmatore, e ha sempre avuto tempo per me, tempo per i miei problemi.
A dodici anni mi sentivo strano, tutti parlavano delle ragazze, ma io ero strano, non provavo attrazione per le ragazze, anche se cominciavano a scrivermi lettere, ma non me ne è mai importato niente.
Sono sempre stato silenzioso ed introverso, sicuramente non sono mai stato ciarliero o rumoroso, ma amavo la vita.
Lui era la mia vita, quando gli ho parlato dei miei sentimenti mi è sempre rimasto accanto, ha sempre sorriso, e mi ha abbracciato ancora, ed ancora.
Quando ero a casa, magari dopo gli allenamenti, davanti alla TV, lui riemergeva dal suo studio, con la penna grafica sull'orecchio, l'espressione stanca, ma sorridente, veniva da me solo per un bacio ed un abbraccio.
Mentre lei, lei è sempre stata una figura sfuggente, mamma ha sempre lavorato fuori.
Mentre papà è sempre stato con me, mi ha sempre conosciuto a fondo.
Quando me lo son meritato mi ha sgridato, ed è stato severo, non penso di essere viziato, non sento il bisogno di cose futili.
Mi bastava il mio pallone, il basket, la mia bici e lui.
Come gli archi, a scuola ho imparato che c'è una pietra, la chiave di volta, che li tiene su, se togli quello crollano, ed io sono un arco senza chiave di volta.
Ho aperto quella porta e lui era là in piedi si stava puntando la pistola sotto il mento ed io ho corso, ma è stato come se andassi al rallentatore, quando l'ho raggiunto aveva già sparato, la parete alle sue spalle era imbrattata di sangue e pezzetti, tanto sangue, sul muro, sul divano, su di me.
Sono crollato a terra, come una marionetta senza fili, come se mi avessero staccato la spina.
Con la sua morte mi son sentito morire.
Giuro, fino a quel momento non ho capito il vuoto, l'assenza d'aria, l'assenza di vita, l'assenza di stimoli e di sentimenti.
Non provavo niente, niente, non sentivo più nulla.
Non ho chiamato nessuno, ho finito tutte le mie lacrime e solo a sera è arrivata, l'avevo chiamata, ma era in riunione, era da qualche parte, non poteva, non aveva tempo, non c'era per me, non per lui.
Non ci ha mai avvicinati con un abbraccio od un sorriso, non mi ha mai detto “bravo figliolo, bravo nekochan” non è mai servito vincere, non è mai servito essere il migliore, non con lei, invece quelle parole le ricordo impresse nella mia mente dette con quella voce calda e profonda, la voce di mio padre.
Ho continuato con l'unica cosa che mi facesse sentire vivo, il basket, ma una parte di me si è persa nel preciso istante in cui lui ha premuto il grilletto.
Non sono stato un buon figlio, non mi sono accorto della tristezza nei suoi grandi occhi azzurri, nei suoi capelli neri in cui si vedevano fili argentati.
Se chiudo gli occhi riesco a rivivere quell'istante, quello sparo. Passo la mia vita in uno stato letargico, nel sonno non sogno, quindi passo dal sonno al basket e dal basket al sonno. Uno strano equilibrio ma non voglio deluderlo, lo deluderei se mi lasciassi andare completamente.
Avrei sofferto meno se mi avessero tolto i capelli strappandoli ad uno ad uno.
Poi lei si è trasferita a Tokyo, non riusciva a sopportare la mia presenza, la mia persona, il mio volto così simile a quello di mio padre.
La gente spesso diceva che sembravo un piccolo clone di mio padre, lui da piccolo vicino ad un lui adulto, ed io ne ero orgoglioso, felice, ne andavo fiero, ero fiero di essere come il mio ero, un piccolo eroe anch'io.
Ma poi... poi lui se ne è andato col botto e ho dovuto imparare a vivere da solo, lei mi ha abbandonato, lui mi ha abbandonato, ed io mi sono sentito come un cane sul ciglio della strada, un cane, un cane di quei film dove fanno chilometri su chilometri per ritrovare il padrone, in questo caso, l'amore e l'affetto.
Ho trovato la mia strada quando ho incontrato il rosso. Ironico, rosso come il sangue che mi ha portato via papà, ho ancora quella scena negli occhi, ho la sua pistola, non so come ne perché è sempre in casa, la casa dove abitavamo tutti insieme.
Il muro è stato tinteggiato, il divano buttato, e non l'ho ripreso, non avrebbe avuto senso.
Ora qualcuno direbbe arredamento minimalista, io la chiamo paura. Vivo perennemente nella paura di essere abbandonato, perennemente nella paura di essere scoperto fragile, nella paura che leggano la paura nei miei occhi blu, come il cielo che diventa notturno, quando sale la prima stella, come i suoi, ma meno splendenti, come... come...
Ora di nuovo mi manca il fiato.
Ho scritto una lettera al rosso, ho spiegato, gli ho detto tutto.
Sono un illuso, mi stavo aprendo con lui, ogni sera sono rimasto per mesi dopo gli allenamenti, sono rimasto per lui, con lui, non solo per me, a me sarebbe bastato un campetto, di quelli da street basket che stanno fiorendo.
Ma quei capelli, quella risata, quel cuore che sembra grande, non lo so, forse nel suo sorriso, non nelle risate finte, non nelle sue sbruffonate, quel sorriso che gli nasce dal cuore e gli illumina bocca ed occhi, quello vero, quello che fa fermare il mondo.
Non capisco come non facciano a vedere oltre a quel rosso, oltre alla sua innata lotta contro le regole.
Sorride e tutto sembra andare al proprio posto.
Ma non sorride per me, non sorride con me, per me ci sono solo insulti, insulti perché non è vero che sono bello, non sono bravo a basket, insulti perché si è innamorato dell'Akagi; io la trovo priva di spessore, priva di grazia, e priva di attrattive, ma non importa, si vabbè non mi piacciono le ragazze, ma trovo affascinante Ayako, insomma è carina ed intelligente, buffa e simpatica, rimane impressa, mentre Haruko, lei bo è bellina, lo stereotipo della ragazzina giapponese che sarà una buona moglie e una buona mamma.
Non una donna, sicuramente non una donna forte. Potevo sopportare, ho sopportato il più possibile e fingo che non mi tocchi, che non sia importante, ma ogni volta è come se mi strappasse l'anima, è come se mi ferisse al cuore, come se mi facesse stare in apnea per minuti interi, ed il cervello si ferma.
Sono bravo a menare le mani, col mio visino è quasi normale, quante volte mi hanno chiamato”fighetta”, non lo so nemmeno io.
Ora alle superiori ho smesso di studiare, ma alle medie ero bravo, uno dei più bravi, ma quelle prese in giro, che mi son portato dentro: “secchione, secchione, secchione e fighetta...” e cose del genere, ogni giorno, ma ho deciso di fare il minimo indispensabile, in modo da passare inosservato.
Ma con questi lineamenti, lineamenti stranieri, strani, e gli occhi non scuri come tutti quanti, ma chiari, blu, un peso, che non voglio coprire perché sono uguali a quelli di mio padre.
Ora non ce la faccio più sono stanco, non ho più la forza di lottare, non ho più voglia di vivere, da quando anche lui mi ha ferito, mi ha ferito a fondo girando il coltello nella ferita, buttandoci sale con le sue parole “tu per me sei niente” che senso ha esistere, se l'unico che mi fa sentire vivo, che mi ha fatto amare di nuovo dopo anni, dopo amare lacrime mi ha detto che sono niente, che dovrei sparire.
A chi serve, e a che serve continuare questa farsa? Perché lottare ancora, quando non c'è più nulla per cui lottare?
Il basket non mi basta più e lui è il basket, ha i capelli del colore di quella palla a spicchi, come se fosse predestinata questa cosa, come se gli Dei avessero un piano... un piano crudele ma un piano...
La faccio finita.
Non ha senso continuare ancora a tirare avanti a rubare aria a chi ha voglia di vivere... occupo solo spazio.
Lei ne sarà sollevata, ne sarà sollevata.
Dico addio a questo mondo con la crudeltà che mi ha accolto.



Note Sparse


° Pagina del diario di Kaede.
° sono consapevole di quanto sia triste questa storia.
° Fa parte di una serie. Un prequiel di Un secondo e Dunk e di Baka Dohao.
° L'andare a capo e la punteggiatura son volutamente usate così
° pomodori verdi fritti: sono.blasfemo@gmail.com

  
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