Anime & Manga > Kuroko no Basket
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Autore: Glitch_    02/06/2013    3 recensioni
Dopo la fine della scuola superiore, c'è chi ha fatto del basket il proprio stile di vita ma non una scelta per il futuro, chi ha rincorso il proprio sogno in America e chi invece è scappato dalla propria ombra; c'è chi sa che si può sempre ricominciare grazie a ciò che si è avuto e chi pensa invece che sia tutto finito e i cocci da buttare.
Il basket li ha fatti incontrare, il basket li porterà a riunirsi e a restare ancora insieme.
[Kagami/Kuroko, Kasamatsu/Kise, Midorima/Takao + Aomine(onesided)/Momoi]
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ryouta Kise, Takao Kazunari, Tetsuya Kuroko, Yukio Kasamatsu
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A due passi e un respiro da qui'
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NB: spoiler generici fino al capitolo 211, storia ambientata a partire dalla fine delle superiori.
Kuroko/Kagami, Kasamatsu/Kise, Midorima/Takao + mini Aomine(onesided)/Momoi.

Capitolo 1

"But that these are the days that bind us together, forever
and these little things define us forever, forever"
Bad Blood– Bastille

"Non è la fine", questo si ripeteva Kuroko sorridendo nostalgico una volta rimasto da solo negli spogliatoi.
Si era appena lasciato alle spalle l’ultima partita da giocare contro la Too Academy, contro Aomine: non era stata di certo anche l’ultima da giocare con la maglia del Seirin – il torneo non era ancora finito – ma senza dubbio quella sorta di via di mezzo fra scontro e percorso lungo tre anni fatto insieme a Aomine e il resto della Too ufficialmente finiva lì. Era stato pesante, spesso troppo intenso, ma ne era valsa la pena per entrambe le parti.
«Io e il capitano vi raggiungiamo dopo» aveva detto Kagami con tono basso e un po’ rude al resto della squadra, indicandolo con un cenno della testa; i ragazzi del primo e secondo anno si erano limitati a rivolgere delle brevi ma intense occhiate a Furihata – probabilmente per cominciare a fargli pressioni affinché raccontasse loro l’ennesima parte della breve storia del Seirin, per meglio comprendere cosa stesse passando per la testa al capitano Kuroko – poi erano andati via, a recuperare il coach perso da qualche parte a chiacchierare con dei vecchi compagni di nazionale, o forse a infastidirli.
Kagami aveva di sicuro capito che lui voleva stare un po’ da solo, e Kuroko era anche abbastanza certo che l’amico sarebbe rimasto di guardia fuori dagli spogliatoi fino a quando non avesse sentito il rumore metallico dell’armadietto che veniva chiuso, cenno che da lì a poco sarebbe uscito. Quello su cui invece era incerto era se Kagami avesse anche intuito o meno che prima di raggiungere il resto della squadra era sua intenzione incontrare Aomine; in ogni caso Kagami avrebbe fatto finta di non averlo capito, mascherando tutto dietro il solito rimprovero di scomparire sempre nei momenti meno opportuni.
Loro due erano fatti così, del resto: su quello che erano i rapporti con i vecchi amici d’infanzia o compagni di squadra – Himuro, la Generazione dei Miracoli – non si azzardavano mai l’uno a criticare l’altro, emettere sentenze nette o darsi consigli, semmai si limitavano a offrirsi supporto a vicenda e a capire quando l’altro voleva essere capito o piuttosto essere lasciato da solo a sbollire i nervi o una nuova delusione.
"Non è la fine" si ripeté di nuovo inspirando a fondo e decidendosi a chiudere l’armadietto, e poco dopo sentì fuori dalla porta il suono di passi di piedi troppo grandi che si allontanavano – come immaginato, Kuroko scosse la testa sorridendo.
Stava per mettersi il borsone in spalla quando ricevette un nuovo messaggio al cellulare: "Sto aspettando".
"Arrivo" digitò veloce avviandosi all’incontro.
Camminò con passi misurati lungo il corridoio che conduceva all’uscita all’aperto, cercando di rivivere col pensiero le altre volte che negli anni passati aveva fatto lo stesso percorso; volte in cui era stato sconfitto da Aomine, volte in cui aveva vinto, volte in cui si era sentito distrutto, volte in cui aveva in parte ritrovato ciò che pensava di aver perso, volte in cui era stato un kohai, poi un senpai, poi un capitano.
E al termine di quel corridoio, alla luce del sole, c’era una bizzarra fine ad attenderlo, una fine che indossava la tuta della Too, stava appoggiata a una transenna e gli rivolgeva uno sguardo perplesso e un po’ burbero insieme.
«Alla buon’ora, Tetsu, hai preso lezioni da Akashi su come essere in ritardo dopo aver convocato qualcuno?»
«Scusa, Aomine-kun» e non aggiunse altro perché in effetti il suo era stato un ritardo quasi voluto.
Aomine gli rivolse un’occhiata indagatrice velata di sarcasmo. «Volevi dirmi?»
Per tutta risposta, gli sorrise sincero. «È stato un piacere giocare contro di te in questi anni, grazie di tutto, Aomine-kun. Arrivederci».
L’altro restò basito per dei lunghi secondi in cui però il suo sguardo tradì più di un’emozione, poi stornò a proprio modo, il solito. «Con che faccia dopo avermi battuto mi fai venire qui solo per dirmi "arrivederci"?!»
«Veramente pensavo anche di offrirti un ghiacciolo».
«Al diavolo il ghiacciolo, Tetsu!»
«…e di farti i miei auguri e non dirti mica addio» aggiunse con un altro sorriso malinconico. «Alla fine delle medie non ci siamo neanche salutati, ho preferito scomparire, stavolta invece volevo che facessimo entrambi le cose per bene».
Aomine sbuffò e strinse le braccia al petto. «Tu sei proprio certo di non voler continuare a giocare?»
«Non smetterò mica: giocherò ancora perché mi piace farlo, qualsiasi sia il campo a disposizione, ma non è la mia scelta per il futuro» ribatté deciso.
L’altro emise uno strano borbottio scornato. «La cosa mi fa piacere e mi dispiace allo stesso modo».
«Avrai però occasione di batterti ancora contro Kagami-kun durante il campionato dei college americani» gli ricordò con una punta di orgoglio. Sia Aomine che Kagami erano stati adocchiati da degli scout, e se nel caso di Kagami ritornare a Los Angeles era stata quasi una scelta naturale per migliorarsi ulteriormente tornando alle origini, per Aomine andare dall’altra parte del mondo voleva dire scommettere altre dieci, cento volte ancora su chi fosse in grado di batterlo se non se stesso.
Aomine sorrise furbo. «Non so se avrò abbastanza tempo per concedergli ogni tanto un uno contro uno… e se saprà mantenersi al mio livello».
«Non vorrà mantenersi al tuo livello, vorrà superarti».
«Che ci provi!» ghignò con arroganza e un brillio di divertimento negli occhi. Poi sospirò e cambiò espressione, distolse lo sguardo. «Ti va davvero bene così, Tetsu? Voglio dire… siamo stati compagni di squadra e… lo sappiamo, non le prendi esattamente bene certe separazioni…» concluse incerto riferendosi vago al modo in cui erano finiti i loro rapporti alle medie – un modo nebuloso, aspro e ricco di incomprensioni dovute a distanze di un certo tipo.
«Io e Kagami non stiamo per allontanarci perché abbiamo cominciato a giocare in modo diverso» replicò scegliendo con cura le parole e stando attento a non metterci dentro nessuna amarezza, «ma perché abbiamo fatto scelte diverse per il futuro. Non posso dire di non essere triste, ma…» abbozzò un sorriso, «essere lontani non significa perdere qualcuno, no?»
«Lo spero, Tetsu, lo spero davvero» sbuffò forte distogliendo lo sguardo da lui e dandogli una pacca sulla testa, proprio come faceva alle volte in quei giorni lontani alle medie. Kuroko restò per un attimo sorpreso da quel gesto, ma poi sorrise contento e grato, perché ciò gli fece venire in mente un sacco di cose che da bambino non gli aveva mai detto, più che per cocciutaggine, introversione o timidezza soltanto perché aveva pensato, sbagliando, di aver tutto il tempo del mondo per potergliele dire.
«Aomine-kun, sono felice di averti incontrato».
Lui gli arruffò in modo brusco i capelli rivolgendogli un’espressione annoiata quanto disgustata. «Non credevo che dopo "arrivederci" avessi altro ancora di così patetico da dirmi».
«Davvero» insisté, «sei una persona generosa».
«Basta con queste sviolinate atroci!»
«Hai creduto in me quando neanche io credevo in me stesso» continuò imperterrito, «sapevi che non avevo certo il tuo talento, ma mi permettevi di allenarti con te senza alcuna riserva e come pari, perché amavamo entrambi il basket e…» Si fermò dal continuare la frase perché di certo Aomine non avrebbe retto il seguito, però lo pensò: "e hai deciso di darmi tutto quello che potevi nella stessa misura in cui ti davi al basket".
Suonava paradossale rispetto a quello che era diventato Aomine poi, ma era vero, gli aveva dato tutto lo spazio e tempo necessario senza mai farlo sentire inferiore, non aveva mai avuto nessun atteggiamento egoistico nei suoi confronti e per lui era perfino stato pronto a buttare via il proprio ruolo in squadra. Aomine era stato altruista, buono e trasparente. Se battersi contro gli altri quattro della Generazione dei Miracoli era stato spiacevole, contro Aomine era stato doloroso, perché nessuno come lui sapeva che persona era stata.
Era stata la sua luce, ma poi Aomine era diventato troppo accecante per poter avere ancora un’ombra intorno.
La mano di Aomine restò sulla sua testa, Kuroko lo vide diventare pensieroso e storcere il naso. «Tetsu, non hai mai avuto paura che ti potesse succedere di nuovo quello che è successo con noi cinque, con me
"Di incontrare qualcuno che ama talmente il basket da vivere solo di quello fino a trasformarsi in un mostro assetato di vittoria?" «Sì» ammise.
Aomine sorrise ironico scrollando la testa, scostò la mano. «Hai vinto tu, Tetsu» e Kuroko non gli chiese a che tipo di vittoria si stesse riferendo, «perché nonostante tutto non molli mai, da bravo veterano» concluse con una pacca troppo forte sulla spalla. «E lo sai che mi fa piacere che tu non abbia rinunciato mai». Non specificò se si riferisse al basket o a rivedere almeno una parte del vecchio Aomine, ma non ce ne fu bisogno.
«Sono davvero felice di aver giocato con te e contro di te, Aomine-kun» rimarcò il concetto, stavolta con una punta di imbarazzo, perché anche se non erano più bambini erano ancora dei giovani ragazzi, dei maschi, ed esprimere certi sentimenti era socialmente inappropriato. Salutarsi per bene era però doveroso.
«Seh-seh» annuì Aomine alzando gli occhi al cielo con finta aria distratta. «Io ho perso, tu hai vinto» riassunse, ed era anche il suo modo per evidenziare delle scuse sottintese, «buona fortuna, Tetsu» e senza abbassare lo sguardo chiuse la mano a pugno rivolgendola verso di lui.
Kuroko sorrise e batté il proprio pugno contro il suo. «Buona fortuna a te, Aomine-kun».
«Vai via» gli disse monocorde continuando a fissare il cielo.
«Uh?» si sorprese.
«Togliti da piedi prima che ci raggiunga Satsuki! Allontanati tu per primo, stavolta».
Kuroko colse il sottotesto, si risistemò il borsone in spalla, si voltò e andò via. Non guardò mai indietro perché sapeva che tanto Aomine stava rivolgendo ancora lo sguardo al cielo.
"Non è la fine", però era davvero triste, non struggente, ma comunque spiacevole: in quei tre anni Aomine e la Too per lui e il Seirin avevano significato tanto, magari non sempre cose belle, ma comunque dei simboli importanti, e ora l’ultima partita era stata fatta e l’ultimo saluto era stato dato.
«Buona fortuna» ripeté di nuovo, sottovoce e al vento, perché in fondo ne avevano entrambi davvero tanto bisogno.


"Si ricomincerà da capo", questo pensava Kise negli spogliatoi nel dopopartita; di sottofondo c’era il cicaleccio degli altri compagni di squadra stanchi ma soddisfatti della vittoria, lui stava finendo di riallacciarsi la giacca mettendo in mostra un sorrisetto felice appena velato di nostalgia.
Per qualche attimo restò a fissare i colori della tuta prestando più ascolto alle voci degli altri ragazzi, a cui dava le spalle: l’odore degli spogliatoi non era di certo qualcosa di piacevole da ricordare, ma ogni squadra aveva la propria atmosfera, il proprio spirito, e Kise sapeva che quei momenti del dopopartita gli sarebbero mancati. I colori e le voci della Kaijo High più che averlo influenzato l’avevano reso in parte ciò che era diventato adesso, tutte cose grazie a cui avrebbe potuto ricominciare anche una volta finita la scuola superiore: per costruire un nuovo percorso bisogna sapere prima di tutto cosa si vuole di preciso, e lui l’aveva capito da un pezzo grazie anche a loro.
Forse era un tantino inappropriato mostrarsi così felice dopo l’ultima partita giocata tutti insieme, però quello che l’aspettava dopo era così completamente nuovo e ironicamente familiare da renderlo eccitato: squadra nuova, senpai e capitano vecchio.
Il tipo di capitano che era Kasamatsu Yukio e il senso di appartenenza alla squadra che sapeva dare non potevano essere né replicati né sostituiti da qualcun altro – o lui o niente.
Kasamatsu gli avrebbe sempre dato torto – con un calcio – e lui avrebbe sempre ritenuto a voce alta di avere invece ragione – con tono infantile e capriccioso il più delle volte – ma dentro di sé e col senno di poi gli toccava ammettere che Kasamatsu non sbagliava mai, che lui poteva essere un gran talento quanto voleva, ma l’esperienza e il buon senso non erano proprio noccioline e spesso era davvero necessario che qualcuno gli ficcasse ciò in testa a suon di calci. Probabilmente Kasamatsu con i suoi modi un po’ bruschi lo aveva fermato dal montarsi talmente tanto la testa da farsi male da solo, la sua presenza e il suo spirito da capitano quindi gli erano necessari.
Kise ripercorse con la mente i lenti ma piacevoli passi che due anni prima l’avevano portato a stare insieme al suo capitano assoluto, in tutti i sensi possibili, dentro e fuori da un campo. Si accorse che non sapeva dire quando di preciso aveva iniziato a non star bene senza Kasamatsu – dire che stava male sarebbe stata un’esagerazione, almeno agli inizi. Non stava bene perché era irrequieto, tutto qui. Si era abituato un po’ troppo all’idea che Kasamatsu avesse in fondo sempre ragione, era diventato sempre più facile e spontaneo chiedergli un parere su ogni cosa – anche su qualcosa di stupido, solo per vedere la sua reazione o infastidirlo – perché era il senpai, il capitano e – che cavolo! – non riusciva a trovare qualcosa di davvero sbagliato nelle sue ragioni.
Davvero, chiedergli un parere era diventata una dipendenza, nonostante poi la risposta fosse sempre accompagnata da un calcio e un sonoro "idiota", quindi quando Kasamatsu non c’era lui si sentiva… irrequieto. Poi aveva pure iniziato a girarsi per chiedergli qualcosa anche quando lui non c’era – riflesso incondizionato o follia pura? – e quando si rendeva conto che alle sue spalle non c’era nessuno diventava davvero triste.
Dopo anche stare con Kasamatsu era diventato una dipendenza, e ciò non gli aveva fatto neanche paura, anzi le proprie emozioni lo avevano incuriosito: si era sentito tornare bambino, e ciò era stupido, però era bello rincorrere tutte le sensazioni provate, acchiapparle e dar loro un nome e un posto ben preciso; era come fare un castello di carte – pezzi numerati e classificati, struttura fragile – e Kise sapeva che il risultato finale sarebbe stato davvero speciale, quindi lo aspettava con ansia. Una volta messa anche l’ultima carta in perfetto equilibrio sul tetto del castello, aveva sorriso felice e perfino compiaciuto, ma con la pazienza che Kasamatsu gli aveva insegnato ad avere – a suon di calci, e ciò era doveroso dirlo – aveva atteso il momento giusto per dirglielo.
Non era mai stato il tipo da essere insicuro su qualcosa che voleva o gli piaceva, non aveva preso neanche in considerazione l’idea che Kasamatsu non lo ricambiasse, era stato certo che per lui valesse la stessa cosa: per uscire allo scoperto e fare la grande confessione del secolo restava solo da far capire a Kasamatsuche lui fosse certo di essere certo, perché a tratti pareva davvero che l’altro non capisse. Buffo, perché gli sembrava abbastanza chiaro che se Kasamatsu per lui era l’unico capitano, lui per Kasamatsu era invece l’asso insostituibile della squadra: erano dati di fatto, non credenze contestabili, un pensiero a doppio filo che creava una sensazione di appartenenza che si estendeva anche oltre il campo da gioco.
Aveva atteso, con pazienza e sicurezza, continuando a infastidirlo quanto gli pareva e piaceva, sorridendo sprezzante anche quando l’altro gli chiedeva di smetterla di essere così idiota, perché sapeva che il suo capitano avrebbe apprezzato tanto se tutto fosse venuto fuori in modo naturale e non forzato, e comunque Kise non aveva mai pensato a lui a come una ragazza qualsiasi con cui flirtare in modo scemo a lungo – prima di tutto perché era un ragazzo e poi perché decisamente non era una persona qualsiasi – nessuna delle volte in cui erano usciti insieme aveva mai tentato di dare al tutto un’impronta romantica – Kasamatsu l’avrebbe trovato disgustoso e a pensarci bene anche lui.
Poi era giunta la fine della scuola per il capitano e l’inevitabile abbandono della squadra, e Kise era stato sicuro che entrambi stessero pensando "Se non ora, quando?"
Erano usciti insieme a comprare un paio di scarpe per giocare, nulla che non avessero già fatto in passato, ma Kise aveva notato subito quanto si fosse irrigidita la postura di Kasamatsu quando gli aveva chiesto se gli andasse di recarsi a casa sua; gli aveva risposto di sì con un sorriso sereno.
Quella era stata la prima volta che entrava in camera del suo capitano, quindi non si era di certo risparmiato di indicare qualsiasi oggetto attirasse la sua attenzione ponendogli domande imbarazzanti, anche perché se non l’avesse fatto non sarebbe stato normale e tutto il resto che li aspettava poi non sarebbe sorto a galla in modo naturale.
Kasamatsu l’aveva preso a calci un paio di volte, poi lui si era seduto "sul letto del senpaiiii" e aveva indicato felice una chitarra posata accanto alla scrivania.
«Lo sapevo, l’avevo capito dai tuoi gusti musicali che eri un tipo da chitarra! E la suoni pure! Suoneresti per me, senpai?»
«Perché mai dovrei farlo?! Se non ho mai detto a nessuno che suono, di preciso cosa ti fa pensare che ora dovrei farlo addirittura per te?!»
Kise gli aveva rivolto un sorriso provando a nasconderci dentro tutta la malinconia che sentiva. «Perché queste sono le ultime volte in cui posso chiamarti senpai, senpai?»
Kasamatsu aveva sbuffato abbassando lo sguardo, poi aveva preso la chitarra e si era seduto a terra poggiando la schiena contro il materasso. «Però sarò sempre un tuo senpai nel basket» aveva borbottato, «perché avrò sempre più esperienza di te!» Kise, soddisfatto e gongolante, si era accomodato meglio sul letto.
Per un po’ l’aveva ascoltato suonare dei pezzi sconosciuti ma dall’aria vagamente occidentale, ma quando poi le note erano scivolate via su una melodia più malinconica si era ritrovato a fissargli la nuca con la certezza che in quel momento avessero entrambi la stessa espressione sul volto – benché non potesse attestarlo sul serio.
"Se non ora, quando?"
Kise aveva allungato le braccia per stringerlo a sé da dietro, per dirgli con voce ferma e bassa cosa li aspetta – non tristezza, ma certezze. «Entrerò nella tua stessa università».
Lui in risposta aveva serrato appena la mascella, di sicuro una volta tanto non perché fosse infastidito da Kise e da quel gesto, quanto forse da se stesso e anche dall’imbarazzo; la mano che aveva posato sul braccio di Kise per spingerlo ad allentare la presa intorno a lui non era stata così forte e piena di convinzione, l’altra era rimasta a reggere la chitarra. «Kise, non…»
«Entrerò anche nella tua stessa squadra». Poi tutta quella vicinanza aveva costretto Kise ad allentare i freni alla voglia di tenerezza: l’aveva stretto di più nascondendo la testa nell’incavo del suo collo. Non l’aveva sentito irrigidirsi in risposta, ma piuttosto quasi restare in attesa, indeciso, o forse incredulo. «Yukio, per favore… Mi aspetterai? Perché non credo di voler un altro capitano…» e non c’era stato neanche bisogno di specificare cosa nascondesse la parola "capitano".
Kasamatsu aveva posato in modo brusco la chitarra a terra e si era voltato verso di lui serrandogli la mano intorno al braccio; l’aveva fissato arrabbiato, impaurito, insicuro… un sacco di cose insieme, era sembrato sul punto di scoppiare. «Sei sicuro di volermi seguire? Lo sai che non mi è mai interessato chi sei e da dove vieni e non credere che me lo farò pesare in futuro: una volta dentro la mia squadra, sei parte di essa e basta».
«Lo so» e con una mano aveva provato ad accennare una timida carezza al viso, «ma sono sicur…»
Kasamatsu non gli aveva fatto finire la frase, si era sollevato dal pavimento quanto bastava per protrarsi a baciarlo sulla bocca, con uno slancio talmente violento e improvviso da spingere Kise all’indietro.
Entrambi avevano baciato delle ragazze prime d’allora, e lo sapevano, ma anche a distanza di quasi due anni Kise amava definire quello il vero primo bacio di entrambi: la prima volta che si trovava in camera del suo capitano, la luce soffusa del tramonto che entrava dalla finestra e loro due per metà sul letto e per metà sul pavimento intenti a baciarsi in modo scomodo, impacciato eppure impetuoso.
Ce n’erano stati altri di baci poi, sempre meno imbarazzati e più sensuali, un paio di appuntamenti finiti con partite uno contro uno in campetti da basket semi abbandonati – conclusi con la schiena contro la rete e un sorriso furbo che il capitano gli copriva con la propria bocca – e per finire una domanda che due anni dopo Kasamatsu gli aveva posto rivolgendogli la schiena nell’atto di raccogliere dal pavimento la propria maglia, abbandonata lì prima che finissero a letto.
«Verrai a vivere qui?»
Erano nell’appartamento da universitario del capitano; Kise, ancora mezzo nudo sul letto, neanche mezz’ora prima si era divertito a dire quanto fosse scandaloso che lui si portasse a letto qualcuno con ancora addosso la divisa delle superiori. Aveva sorriso alla sua cocciutaggine nel non mostragli il proprio volto in quel momento importante e si era abbassato per guardare se la sua cravatta fosse finita sotto il letto.
Kasamatsu non gli aveva neanche chiesto se "per puro caso" gli andasse di condividere l’appartamento, lo dava per scontato.
«Senpai, non credevo che non farlo fosse un’opzione!»
In risposta l’altro aveva indossato la maglia e si era voltato a guardarlo nascondendo un sorriso dietro un’espressione burbera.
Quello era successo poco meno di un mese prima.
Mise il borsone in spalla, salutò allegro il resto della squadra e si avviò all’uscita – per i convenevoli da congedo da studente del terzo anno si sarebbe rifatto il giorno dopo a scuola, in palestra. Trovò Kasamatsu ad aspettarlo fuori con la solita espressione stoica da dopopartita – anche se non era stato lui a giocarla – e una lattina di pocari in mano.
Kise sventolò una mano in aria e gridò festoso. «Senpai! Ho vinto!»
«Non c’è bisogno che tu l’annunci al mondo in quel modo, idiota!» Gli lanciò contro la lattina in un palese tentativo di centrargli la fronte, ma Kise la bloccò per un pelo. «L’ho visto che hai vinto».
Era raro che si perdesse una sua partita di campionato.
Kise sorrise giocherellando con la bibita, cercando anche di gongolare il meno possibile per quel piccolo regalo – ricevuto con un lancio assassino, ma tant’è, era sempre un pensiero che il senpai aveva avuto per lui e comunque era quello il suo stile. «Sono contento che tu sia venuto a vedermi, senpai! È stata la mia ultima partita con il Kaijo!»
«Lo so» commentò abbassando lo sguardo sulla sua tuta blu e bianca con una certa nostalgia: dovevano entrambi molto a quei colori.
Kise si sentì in dovere di smorzare l’atmosfera. «Senpai, che ne dici di andare a…»
«Taci!» Gli afferrò con forza un braccio e lo trascinò con sé lontano dalla folla.
Stava per chiedergli con un filo di preoccupazione cos’avesse in mente di fare, ma quando lo vide dirigersi verso un angolo appartato e all’ombra capì e sorrise. Kasamatsu lo spinse senza tanti complimenti verso il muro e lo baciò.
«Sto per tornare a essere davvero il tuo capitano» gli mormorò con aria di sfida, «non credere che ti farò sconti».
«Non ho mai pensato che me li avresti concessi» replicò sullo stesso tono.
L’altro continuò puntandogli un dito contro il petto. «E non credere neanche per un solo istante che mi fregherà sapere in quale squadra sei stato e cosa sei capace di fare, benché lo abbia visto di persona: avrai un mucchio di nuovi senpai, sai?» Spinse di più il dito contro il petto facendogli male di proposito. «Dovrai muovere il culo per guadagnarti il titolo di asso, perché sarai nel mio campo e nella mia squadra e io pretendo massimo rispetto per chi ha esperienza. Tu sei la matricola Kise Ryota della mia squadra e io sono il tuo capitano e senpai Kasamatsu Yukio: hai qualche lamentela?»
Ghignò appena prima di rispondergli. «Nessuna». Lui più che baciarlo sembrò morderlo.
"Si ricomincerà da capo", pensò di nuovo Kise, e cercò di prepararsi il più possibile a tutto.


"È finita" continuava a pensare amaro e sarcastico Takao, steso sulla panca dello spogliatoio vuoto. Rideva e tremava per il nervoso, le braccia a coprirgli il volto e il dolore fisico per il pugno ricevuto che si stava estendendo in modo rapido a tutto il corpo.
Si alzò di scatto e si mise a sedere provando a riprendere il controllo di se stesso, fallendo. Allungò i polsini della tuta sulle mani per coprirsele, poi cambiò idea e li strinse nel pugno; strinse forte tremando ancora, cercando così di trattenersi dal prendere a pugni gli armadietti. Ghignò cinico, rise di se stesso ancora, ancora e ancora. Perché, davvero, non si aspettava niente in cambio dopo aver finalmente sputato il rospo – perché solo in quel modo poteva definire qualcosa che per anni se n’era stato li, fra la bocca dello stomaco e la gola, a dar fastidio di giorno e a far male alcune notti e che finora era stato impossibile cacciar fuori – non voleva una risposta e avrebbe accettato perfino di essere ignorato – anche perché conoscendo lo stile di lui quella sarebbe stata una risposta bella e buona – sperava solo che l’altro l’accettasse, sia nel bene che nel male, non che lo rinnegasse a tal punto da picchiarlo.
L’aveva afferrato per il colletto, guardato in faccia come una belva furiosa e ferita, sbattuto contro gli armadietti e poi gli aveva sferrato un pugno.
Considerando che lui così facendo si era di sicuro fatto male alla sua preziosa mano sinistra, doveva avere avuto davvero voglia di massacrarlo fino a cancellarlo dalla faccia della Terra.
Takao non gli aveva chiesto nulla, aveva solo esposto in modo chiaro e una volta tanto non ironico quello che sentiva, era stato anche pronto a sentire dire un’offesa, un insulto urlato, ma non a leggergli negli occhi la voglia di non averlo mai conosciuto.
"È finita" pensò di nuovo ridendo sarcastico, ringraziò se stesso di aver aspettato la fine del torneo per dirglielo e si disse che comunque non si sarebbe mai pentito di averglielo detto, perché non era da lui escludere un’opzione e non provare a vivere la vita al meglio.
Aveva passato giorni, settimane, mesi e anni interi a farsi accettare e riconoscere in tutto e per tutto da lui, e ora era finita.
Rise di nuovo amaro battendo un piede contro il pavimento, poi chinò la testa, artigliò le dita fra i capelli ed esasperato e incapace di contenersi ancora urlò ferito.
"È finita".


Kuroko palleggiava in modo quieto nel campetto non molto lontano dal Maji Burger. La sua carriera da capitano si era conclusa con un buon secondo posto alla Winter Cup e per quanto quell’ultima sconfitta proprio alla fine bruciasse ancora, era soddisfatto.
Aveva avuto altre vittorie come capitano quell’anno, sia materiali che spirituali, e non aveva mai immaginato che un giorno il "suo" basket l’avrebbe portato non solo a supportare una squadra, ma anche a guidarla.
Al termine del suo secondo anno di scuola, il club di basket della Seirin High aveva avuto delle grosse perdite, perché non solo si era diplomata più della metà dei giocatori regolari più il vecchio capitano, ma perfino la coach aveva lasciato il club e la scuola. Il Seirin si era ritrovato senza i suoi fondatori, senza capitano, senza coach e di conseguenza con lo spirito di squadra a pezzi.
Kagetora aveva detto che gli piangeva il cuore a vedere il lavoro della sua amata figlia andare sprecato, così dopo anni aveva deciso di tornare ad allenare una squadra e di prendere in mano quanto lasciato da Riko – anche perché dopotutto il Seirin era stato plasmato anche secondo i suoi ideali, tramite la figlia.
Quando Hyuga e Riko il loro ultimo giorno avevano chiamato Kuroko da parte per annunciargli la loro decisione, lui era rimasto stupito.
Riko aveva sorriso ironica inarcando un sopracciglio. «Chi altri, sennò? Furihata che ha un problema con le pressioni? Quella testa calda di Kagami?»
«Tu sei il più esperto, fra quelli del secondo anno» aveva aggiunto serio Hyuga. «Alle medie sei riuscito a farti abbastanza strada da essere accettato e riconosciuto dalla Generazione dei Miracoli, hai affrontato parecchie partite con e contro di loro e sappiamo entrambi quanto di per sé questo sia già un grosso allenamento» aveva concluso sbuffando e lanciandogli contro un pallone – quasi la resa simbolica della fascia di capitano.
«E c’è bisogno di qualcuno che sappia raffreddare sempre i bollenti spiriti del nostro asso e guidarlo» aveva rincarato Riko facendo una faccina innocente coronata da un occhiolino. «La nostra quadra è molto giovane, ma ciò non vuol dire che non abbia già il suo pezzo di storia importante, e tu di questo pezzo ne fai decisamente parte: conosci il nostro spirito e hai contribuito a formarlo, non ci dispiacerebbe se fossi proprio tu a portarlo avanti».
Kuroko non si era sentito così felice neanche dopo aver fatto un canestro decisivo proprio sul fischio finale: aveva stretto il pallone a sé e aveva rivolto loro un inchino grato. «Grazie per la fiducia, senpai, coach. Farò di tutto per non deludervi».
Poco più tardi Izuki dopo l’annuncio ufficiale si era rivolto a lui sorridendo e mostrandogli il pollice all’insù. «Chi meglio di te che sai creare dei fili invisibili di congiunzione fra i compagni?» Riko l’aveva punito per la pessima battuta con un doloroso scappellotto.
Non era stato facile guidare Furihata lungo la strada per diventare il loro nuovo playmaker regolare, perché sostenere un compagno di squadra come pari e guidarlo come capitano erano due cose diverse, ma non c’era stata gioia più grande di accogliere la fiducia dei senpai e della coach, quindi si era impegnato e ci aveva messo tutta la dedizione e tutto l’affetto possibile.
Avevano vinto sia delle partite che delle scommesse fatte con loro stessi, altre volte avevano perso, ma per il modo in cui non avevano mai rinunciato ad andare avanti e a nessuna parte di loro stessi pur di vincere, Kuroko sentiva di poter dire che erano davvero diventati i numero uno in Giappone.
Sorrise alle prime stelle della sera e lanciò a canestro. Sbagliò.
«Continui a fare schifo» brontolò Kagami alle sue spalle; l’aveva raggiunto lasciando gli altri al Maji Burger.
«Kagami-kun, continui a essere irrispettoso nei confronti del tuo capitano». Sapeva quanto la questione kohai-senpai infastidisse da sempre Kagami, era fantastico adesso stuzzicarlo anche con la scusa di essere un suo superiore, quasi più bello che mettergli Tetsuya #2 sulla schiena durante le flessioni.
Lui sbuffò e s’impossessò del pallone, lanciò a canestro. Non lo mancò. «Non credere che a Los Angeles mi mancherà la tua ironia inespressiva».
Kuroko riprese il pallone e lo fece roteare in equilibrio su un dito. «Non ti mancherà il basket giapponese, Kagami-kun? Ricordo che qualche anno fa, proprio su questo campo, ti sei lamentato abbastanza di quanto fosse inferiore rispetto a quello americano».
Lui gli rubò la palla con un gesto veloce e violento della mano. «Perché per certi versi lo è» confermò palleggiando, «ma questo non vuol dire che non abbia i suoi punti di forza» ghignò saltando per un dunk.
Kuroko cercò di non pensare a quanto quella prossima separazione e quella situazione per certi versi fossero simili a ciò che era successo alla fine delle medie, provò solo a concentrarsi sulle differenze tra quello che era stato e quello che aveva davanti ora. «E noi ti mancheremo?» domandò afferrando il pallone al rimbalzo, ma con voce appena udibile.
«Cosa?» infatti chiese Kagami perplesso.
«Dicevo, di certo non ti mancherà Aomine-kun». Era abbastanza sicuro che Kagami sarebbe stato disposto a rincorrerlo per tutti gli States pur di sfidarlo ancora, sempre con la faccia di un esaltato. Era anche questo che gli piaceva di lui.
«Ammetto che non pensavo che un giorno avrebbe avuto abbastanza fegato da lasciare il Giappone per cercare nuove sfide: hai vinto, Kuroko» gli sorrise soddisfatto, «sei riuscito a far crollare le sue convinzioni e farlo scendere dal piedistallo, almeno abbastanza da spingerlo a pensare che "l’unico in grado di battere me sono io stesso, ma magari vado ad annunciarlo anche in America che non si sa mai"» ironizzò sghignazzando.
«Kagami-kun, hai avuto anche tu i tuoi momenti di egocentrismo ed egoismo» gli ricordò.
Lui smorzò il tono e storse appena il naso. «Credo però di averti prestato molta più attenzione di quanto abbia fatto lui, visti i risultati» mise a segno un altro canestro.
Ed era vero, così tanto che subito dopo il campetto deserto si riempì di un’atmosfera densa e soffocante, eppure piacevole – anche se non così tanto da non spingere Kuroko a scappare – era consapevolezza.
Le sue amicizie più significative erano sempre nate e cresciute grazie al basket, per la seconda volta nella sua vita aveva stretto amicizia con un "idiota maniaco del basket", una persona ancora una volta generosa ma dai modi un po’ rudi e troppo diretti, ancora un’altra volta un’ala grande di cui essere l’ombra; molte volte agli inizi del loro rapporto si era augurato che Kagami non diventasse come gli altri della Generazione dei Miracoli, perché Kuroko non era così ingenuo o fiducioso da pensare che avrebbe retto bene l’essere di nuovo lasciato indietro – senza più fiducia e senza più passione per il gioco – e lo spaventava sul serio la prospettiva di odiare un’altra volta il basket e ancor di più l’idea di perdere delle persone per colpa del basket tanto amato.
Era davvero imbarazzante vedere cosa nascondevano le differenze che c’erano fra il rapporto che aveva avuto con Aomine e quello che aveva con Kagami, si ci concentrava per darsi coraggio e dirsi che non avrebbe perso di nuovo la sua luce, ma erano differenze forti, intense… Sapeva dare loro un nome ma non riusciva a dirlo ad alta voce e non per vergogna, ma per paura.
Anni prima non aveva avuto paura di correre verso quel campetto per dire a Kagami che all’inizio aveva pensato solo di usarlo, che non c’era una vera motivazione dietro la sua scelta di essere la sua ombra, aveva rischiato di mandare all’aria il loro rapporto, ma era stato sincero. Sul serio, era felice di averlo incontrato, era stata una fortuna, perché con una persona diversa da lui probabilmente sarebbe andato a pezzi, o forse sarebbe caduto anche lui nella parte più oscura del basket. Grazie al cielo, si erano incontrati.
Ma ora aveva paura.
Il basket li aveva uniti e ora li stava separando, ma senza più un pallone e un canestro fra di loro, sarebbe stato lo stesso? Di cos’altro avrebbero parlato? Cos’altro sarebbero stati? Valeva la pena aprire bocca e dar fiato a quello che sentiva? Poi sarebbe cambiato ancora di più tutto, come se già i cambiamenti che li aspettavano non fossero abbastanza… quindi magari… forse no, era meglio non dirlo.
«Kuroko?» lo richiamò Kagami perplesso, scuotendolo dai suoi pensieri. «Cosa stai rimuginando? Qua non ci sono asciugamano per coprirsi la testa quando si pensa, come in panchina» scherzò.
Kuroko gli avrebbe volentieri lanciato contro la propria polsiera elastica, ma purtroppo in quel momento non ce l’aveva, e comunque… Kagami l’aveva riportato alla realtà e a calmarsi – riuscivano sempre a calmarsi o incitarsi a vicenda – abbastanza da scrollarsi di dosso inutili propositi che avrebbero solo complicato ulteriormente la situazione: andava bene così.
«Mi mancherà la tua cucina, Kagami-kun» stornò tenendo lo sguardo basso.
«Che cosa?! Abbiamo giocato insieme per tre anni, mi hai sempre fatto quei grandi discorsi sull’essere la mia ombra, per colpa tua ho dovuto accettare un cane come mascotte e dopo tutto quello che fatto o sopportato a causa tua mi vieni a dire che ti mancherà la mia cucina?!»
Kuroko alzò lo sguardo per fissarlo in faccia, con un sorriso sicuro. «Perché mi piace davvero come ti prendi cura delle cose, anche tramite la cucina».
Erano poche le cose che interessavano in un modo o nell’altro Kuroko che Kagami non si era preso a cuore, in modo cocciuto e alle volte stupido e ottuso, ma l’aveva aiutato a curare tante cose. Avevano messo entrambi così tanto di sé stessi in quel lungo percorso, sostenendosi sempre e non deludendosi mai, che quale altro poteva essere adesso il risultato se non quella cosa che sentiva strepitargli in petto?
Vedendo l’espressione di Kagami farsi di colpo più seria e malinconica, Kuroko abbassò lo sguardo, ma sentì la mano di Kagami posarsi sulla sua testa per afferrargliela in modo buffo e costringerlo a guardarlo di nuovo in faccia.
«Oi, Kuroko, guarda che anche tu mi mancherai… ok?» concluse la frase in modo un po’ duro e rivolgendo lo sguardo in un punto indefinito in alto a sinistra. Sembrava nervoso. «L’ho detto? Sì, l’ho detto» quasi rassicurò se stesso. «Detesto quando mi dici cose imbarazzanti che un ragazzo della nostra età non dovrebbe dire, ma penso che almeno ora, adesso… mi tocchi dirtelo, va bene? Mi mancherai» gli spinse la testa giù, ma non spostò la mano dai suoi capelli.
Kuroko mantenne gli occhi puntati a terra, ma sorrise mordendosi un labbro, incredulo di quanto quell’ammissione l’avesse reso felice: non aveva neanche mai pensato che un giorno Kagami gli avrebbe detto, o meglio sarebbe riuscito a dirgli, una cosa simile. Era già tanto, e bastava così.
«E a proposito di cose imbarazzanti che mi hai detto» continuò inaspettatamente Kagami, «sono contento anch’io di averti conosciuto, ok? Perché non so chi o cosa sarei diventato senza di te».
Davvero, sarebbe bastata solo l’ammissione di prima, perché ora Kuroko non sapeva più come fermarsi, come bloccare l’ondata terribile di pensieri su quanto lui e Kagami fossero simili e diversi insieme e che forse era meglio non dividersi…
Kuroko sbuffò un sorriso e gli sferrò un debole pugno scherzoso contro lo stomaco; Kagami non protestò nemmeno, ma non era difficile intuire, sentire, come lo stesse fissando.
Gli diede altri piccoli pugni contro l’addome, scuotendo la testa e continuando a mordersi un labbro, indeciso se alzare lo sguardo o meno verso Kagami, che da parte sua non stava neanche facendo pressioni affinché lo facesse, nonostante gli tenesse ancora la mano sulla testa. Furono pochi secondi, ma Kuroko soppesò bene tutto: l’importanza della loro amicizia, cosa aveva portato a entrambi giocare insieme, le ammissioni di Kagami, la prossima lontananza e in che modo avrebbe cambiato il loro rapporto, la possibilità che si stesse illudendo e per finire la paura di rovinare tutto.
Il loro rapporto era troppo importante e centrale nelle loro esistenze per essere rovinato da qualcosa di così egoistico come il desiderio di volere qualcuno solo per sé e basta.
Batté piano entrambi i pugni contro Kagami e si allontanò da lui sorridendo a sguardo basso. «Sei davvero maturato, Kagami-kun». Riprese il pallone da terra e fece per avviarsi fuori dal campo. «Ricordati però di non mollare mai e di non perderti troppo nel basket» allungò una mano chiusa a pugno verso di lui.
Kagami era rimasto fermo e malinconico, protrasse il braccio verso Kuroko e inaspettatamente invece di battere il pugno contro il suo restò a un passo dallo stringergli il pugno nella mano, con la punta delle dita a sfiorargli le nocche.
Quel gesto sorprese Kuroko e lo spaventò a morte, perché sentì che erano entrambi a un passo dal cadere giù da un posto immaginario molto alto, era il momento di credere fino in fondo a quella che poteva essere un’illusione e buttarsi, ora o mai più: bastava allargare il pugno e intrecciare le dita alle sue.
Guardò l’espressione di Kagami e vi vide ansia e imbarazzo: no, non era da Kagami fare un gesto simile, infatti ora aveva di sicuro paura che fraintendesse, decise quindi di venirgli incontro e trasformare il pugno in una stretta di mano più virile.
E se c’era stato l’ultimo momento buono per dirgli quello che provava, ora era passato.
Kagami ricambiò la stretta con un sorriso accennato e poi lo superò di qualche passo. «Credo che in generale non dimenticherò mai tutto quello che mi hai detto».
Kuroko strinse a sé il pallone e fissò Kagami precederlo al Maji Burger, dove di sicuro gli altri li stavano aspettando.
Si chiese se gli altri si fossero accorti subito che lui era sgusciato via, o se fosse stato Kagami il primo a notarlo. E come l’avesse raggiunto al campetto senza chiedergli via messaggio dove fosse e se per caso volesse compagnia.
Poco importava, adesso, il momento giusto era passato.


Kuroko non sapeva dire se da dopo quella sera quando era insieme a Kagami mancasse qualcosa o piuttosto ci fosse qualcosa fuori posto, era una sensazione che sentiva a pelle, spiacevole e molto imbarazzante visto che i pochi giorni che avevano ancora a disposizione sarebbe stato meglio condividerli senza troppe paranoie.
Eppure quella sensazione c’era e restava, non era andava via neanche grazie all’allegra confusione portata dai vecchi senpai riuniti per salutare Kagami, né durante l’ultima cena insieme a scrocco del festeggiato – messo anche ai fornelli.
Nel momento in cui si era ritrovato all’aeroporto con il coach, Riko, Hyuga e Kiyoshi, tutto era diventato cento volte più reale di prima: stavano, stava, per salutare Kagami che andava dall’altra parte del mondo. Kagami avrebbe incontrato persone nuove, di sicuro il suo stile di gioco sarebbe maturato ed evoluto e lui non avrebbe più fatto parte in modo diretto di nessun futuro percorso che avrebbe intrapreso.
Era vero: senza un pallone e un canestro di cosa avrebbero parlato? Cos’altro avrebbero potuto essere?
"Ma io a te ci tengo" avrebbe voluto dire a voce alta, in modo egoistico e forte, ma il momento giusto era già andato via qualche giorno fa.
Gli strinse la mano e guardandolo negli occhi gli augurò buona fortuna.
Poi uno… due… tre… decollo: lontano dagli occhi, lontano dal cuore; l’avrebbe aiutato a non avere rimpianti.


«Ne sai qualcosa, Kuroko?»
«Eh?»
«Siete compagni di classe, no? Siete perfino seduti l’uno accanto all’altro».
«No… noi non parliamo».
«Non una volta in una settimana?!»
«Già».
«Dannazione! Almeno chiedigli qualcosa!»
«Scusa. Ultimamente è un po’ dura parlare con lui».
Gli tornarono in mente quelle battute di quell’episodio un po’ amaro del loro primo anno, dopo la sconfitta contro Aomine: c’erano stati silenzi e incomprensioni fra lui e Kagami, anche perché sostanzialmente loro due non erano i tipi da parlare molto, se non di basket.
«No… noi non parliamo».
Quella situazione somigliava troppo ai loro peggiori momenti di silenzio.
A lezione finita, Kuroko controllò il cellulare: nessun messaggio ricevuto, lui e Kagami finora si erano appena scambiati due righe su com’era andato il viaggio e com’era stato il primo giorno da universitari, tutto abbastanza descrittivo e detto in modo stringato, niente di particolare.
Eppure mancava qualcosa, o magari c’era qualcosa fuori posto. Il basket? Forse.
Intanto il peso di un vero chiarimento mancava – Kuroko era abbastanza certo che quella sensazione l’avessero percepita entrambi – così come le parole non dette e la loro generale mancanza di dialogo non li aiutavano di certo a superare lo stallo che si stava creando.
«No… noi non parliamo».
In cambio di un chiarimento non avuto, però, ne aveva avuto un altro che era stato fruttuoso: Aomine quasi lo assillava con le sue richieste di video chat.
Non era facile chiacchierare a lungo per via della differenza di fuso orario e il più delle volte Aomine gli urlava di non dormire sulla tastiera del computer, ma Kuroko non poteva dire che non fosse contento di vedere quanto gli States avessero fatto bene al vecchio amico.
Aomine viveva in un dormitorio, condivideva la stanza con un povero disgraziato dedito all’atletica leggera – era passato quasi un mese e Aomine non era ancora riuscito a spiegargli bene quale disciplina praticava quel ragazzo, a un certo punto se n’era uscito con un "lancia un coso". I due compagni di stanza si parlavano poco, perlopiù a gesti e urla di Aomine, ma essendo entrambi maniaci dello sport e in linea di massima dei lupi solitari riuscivano a convivere in modo più o meno pacifico.
Aomine era molto entusiasta, una volta aveva portato a passaggio il portatile per tutto il corridoio del dormitorio solo per fargli vedere il posto via cam. Lo stile di gioco americano era diverso da quello a cui era abituato, e confrontarsi con un giocatori anche dalla struttura fisica diversa l’avevano portato a… esaltarsi. Era perennemente esaltato, la sua condizione di maniaco del basket era peggiorata e Kuroko sperava solo che la sua faccia da pazzoide mentre giocava non gli impedisse di farsi nuovi amici. Ogni tanto Kuroko gli chiedeva di allontanarsi giusto un pochino dall’obiettivo della cam, perché vedere il suo ghigno a tutto schermo era un tantino inquietante.
«Aomine-kun, allontanati un po’ dallo schermo».
«Perché?!»
«Vedo solo la tua faccia».
«Dov’è il problema?!»
«… Aomine-kun, cosa stai bevendo?»
«Pocari!»
«Veramente sulla bottiglia c’è scritto "Gatorade"».
«Sì, ma è pocari!... Oi, Tetsu! Non dormire sulla tastiera!»
Tutto sommato però era davvero contento che Aomine fosse così pieno di voglia di giocare e che il suo umore ne avesse giovato.
Grazie alle loro video-chiacchiere aveva avuto un quadro completo di quello che facevano ora gli altri della Generazione dei Miracoli.
«Murasakibara ha mollato» gli aveva detto Aomine, «almeno ufficialmente: credo che ogni tanto giochi ancora per scommessa e soldi insieme a Himuro e che entrambi partecipino pure a dei tornei di street basket».
«Penso che abbia fatto bene» aveva commentato, «sai qual era il suo problema con il basket, credo che giocando così saltuariamente potrebbe anche apprezzarlo di più».
«Già, e adesso che non fa parte di nessuna squadra può dedicarsi completamente alla sua passione».
«I ghiaccioli?»
«Perché ce l’hai così tanto con i ghiaccioli, Tetsu?!»
«Sono buoni, noi sei e Momoi-san li mangiavamo sempre da bambini».
«I dolci! Murasakibara vuole diventare un pasticcere
Akashi aveva deciso di dedicarsi del tutto agli affari della sua ricchissima famiglia, o almeno in parte: voci dicevano che si era subito interessato a un paio di squadre di basket come "benefattore" e sia Kuroko che Aomine pensavano che entro un paio di anni lo avrebbero visto allenare una squadra col solito piglio assoluto e demoniaco. Speravano almeno che quella sorte non toccasse alla squadra in cui militava Kise. Akashi però restava una silenziosa presenza nelle loro vite, alle volte un po’ inquietante per quel suo essere così tanto previdente e stranamente presente nel momento giusto, ma al di là di tutto e del loro passato sapevano che lui per loro ci sarebbe stato sempre, ancor prima che sapessero di averne bisogno – forse si sarebbero dannati a vita a chiedersi cosa mai un giorno avrebbe voluto in cambio, ma tant’è…
«Midorima ha smesso pure» aveva aggiunto Kuroko.
«Lho sho» aveva commentato Aomine mordicchiando il collo della bottiglietta di finta pocari; si era adombrato un po’. «Credo che abbia qualcosa a che fare con Akashi».
«Akashi-kun ha sempre preteso molto da Midorima-kun, perché ha una grande stima di lui».
«Però sai com’è: la gente a via di sentir pretese… si rompe!» aveva fatto una faccia scocciata. «Credo che per Midorima l’ultima partita persa contro di lui sia stato il colpo finale: loro due sono in modo diverso due uomini d’onore, se capisci cosa intendo, non a caso erano capitano e vice capitano – sia all’epoca che ora – e Midorima è una persona lunatica e facilmente irritabile. Non ci vuole un genio per capire cosa gli sia passato per la testa dopo l’ultima partita».
«È un peccato, però».
«Lo penso anch’io… Cosa fa adesso?»
«Studia Medicina».
«Ma… Takao?» aveva chiesto Aomine incuriosito. «Stavano sempre appiccicati…»
«Takao è al mio stesso corso».
«Ah sì?» si era sorpreso. «Quindi vi frequentate!»
«Veramente se posso lo evito: Takao-kun è troppo… rumoroso».
«Andiamo, Tetsu! Non fare l’asociale una volta tanto che potresti stare insieme a qualcuno che non sa perderti di vista!»
«Credo che sia anche per questo che mi irrita».
«E di Kise che mi dici? Ci sono novità che ancora non so?»
«Tutto bene» aveva annuito, «adesso sta ufficialmente insieme al suo capitano, il senpai Kasamatsu».
A quel punto Aomine aveva sputacchiato lo schermo di finta pocari.
Aomine gli aveva anche chiesto di Kagami, e Kuroko non sapeva ancora dire come, ma l’amico aveva capito tutto; aveva anche definito tutto molto stupido e l’aveva invitato più volte a scrivere a Kagami, ma Kuroko non sapeva di preciso cosa scrivergli e comunque iniziare un discorso non era mai stata la sua specialità. In realtà avrebbe solo voluto essere capace di parlare con Kagami come adesso faceva con Aomine: la vita era strana, perdevi una cosa e ne guadagnavi un’altra insperata.
Tornò al presente, diede un’occhiata di sottecchi a Takao, seduto quattro posti davanti a lui: aveva l’aria annoiata e stanca e Kuroko, in tutta onestà, dopo tutto quel parlare con Aomine sul come e perché gli altri avessero smesso di giocare quasi aveva voglia di ascoltare le sue motivazioni – che lui sapesse, Takao non era entrato in nessuna squadra.
Takao era stato un grande rivale e Kuroko aveva sempre ammirato in segreto il modo in cui era riuscito ad approcciarsi a Midorima e sopportarlo: non era da tutti sottostare a certe manie di quella formidabile, ma assurda, guardia tiratrice.
Takao in genere era un ragazzo pieno di vita e voglia di giocare, e nel suo ultimo anno di scuola era stato un capitano capace di portare avanti la propria squadra con tanto allenamento e dedizione ma anche con un certo spirito – l’ironia e la capacità di smorzare le atmosfere più dure non gli erano mai mancate. Ora sembrava mancargli qualcosa, o forse qualcosa era fuori posto.
Takao aveva provato ad approcciarsi a lui più di un paio di volte e, visto che era difficile sfuggirgli, Kuroko stava provando a evitarlo proprio: non era tanto il suo poco rispetto per gli spazi altrui a infastidirlo, quanto la sensazione che fossero simili. E Kuroko non si piaceva molto in quel momento, non gli andava di stare accanto a qualcuno di simile a lui.
Mise il cellulare e il resto delle proprie cose nella tracolla e uscì in fretta dall’aula, prima che l’altro potesse notarlo.


Kuroko a scuola al di là del club di basket non aveva avuto grandi amicizie – in genere quando non giocava a basket s’immergeva nella lettura, estraniandosi – e all’università, fra la gente proveniente dal Seirin, la sua conoscenza più intima era Furihata, che però non era anche un suo compagno di corso.
Si incrociavano poco al campus, ma stavano temporaneamente vivendo nello stesso appartamento: il proprietario e uno degli inquilini era un amico di Furihata, ma lì dentro vivere in tre era impossibile per questioni di spazio e Kuroko stava cercando una soluzione più rapida possibile – pensava fosse logico dover essere lui ad andar via, considerando l’amicizia fra Furihata e l’altro.
Nella stessa università c’erano anche Kise e Kasamatsu, ma per fortuna li aveva visti pochissimo, più qualcuno della Too – di questo l’aveva avvisato Aomine, blaterandogli un nome insieme a parole come "miele e limone, buona cucina" e Kuroko stava ancora cercando di interpretare tutto. E poi c’era Takao.
Col passare dei giorni era diventato sempre più difficile sfuggire a Takao, anche perché – e solo il cielo ne sapeva il motivo – sembrava avere tantissima voglia di parlare con lui.
Di solito lo braccava a mensa, gli cingeva le spalle con un braccio e lo spingeva a sedersi a un tavolo con lui, l’uno di fronte all’altro. Anche se non era da Kuroko rinunciare a qualcosa, alla fine a poco a poco aveva smesso di provare a scappargli, anche perché Takao faceva qualcosa di cui lui gli era grato: non parlava di basket.
Kuroko non sapeva dire il perché, ma il pensiero di avere accanto qualcuno che gli parlasse sempre di basket adesso l’angosciava e aveva temuto che con Takao sarebbe stato così, per questo l’aveva evitato all’inizio, e invece no, non era stato così. Gli parlava di frivolezze, spettegolava sui loro compagni di corso, si divertiva a fare rivisitazioni ironiche delle lezioni a cui avevano assistito; se alla mensa nel suo vassoio c’era qualcosa di rotondo – in genere un frutto – iniziava a giocherellarci probabilmente senza neanche accorgersene, e Kuroko sorrideva interiormente di questo particolare.
"Possiamo anche aver voluto davvero smettere di giocare a basket, ma è e rimarrà sempre il nostro stile di vita" pensava.
Takao gli aveva detto anche che desiderava insegnare ai bambini – come lui – perché aveva una sorella minore, aveva sempre quindi dovuto aver a che fare con i più piccoli e aveva scoperto di saper badare bene ai bambini e di divertirsi nel farlo, e considerando la sua estroversione e il suo essere così ironico e solare non era certo una sorpresa.
Non una sola volta Takao aveva nominato Midorima, e non gli aveva chiesto neanche di Kagami; Kuroko aveva ricambiato in modo quieto la cortesia. Non c’era molto da capire o degli strani atteggiamenti da interpretare: Midorima e Kagami non erano al loro fianco, la cosa era ben visibile, e dopo tre anni di tornei e partite amichevoli si conoscevano umanamente abbastanza bene da cogliere certi particolari. Non c’era davvero nulla da chiedere, era tutto molto chiaro anche senza conoscere i dettagli.
Una settimana di chiacchiere frivole dopo, Takao aveva visto che Kuroko teneva in mano una piccola raccolta di numeri per chiedere informazioni su degli appartamenti.
«Il mio appartamento è abbastanza grande per due e mi farebbe comodo dividere l’affitto! Che ne dici, ti va di venire da me, Tetsu-chan
Nomignolo non gradito a parte, Takao era una persona che conosceva e che quantomeno non gli avrebbe riservato sgradite sorprese come coinquilino: era già abbastanza poco confortevole trovarsi in una città sconosciuta, meglio decidere di dividere un appartamento con qualcuno di familiare.
Due giorni dopo aveva portato anche l’ultimo scatolone con le sue cose da Takao. Non scambiava alcun messaggio con Kagami già da più di una settimana.
«Tetsu-chan! Vieni a vedere come ho scritto i nostri nomi sotto il campanello!»
Il rimorso di aver taciuto sui propri sentimenti era diventato un rimpianto fastidioso ma poco pesante da sopportare, anche in modo fin troppo veloce.


Kasamatsu aveva avuto poche opportunità di veder giocare Takao – solo un anno, un paio di tornei – ma gli era bastato per poter dire che fosse un giocatore onesto e pieno di spirito sportivo e competitivo, uno che vede negli avversari dei rivali e non dei nemici da schiacciare sotto una valanga di punti, tant’è che di certo non perdeva mai l’occasione di cianciare allegramente con membri di altre squadre.
Non si era quindi sorpreso più di tanto quando un giorno a mensa l’aveva visto trascinare Kuroko al tavolo dove si trovavano lui e Kise.
A esser sinceri lui Kuroko al campus non l’aveva mai visto fino a quel momento, ma conoscendolo non l’aveva trovato strano, quello che invece aveva trovato bizzarro era che adesso quei due vivessero nello stesso appartamento. Certo, Takao era di sicuro l’unica persona al mondo in grado di poter vivere con Kuroko senza rischiare un infarto più volte al giorno – come faceva quel tipo ad avere una presenza così debole? – ma gli sembrava che nell’intera questione ci fosse un tassello mancante, o fuori posto.
Le prime volte che tutti e quattro si erano incontrati non avevano parlato di basket, ma dei propri corsi e dei lavori che facevano part time; Kasamatsu non l’aveva trovato neanche troppo strano considerando il fatto che i due avevano smesso di giocare, anzi era stato piacevole riuscire ad avere altri punti d’incontro e argomenti di cui parlare con dei vecchi rivali. Poi però c’era stato quel piccolo dettaglio che gli aveva dato da pensare.
Takao un giorno aveva proposto di incontrarsi un fine settimana per una partitella. «Niente di troppo formale e nessuna ricerca di rivincita» aveva messo le mani avanti ridendo, «solo giusto un po’ di riscaldamento insieme, perché sappiamo quanto ci piaccia giocare».
Kuroko si era subito irrigidito: non aveva replicato, né si era opposto, si era limitato a lasciarsi sommergere dall’entusiasmo immediato di Kise, ma qualcosa era stata davvero fuori posto.
Takao aveva coinvolto nella faccenda anche Furihata del Seirin e Sakurai della Too, entratati anche loro nella stessa università, e aveva dato loro le istruzioni necessarie per raggiungere un campetto di street basket che aveva trovato e che diceva fosse fichissimo.
Aveva dovuto dargli ragione quando l’aveva visto: aveva l’aria molto vissuta, ma era per metà circondato da ciliegi e si ci poteva arrivare dopo una breve scalinata di pietra irregolare; in qualche modo sapeva di vecchi ricordi d’infanzia e di viali di scuole superiori. Kasamatsu pensava non fosse un caso.
Takao aveva preso allegramente a pallonate Kuroko per un bel pezzo, per farlo entrare nello spirito, ma dopo un paio di riscaldamenti era sembrato più rilassato e coinvolto.
Avevano giocato tre contro tre con combinazioni assurde, si era ritrovato in squadra con i due del Seirin con Kise come avversario, accorgendosi che per la prima volta stava giocando insieme a Kuroko – e suoi famosi passaggi – e per giunta contro un Kise così carico di spirito competitivo. Era stato tutto completamente diverso dai tempi della scuola, molto più cazzaro – gli toccava proprio definirlo così – con un sacco di voglia di divertirsi, sfidarsi e provare cose nuove senza alcuna preoccupazione. Il basket in passato li aveva attirati e riuniti negli stessi posti – palestre scolastiche, campi da gioco, tornei – ma a distanza di tempo poteva anche unirli in modo semplice e diretto: era un passo avanti rispetto ai tempi della scuola, una maturazione, ed era bello.
Oltre a quello che erano stati alle superiori potevano essere altro, oltre al basket competitivo che avevano giocato a scuola c’era un altro tipo di basket. Era stato naturale chiedere ai ragazzi se andava loro di incontrarsi ancora un’altra volta per giocare su quel campo, così c’erano state altre partite e poi altre ancora. E le settimane erano volate e poi anche i mesi avevano cominciato a far lo stesso.
Certo, Kuroko non smetteva mai di sorprenderlo e spaventarlo, e Sakurai con il suo continuo chiedere scusa per le cose più inutili – compresa la propria esistenza – gli faceva sempre venir voglia di prenderlo a calci, però era grato davvero a quegli incontri perché mantenevano in vita lo spirito sportivo e competitivo di tutti loro col semplice amore per il basket, e non c’era cosa più facile da perdere di quello quando una passione per uno sport diventava anche un lavoro.
Davvero, non poteva lamentarsi: aveva Kise, aveva l’amore per il basket e aveva degli amici; aveva più felicità di quanto avesse sperato, nonostante fosse ancora così giovane. Era fortunato.
Quando nel gruppetto si era respirata un’atmosfera ancor più cazzara e rilassata, quando l’assenza di due nomi in particolare ormai non poteva più essere una coincidenza, si era azzardato a porre una domanda a Takao.
Aveva notato come il ragazzo si comportasse intorno a Kuroko come se fosse suo compito badare a lui o metterlo comodo – l’aveva trascinato a parlare e giocare con loro, sapeva che a casa era lui a cucinare e a fare i panni – e all’inizio aveva pensato che fosse quasi una sorta di imprinting che Midorima gli avesse lasciato – probabilmente in compagnia di qualche ernia da sforzo per colpa del risciò. Poi aveva notato che in effetti anche Kuroko si prendeva cura di Takao, ma in modo più silenzioso e meno vistoso, e aveva avuto il timore che si considerassero l’uno un buon rimpiazzo per l’altro nel senso più romantico e meno platonico della parola: sarebbe stato un disastro e nessuno dei due meritava una cosa simile.
«Come mai hai deciso di chiedere proprio a Kuroko di dividere un appartamento?» gli aveva chiesto un giorno al campetto, mentre palleggiavano vicino al canestro e lontano dagli altri. Era stato il suo spirito da senpai a spingerlo a indagare per poi magari a seguito, nella peggiore delle ipotesi, intervenire.
Takao aveva abbozzato un sorriso malinconico rivolgendo lo sguardo al canestro. «Sai, ho un debito con lui, una volta è riuscito a far crollare parecchi muri che una persona di mia conoscenza aveva costruito intorno a sé. Gliene sono sempre stato grato, penso che ora sia il mio turno di aiutarlo ad abbattere dei muri, no?» tirò e fece centro.
Kasamatsu aveva sorriso scuotendo la testa: Kuroko e Takao erano simili, giocatori della stessa specie, si capivano a vicenda e si stavano aiutando a vicenda. Non si era mai più posto domande sulla natura del loro rapporto.
Ed erano passate altre settimane.


Kasamatsu prese una lattina di birra vuota e la lanciò contro la testa di Kise. «Smettila di passargli ancora da bere, idiota!»
In parte si era pentito di essersi lasciato convincere da Kise a ospitare Takao e Kuroko a casa loro per una nottata alcoolica, ma tutto sommato i risultati non erano stati così nefasti, anzi, in un certo senso erano stati addirittura produttivi. Se si escludeva Takao ubriaco sdraiato a terra che cantava in preda a una sbronza triste.
Avevano scoperto che Takao grazie all’alcool parlava molto più del solito, non che in situazioni normale già non lo facesse, anzi, però da ubriaco parlava di sé. Kise e Kuroko erano stati compagni di squadra e si conoscevano da una vita, sapevano in modo tacito di avere lo stesso tarlo sulla scomparsa di Midorima, quindi non avevano di certo perso tempo a cogliere la situazione al volo e a passare entrambi da bere a Takao con disinvoltura.
Avevano ottenuto il risultato sperato, adesso sapevano esattamente cos’era successo dopo la partita contro Akashi, ma l’atmosfera non ne aveva di certo giovato.
Kasamatsu non era sorpreso del fatto che Midorima dopo avesse fatto in fretta i bagagli andando a studiare Medicina lontano da tutti loro – della Generazione dei Miracoli era quello di cui si aveva meno notizie su cosa stesse facendo adesso – perché in effetti per chiunque avesse saputo che aveva dato un pugno a Takao e perché, sarebbe stata una reazione normale e perfino razionale ricambiarlo con la stessa moneta.
Probabilmente Midorima stava scappando dal resto della Shutoko. E adesso anche lui, Kise e Kuroko erano sulla lista di quelli che lo rincorrevano – o almeno ce li aveva messi Kasamatsu stesso, da bravo capitano dal pugno di ferro.
Takao se ne stava sdraiato a terra vicino a Kuroko, e ogni tanto ispirato dai propri discorsi cantava a squarciagola la prima canzone che gli veniva in mente, spesso qualcosa dal testo in inglese che in quella stanza conosceva solo Kasamatsu.
A un tratto Takao abbracciò la mano di Kuroko come se fosse un peluche e lo fissò in faccia, serio. «Tetsu-chan, una volta noi due eravamo due capitani rispettabili, forse non proprio normali, ma rispettabili! Com’è che siamo finiti così?»
Kuroko abbassò lo sguardo e rispose con un sussurro appena udibile. «Hanno spento le luci».
Prima che Kasamatsu potesse intervenire per alleggerire l’atmosfera – magari con un calcio – Takao ripropose la propria abilità canora da ubriaco.
«Eravamo due gran capitani, però! Capitani…» e poi intonò «I will go down with this SHIT!»
Kasamatsu inarcò un sopracciglio. «Credo che il testo originale dicesse SHIP».
«And I won't put my hands up and surrender!»
Preferì non commentarlo ulteriormente e rivolgersi a Kuroko. «Aiutami a prendere dei futon che abbiamo di là, per questa notte è meglio che restiate a dormire a casa nostra».
«Grazie, senpai».
«Kise, tu non dargli ancora da bere! SUL SERIO!»
Andarono a recuperare i futon col sottofondo del borbottio scornato di Kise.
Quando furono nell’altra stanza, Kasamatsu decise di chiedere un parere a Kuroko, perché sapeva che per quanto Kise conoscesse Midorima quanto Kuroko, quest’ultimo aveva una mente più fredda quando si trattava di commentare un comportamento di uno dei vecchi compagni di squadra.
La risposta fu molto eloquente. «Non lo so».
Kasamatsu lo fissò perplesso e un filo irritato.
Kuroko si corresse. «Lo so che non è normale dare un pugno dopo una dichiarazione, senza aggiungere qualcosa né prima né dopo, ma un atteggiamento simile non è neanche da Midorima: prima di giudicarlo mi piacerebbe sapere cosa gli è passato di preciso per la testa in quel momento».
Lui sbuffò seccato passandogli un futon. «Takao ha detto che forse ha scelto l’attimo sbagliato per farlo, che non ha aiutato il fatto che fossero appena stati sconfitti da Akashi… Almeno tu potresti spiegarmi com’è che qualsiasi cosa fate tu, Kise e gli altri tre c’entri sempre lui?! Kise non ha mai saputo darmi una spiegazione decente! Perché quando si tratta di qualcosa di strano o in qualche modo traumatico spunta sempre il suo nome?!»
«… non lo so».
Stavolta Kasamatsu s’irritò davvero, divenne sarcastico. «Davvero?!»
«La relazione che abbiamo con lui è… complicata».
«E per quale motivo la considerate sacra? Certe volte Akashi mi sembra addirittura innominabile come una sorta di dio punitore onnipotente! È ridicolo!»
Kuroko era impassibile, ma non era una novità. «Ha l’Occhio Imperatore».
«Non è una scusa e comunque è ridicolo lo stesso! Per me può avere anche tutto il resto della faccia da imperatore, ma questo non vuol dire che si possa permettere di convocare o dare ordini a caso ai giocatori di altre squadre durante dei tornei, come ha fatto più di una volta!» concluse furioso stendendo con fare sentenzioso un dito davanti alla faccia di Kuroko. Lui era un capitano, un senpai, come si permetteva un moccioso di richiamare a sé un giocatore della sua squadra?
Kuroko gli abbassò la mano con la propria, calmo. «Senpai, penso sia meglio che tu discuta questi dettagli direttamente con Kise-kun».
Inspirò a fondo per calmarsi e si voltò a prendere un altro futon ripiegato. «Come se non l’avessi già fatto più di una volta. Sai, Kuroko» continuò con tono più quieto e malinconico, «c’è una cosa che tu, Kise, Midorima e gli altri della Generazione dei Miracoli dovreste capire: starvi accanto non è facile».
Kuroko incassò il colpo restando in silenzio, lui continuò.
«Siete tutti arrivati alle scuole superiori con un carattere niente male e con dei pessimi propositi» gli rivolse un’occhiata, «no, non escludo neanche te! Non so quanto l’ambiente della Teiko abbia contribuito in modo sostanziale a ciò, ma indubbiamente eravate troppo consapevoli delle vostre capacità e il fatto che tutti vi additassero come "leggende" non ha aiutato di certo» sospirò asciutto. «Hai idea di quanto sia stato difficile per noi "comuni mortali" accettare di mandare in panchina dei senpai per farvi scendere in campo? O capirvi, farvi integrare in qualche modo alla squadra e mettervi nella zucca che la festa era finita ed era giunto il tempo di non agire da soli e smetterla di sentirsi imbattibili? È stato pesante».
«Però» aggiunse dopo una breve pausa, «alle volte le cose pesanti da fare, una volta terminate, mancano. Credo che quando succede vuol dire che in fondo durante il percorso c’è stato qualcosa di buono. Penso che Midorima a Takao manchi molto; io sono stato terrorizzato di quanto Kise potesse mancarmi». Vide Kuroko abbozzare un sorriso. «Ma non c’è bisogno che Kise lo sappia» aggiunse mortalmente serio.
«Capito».
«Non è facile starvi accanto» ribadì, «la vostra presenza è talmente ingombrante e forte che è impossibile poi non subirne le conseguenze, in qualsiasi senso: sia che ci sia stata solo un’intensa collaborazione fra compagni di squadra, sia che ci sia stata anche una cotta, alla fine è difficile fare i conti con la vostra assenza».
«Sto cercando di aiutare Takao» gli rispose Kuroko fiducioso.
«Lo so» sospirò con un sorrisetto. «E tu quanto aiuto hai bisogno a tua volta per fare i conti con un’altra assenza simile?» lo stuzzicò cauto con un velo d’ironia.
Kuroko non mostrò imbarazzo, e in effetti sarebbe stato inutile. «Io e Takao ce la stiamo cavando».
«Lo spero bene» sbuffò. «E ora andiamo di là prima che Kise faccia una piramide di lattine sullo stomaco di Takao». Udirono un allegro canto.
«All by myseeeelf, don’t wanna be, all by myseeeeelf, ANYMOOOOORE!»
Kasamatsu restò disgustato. «O prima che Takao dopo Dido e Celine Dion passi a Mariah Carey».


Erano passati otto mesi dalla partenza di Kagami per Los Angeles, Kuroko se ne rese conto quando un giorno in video chat Aomine disse per puro caso da quanto tempo si trovava lì – lui e Kagami avevano lasciato il Giappone a distanza di pochi giorni.
Non restò molto toccato da come non ci pensasse più, pensò che fosse un segno di quanto avesse accettato di avere per sempre quel rimpianto – fastidioso e persistente, ma non molto pesante o invasivo, proprio come un vecchio amico che pecca sempre di inopportunità.
Takao sembrava stare davvero meglio, vivere con lui era piacevole e tutto sommato tranquillo; Kasamatsu era una brava persona e il modo in cui spesso senza neanche rendersene conto si ergeva a capitano e senpai con loro non disturbava Kuroko, anzi. Kise sembrava aver trovato la propria dimensione, Kuroko era abbastanza felice per lui. Furihata e Sakurai li vedeva quasi solo per le loro partitelle, questo gli dispiaceva perché erano due brave persone e per questo s’impegnava a divertirsi sul serio quando poteva giocare con loro.
Era un periodo nuovo ma sereno della sua vita, non poteva chiedere altro, davvero.
Era all’università, la lezione era appena finita.
Takao, seduto al suo fianco, rimise la propria agenda nella tracolla. «Andiamo a bere qualcosa?» gli propose.
«Sì» gli rispose distratto controllando se avesse ricevuto un messaggio al cellulare; Kise aveva avuto dei piccoli fastidi alla vista, gli aveva confessato che negli ultimi anni non erano stati una rarità, ma ora si erano riproposti in modo più frequente.
Kuroko aveva avuto un flash – l’immagine di Alex, l’insegnante di Kagami – l’aveva subito classificato come un brutto quanto inutile presentimento, ma ciononostante aveva spinto l’amico a farsi controllare da un medico. Quella mattina Kise era andato presso un centro specialistico suggeritogli da Akashi; Kuroko sospettava che il loro vecchio capitano delle medie avesse saputo che tale Kise Ryota, famosissimo giocatore di basket e modello, aveva inoltrato una richiesta di visita oculistica presso una delle tante strutture finanziate dalla sua ricchissima famiglia, e di conseguenza non aveva perso tempo a contattarlo personalmente per guidarlo verso un medico migliore e fidato.
Kuroko pensava che Akashi avesse anche troppi contatti in giro per il Giappone, Takao invece credeva che piuttosto avesse fin troppe microspie piazzate nei loro appartamenti e si chiedeva in che modo losco fosse riuscito a metterle.
Restava il fatto che grazie a lui Kise aveva avuto subito il meglio e in quel momento Kuroko aspettava il responso della visita; era strano che Kise ancora non si facesse sentire.
Tirò un sospiro di sollievo quando vide di avere un messaggio in segreteria; portò il cellulare all’orecchio incamminandosi per il corridoio, lasciando che Takao lo precedesse.
«Kurokocchi, sono uscito dallo studio medico una ventina di minuti fa, mi hanno fatto più di un controllo per essere certi, ma…» C’era qualcosa che non andava, la voce di Kise era troppo seria e un po’ amara, tremava. «Non so a chi dirlo per prima, perché… non so nemmeno se io avrei mai voluto saperlo e… avevo detto a Yukio che non c’era bisogno che mi accompagnasse e credo di aver fatto bene, perché no-non penso che… che… Mi hanno detto che non potrò più giocare. Per favore, potresti venire a prendermi a lezione finita? Grazie».
Le ultime frasi erano state dette velocemente, ma non per questo il loro significato aveva scosso meno Kuroko. Gli sembrava assurdo, era un po’ come se il mondo si fosse capovolto; si accorse di essere rimasto fermo e pietrificato al centro del corridoio solo quando Takao lo scosse preoccupato.
«Ehi, Tetsu-chan! Che succede?»
«Devo raggiungere Kise-kun» mormorò; Takao gli rivolse un’occhiata interrogativa e non sembrò meno in ansia di prima. «Non ci sono buone notizie» specificò, tuttavia lasciandogli intendere con lo sguardo che il resto gliel’avrebbe detto dopo.
Takao lo lasciò andare, lui si avviò all’uscita senza vedere bene dove metteva i piedi.
Sembrava tutto irreale, riusciva solo a pensare che Kise non se lo meritava. E che non sarebbe stato facile affrontare tutto ciò, per niente.






Note:per i lavori/percorsi alternativi intrapresi dai ragazzi della Generazione dei Miracoli che hanno lasciato il basket mi sono rifatta alle informazioni tradotte dalla Characters Bible trovate in rete, escluso per Akashi, che in teoria senza basket sarebbe diventato un giocatore professionista di shogi :) Anche l’hobby della chitarra di Kasamatsu viene da lì.
La parte di dialogo in corsivo su quanto (non) parlino Kuroko e Kagami è ripresa dal capitolo 53.
La prima canzone cantata da Takao ubriaco è White Flag di Dido, la seconda All by myself di Celine Dion :)

   
 
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