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Autore: AngelOfSnow    02/06/2013    1 recensioni
Questa storia si è classificata 3° al contest indetto sul forum di EFP "Dal linguaggio iconico a quello verbale"
E, ne avevo una, di amica. Una di quelle ragazze che vedeva la vita rosa, piena di sottigliezze in grado di dare al mondo qualcosa di misterioso, grandioso e meraviglioso: di... scintillante.
Genere: Generale, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al concorso "Dal linguaggio iconico a quello verbale" indetto da Darllenwr sul Forum di EFP. ( http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10561862 )

Nick su Forum/EFP
: AngelOfSnow
Titolo Guardare il tuo mondo.
Fandom: Originali.
Genere: Introspettivo
Rating: Verde
Eventuali Note: Non so da dove mi sia uscita questa storia guardando l’immagine, però sono abbastanza soddisfatta di ciò che è, e rappresenta. L’unica cosa che ci tengo a precisare che la storia in sé è un testo scritto dallo stesso personaggio e che alcuni errori non sono casuali come sembrano. Sarà la stessa storia a spiegarne i motivi.

 

 

 
Guardare il tuo mondo.

 
 

 
 
<< Nella mia vita non sono mai stata attaccata a qualcosa o innamorata.
Sono sempre stata la classica donna d’affari, troppo indaffarata anche nell’adolescenza per dare spazio ai sentimenti e, sinceramente, la cosa non mi è mai mancata. Come la presenza di un uomo, del resto.
Ho sempre puntato alla mia indipendenza e al mio successo, riuscendo in tutto.
Per essere un avvocato e studiare giurisprudenza non bisogna essere chissà quanto emotivi: ci sarà semplicemente la legge da seguire, perfetta e imputabile nelle sue forme.
L’unica cosa che non ho mai saputo rifiutare è stata l’amicizia, però.
Un sentimento strano, che ti entra più in profondità di qualsiasi sentimento romantico, almeno credo.
E, ne avevo una, di amica. Una di quelle ragazze che vedeva la vita rosa, piena di sottigliezze in grado di dare al mondo qualcosa di misterioso, grandioso e meraviglioso: di... scintillante.
Da giovane mi ero sempre fermata ad osservarla. M’accorgevo sempre del sorriso luminoso che le contornava le labbra rosee, a forma di cuore, illuminandole gli occhi e mi meravigliavo: come poteva sorridere per ogni cosa?
A scuola ero senz’altro la numero uno. Nessuno aveva mai potuto trovare un punto debole nella mia preparazione e gli elogi mi erano del tutto indifferenti.
Per lei era differente, perché a scuola non era molto brava. Se la cavava con una media scarsa, in alcune materie stentata e, nonostante i rimproveri, i voti scarsi e le chiacchierate della madre con i professori non piacevoli, sorrideva sempre. Sempre.
<< La prossima volta darò più del mio massimo! >>ripeteva in continuazione, ricevendo buffetti amichevoli dalle nostre compagne e qualche sorriso d’incoraggiamento delle professoresse.
A quel tempo pensavo che il Classico non fosse un luogo adatto a lei, che a malapena riusciva a ricordare le cinque declinazioni latine, e non le avevo mai rivolto la parola per due anni, troppo occupata a stare nella mia bolla. Sola, come tanto piaceva a me.
Il terzo anno qualcosa era cambiato. Lei, era cambiata, divenendo più matura, attenta a ciò che la circondava. Anche il suo sorriso era cambiato, conservando comunque qualcosa di luminoso che contagiava tutti e, un lunedì mattina come un altro, mi si era avvicinata, mettendomi davanti il quaderno di greco e l’espressione seria.
Una di quelle espressioni che mi hanno scossa nel profondo. << Aiutami, per favore. >> l’unica cosa che m’aveva chiesto, senza pretesa e senza speranza.
Le nostre compagne avevano subito preso a ridere e schernirla, dicendole che non l’avrei mai aiutata. Non l’aiutai e mi stupii. << Ok, ma sappi che mi siederò al tuo fianco per imparare qualcosa. >> e si era seduta nell’unico posto che non aveva mai avuto un compagno o una compagna.
Non la sopportavo perché era petulante e, in qualche modo, riusciva a farmi saltare i nervi.
L’unica cosa che vedevo di positivo in lei, a quel tempo, era l’impegno che impiegava nello studio e nel non copiare dai miei compiti, nonostante le offrissi spesso la possibilità di farlo, così, per mostrarle la mia superiorità.
<< Perché? >> le avevo chiesto, alla fine di un compito importante, non ricordo la materia, in cui aveva avuto delle evidenti carenze.
<< “Perché” cosa? >>aveva ribattuto, con un sorriso in faccia da ebete, mentre addentava un panino.
<< Perché non hai copiato? >>non m’aveva risposto con le parole, ma con un sorriso ampio, falso, di quelli che nascondevano un dolore più grande del normale. Un dolore strano.
<< Voglio diventare un medico. >> la sua risposta non mi aveva minimamente colpita, perché in molti puntavano a quello.
Furono i suoi occhi a darmi una batosta all’orgoglio: decisi, profondi, convinti, irremovibili e... allo stesso tempo fragili.
Se ci penso adesso, adesso che è troppo tardi, da piccola avevo ogni suggerimento possibile per capire.
 
Durante il quinto, qualche mese prima della maturità, aveva incontrato Davide, un ragazzo di un anno più grande frequentante l’università di medicina, durante un orientamento scolastico. Io ero con lei quando si guardarono negli occhi la prima volta.
La nostra amicizia era nata un anno prima in modo naturale, senza troppi giri di parole e senza dimostrazioni da circensi.
Il suo sorriso, quando si erano presentati, era ancora più bello e radioso di quelli normali.
 In quel caso pensai che avrebbe lasciato gli studi, mandato tutto a puttane, per seguire qualche sentimento puerile.
Ma... mi sbagliai anche quella volta:  prendemmo cento alla maturità e le porte delle università si spalancarono per tutte e due.
Io a Londra, lei in Germania. Due luoghi geograficamente opposti.
Pensavo che la nostra amicizia sarebbe finita lì e invece non mi aspettavo di certo d’essere invitata al suo matrimonio.
 
Un anno dopo per partecipare come testimone della sposa.
 
Fu una cerimonia tranquilla, con gente altrettanto tranquilla in un evento sobrio ed elegante. L’unica cosa che stonava con quella perfezione era lei, però.
Era bellissima nel suo abito bianco, certo, ma... i lineamenti del viso erano più marcati e gli occhi castani scavati anche se truccati in modo superbo.
In mezzo  tutta la gioia del giorno, nei suoi occhi si nascondeva lo stesso dolore di quando eravamo ragazze.
<< Sicura di stare bene, Elena? >>  le avevo chiesto, fermandola per il polso... scheletrico.
Aveva sorriso davvero.
Un sorriso di quelli che ti immobilizzano e non ti danno scampo
. << Divertiti, mh? >> l’unica parola da lei pronunciata.
Fu piacevole la sensazione del divertimento.
 
Quella fu l’unica volta in cui mi divertì per davvero, al fianco di quella che potevo considerare la mia unica, vera e fedele amica.
Poi gli studi alle rispettive università ci allontanarono di nuovo.
Sembrava che la nostra “relazione” fosse destinata a scomparire per davvero, così, tanto per troncarla in modo pulito e tornare alle origini.
Non l’avevo mai lasciata andare del tutto, però, e ogni tanto mi informavo su ciò che la circondava, come le andavano gli studi ed ero... felice, di sapere che la sua vita stesse trascorrendo in modo roseo e fiorito come lei aveva programmato. Davvero, davvero felice.
Mi sono decisa a farle visita dopo quasi sei mesi, accettando l’invito a mangiare da lei.
 
In quel momento capì quanto lontane fossimo e non mi stupì di vederla sorridere in modo raggiante e poi in modo consapevole. Anche lei aveva pensato alle stesse cose.
<< Sei dimagrita? E i capelli? >>avevo semplicemente chiesto, mentre mi faceva fare il giro della casa, mentre Davide se ne stava in cucina, dietro i fornelli.
<< Qualche chilo, in effetti. Li ho semplicemente tagliati, ti piacciono? >>
<< Staresti bene anche con i capelli rasati. >>la mia voleva essere semplicemente una constatazione, ma era bastata a farla ridere di cuore.
<< Speravo me lo dicessi...>>non avevo capito il perché di quella risposta così carica di emozioni, indecifrabile.
Non lo sapevo. Non potevo saperlo.
Mi ero beata del calore del suo sorriso.
 
Dopo quella serata ci eravamo tenute ferramente in contatto, organizzando qualche uscita. Serate in locali impensabili, all’insegna del divertimento più sfrenato, che m’ha lasciato con un’occhiata furtiva, come quando, brilla, faceva gli scherzi telefonici ai citofoni dei condomini e poi cominciava a correre, trascinandomi in una corsa zoppicante e sgangherata.
 
Ed è buffo, buffissimo, pensare ad una persona che consideri ancora al tuo fianco e doverne parlare al passato. Perchè mi confondono i tempi verbali, i complementi, le congiunzioni, le punteggiature. Non sono convinta nemmeno dei singolari, dei plurali, delle persone. Parlare di Elena... della mia migliore amica, non era stato mai così difficile.
 
Non ho pianto. Non ho insultato Davide perché lo sapeva. Non ho passato notti insonne. Non ho bestemmiato. Non ho... non ho fatto nulla, quando, la notte del ventitrè luglio, mi sono recata in ospedale confusa.
Davanti alla porta della camera che m’avevano indicato non sapevo che fare.
Per la prima volta nella mia vita non ero sicura di quello che avrei dovuto fare, e sono entrata nella stanza solo perché avevo riconosciuto la sua risata. Risata interrotta non appena mi vide sull’uscio della porta. << Che ci fai qui? >> l’unica domanda che mi era scappata dalle labbra.
<< Non si vede? Sono una paziente del mio stesso ospedale! >>ed aveva riso con le lacrime agli occhi, facendomi cenno di entrare e chiudere la porta. Lo feci senza rendermene realmente conto.
<< Quindi Davide alla fine tel’ha detto? >>
<< Cos’avrebbe dovuto dirmi? >>non capivo.
Nonostante la mancanza dei suoi morbidissimi capelli nocciola, gli occhi scavati, le labbra rosee secche e le mani scheletriche, mi rifiutavo ancora di capire.
<< Sono malata. >> aveva sussurrato, come se fosse un segreto intimo, da condividere solo con me. << Sono malata di tumore... >>
<< I medici ti cureranno! Con la chemioterapia si può..? >>
Il suo sguardo era sereno, rassegnato.
Uno sguardo che ti lacera dall’interno lasciandoti vuoto con la sua sicurezza. << E’ dall’estate dei miei sedici anni che seguo la chemioterapia. È maligno ed troppo esteso per sconfiggerlo, Giada. Morirò, un giorno o l’altro, e la chemioterapia può semplicemente rallentarlo. Capisci? >>
Non piansi. Non lo feci perché quel ‘capisci?’ era stato accompagnato da un sorriso grande, sincero. << Nella mia vita ho avuto il massimo ed è solo grazie a te, Giada. È stato grazie al tuo esempio che non mi sono lasciata andare, mai. Una volta mi dicesti che sarei stata bene anche con i capelli rapati a zero e mi misi a ridere. Ricordi? >> aveva cominciato a ridere e fu in quel momento che la mia sicurezza prese nuovamente il possesso del mio cervello: quella sarebbe stata una delle ultime chiacchierate della sua vita.
<< Certo che ricordo. Lo penso ancora, sai? >> la mia risposta era stata sincera, come le sue lacrime seguite in silenzio dalle mie.
 
 
L’Elena bambina.
L’Elena adolescente.
L’Elena donna, morì all’età di ventitrè anni, due settimane dopo il ventitrè luglio.
 
Per confermare questo dovetti entrare per più d’un paio di volte dentro la sua stanza d’ospedale, rimanendo sull’uscio.
E solo quando vedevo le apparecchiature staccate, le luci spente, il letto ordinato senza lenzuola, le finestre spalancate e le sedie in ordine, tornavo a capire. Capivo tante cose mentre mi tiravo l’uscio scuro e laccato di grigio della stanza per chiuderla.
Da quel giorno non ho più pianto, riso, scherzato.
 
 
 
Ed oggi che siamo riuniti davanti alla sua salma, non posso non fare a meno di ricordarla per la ragazzina sbadata che era, per la donna forte che è stata e per la sua grande forza di volontà.
So che avrebbe riso di cuore vedendo la targa con la laurea in medicina che l’università le ha attribuito. Forse avrebbe pianto, con tutta probabilità.
Ed io, che guardavo il tuo mondo con occhio critico e un po’ stranito, ti ringrazio. Ti ringrazio per avermi insegnato a vivere come facevi tu, e ad insegnarmi quanto conti la purezza di un rapporto.
 

Addio, Elena.  >>
 

   
 
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