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Autore: keepcalm    02/06/2013    0 recensioni
Questo è un ricordo che ho sempre custodito con gelosia, con cura, perché esprime una parte di me un po'troppo...romantica, ed io non lo sono poi così spesso. Comunque sia è uno dei ricordi più belli che abbia ed ho sentito il bisogno di raccontarlo anche per chi, come me, si recrimina di credere un po' troppo nella verità dei libri e di perdere per questo il contatto con la realtà. Non è niente di che ma spero che non vi annoierete leggendolo. Buona lettura!
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ricordo che una volta, tanto tempo fa, ero al mare, il mio mare.

Ero sotto all’ombrellone, seduta sulla sdraio,  e mi annoiavo, o forse ero più arrabbiata che annoiata proprio perché non avevo niente da fare. Mi ricordo che, nella mia mente, urlavo: mandavo a fanculo tutti, ma proprio tutti, perché non avevano alcuna intenzione di degnarmi della benché minima attenzione ed io ero costretta ad annoiarmi. Quante volte ho ucciso il mondo intero con quello che mi passava per la testa ma, maggiormente, quante volte ho distrutto il mio futuro, definendomi un’illusa perché credevo, fermamente ma segretamente, in un qualcosa di cui non avevo mai avuto prova. E quindi ero lì, ad essere arrabbiata ad occhio e croce con tutti e a darmi dell’idiota, quando li vidi. 

Mi girai di scatto, schifata dai miei pensieri, e mi colpì la scena che, ne sono certa, mi accompagnerà finché vivrò:  erano indubitabilmente sugli ottant’anni e se ne stavano sotto all’ombrellone con una serenità dovuta sia alla compostezza mentale che all’impedimento fisico. Lui era seduto su una sedia di quelle pieghevoli e guardava all’orizzonte, quasi vedesse una verità ai più sconosciuta, e lei armeggiava con il contenuto di una borsa da mare. Ad un certo punto, ne estrasse un comunissimo tubetto di crema solare e, con una calma senza tempo, iniziò a spalmarla sulle spalle di lui. Non lo faceva con quella frettolosa distrazione che avevo visto fare a qualunque altra coppia nella mia breve vita, frizionando con energia affinché la crema si assorba il prima possibile e si possa ritornare a fare qualcos’altro, sicuramente molto più esaltante, no: lei lo faceva piano piano, godendosi la dolcezza di quel gesto. E lui, lo vedevo bene, non era rimasto indifferente a quel tocco: anche se prima osservava rapito l’orizzonte, perso nei suoi pensieri, aveva fatto caso a quella sua premura, oh sì: le sue labbra si piegarono in un tenero sorriso e i suoi occhi non erano più cupi, troppo concentrati su un qualcosa che non riusciva a comprendere, ma si rischiararono e divennero sereni, come se ora avesse carpito quel fastidioso eppure affascinante mistero; oppure si era solo fermato davanti alla sua incomprensibilità e non aveva più voglia di capire. Beh, nonostante la già notevole particolarità di queste anime, non furono solo i loro sguardi e la loro lentezza a colpirmi; infondo, avrebbero potuto benissimo essere sintomo di stanchezza nel fisico piuttosto che dolcezza di cuore.
Ebbene lei finì di fare il suo lavoro e fece il giro della sedia: apparentemente si stava staccando da lui per posare il tubetto di crema solare ma io, avendo avuto l’incommensurabile fortuna di essere in prima fila, vidi la realtà dei fatti. Lei non  tolse la mano dalla spalla di lui mentre faceva il giro della sedia, e lui sicuramente non lo voleva: mentre lei camminava, lui si sincerava che quella mano non se ne andasse, che stesse ancora appollaiata sulla sua spalla, coprendola con la sua. Lei allora, sorpresa ma non troppo da quel gesto, ritornò sui suoi passi e, invece che andare a posare la crema, gli si piazzò davanti: solo allora lui distolse lo sguardo dal suo enigmatico orizzonte  e lo inchiodò dritto in quello di lei. E a quel punto, beh, a quel punto il mondo poteva anche implodere, l’umanità estinguersi nel giro di un secondo, il mare esplodere in tutta la sua potenziale furia e generare uno tsunami, un vortice, o venire Dio in persona su questo sciagurato pianeta e cancellare il suo più grande misfatto: loro si stavano guardando. 
Si guardavano, e il sole in quel momento mi parve più luminoso, il mare più azzurro e tutto sembrò andare al posto giusto: loro si guardavano, lui le sorrideva come se fosse un miracolo, con una tenerezza in quelle labbra piegate ma leggermente tremanti( e credetemi, non era il Parkinson) che sapeva di infinito, che rimandava ad una vita spesa a fianco di quella donna, che sicuramente si sarà fatta odiare quando gli urlava di essere una persona disordinata perché lasciava la sua biancheria un po’ ovunque e gli ricordava, con quel tono iroso, che lei non era la sua schiava. Quella benedetta donna che prima diceva una cosa e poi affermava l’esatto opposto, nel giro di un secondo, e che cercava di fargli perdere il lume della ragione con quest’atteggiamento. Quella donna che aveva la capacità di sorprendersi e di sorprenderlo ancora, dopo tanti anni e tante lune. Quella donna che, chissà come, era ancora lì, non ad accudirlo per abitudine ma a prendersi cura di lui perché, dopo tutti quegli anni, non si era ancora stancata di lui e di quel suo caratteraccio. Avevano costruito un mondo insieme, una vita di ricordi, così profumati, così dolci, che le labbra devono per forza tremare e gli occhi sorridere. 
Perché i miracoli, sì, quelli esistono, e lei era il suo, perché ancora oggi, proprio come faceva quando aveva quindici anni, lei era insicura, temeva di essere di troppo e non voleva disturbare; credeva che lei non fosse abbastanza per lui e quindi, quando aveva finito di spalmargli la crema, aveva esitato con la mano, desiderando prolungare il contatto ma non osando prendere l’iniziativa. E gli anni, invece che guarirla da questa paura, farla sorridere e poi farla cedere alla noia, svanita ampiamente la novità di quella sensazione, l’avevano ripiegata ancora di più sulle sue insicurezze di bambina, credendo che fosse lui ad essersi annoiato di lei. Allora lui, come la prima volta, tante vite addietro, si sorprese di quella immutata e cieca devozione e la giudò ad uscire dal buio delle sue incertezze: la prese saldamente per mano e la condusse davanti a lui, spingendola a guardarlo negli occhi e non nascondendosi dietro la sua schiena. Non doveva esserci paura o timore perché lui non le avrebbe mai permesso di andare via, non le avrebbe mai permesso di essere schiacciata dal peso di quelle assurde insicurezze. 
E sorridevano, si sorridevano come non ho mai più visto fare, neanche ad una coppia di novelli sposi o di neoinnamorati, e forse il perché è molto più ovvio di quello che sembri: non c’era l’ardore della gioventù a guidare i loro gesti ma la semplice quanto inestimabile consapevolezza che quello che avevano non era un fuoco, estinguibile con il tempo o con una secchiata d’acqua gelida, che molte volte ed inaspettatamente, la realtà ti assesta con una destrezza da tale da uccidere qualsiasi incendio sia divampato. Non avevano alcun dubbio, alcuna fretta: sapevano che erano lì e non avrebbero voluto essere altrove, sapevano che potevano morire da un momento all’altro, ma il primo che fosse andato via sarebbe immancabilmente stato seguito a ruota dall’altro. Sapevano che avevano visto tante di quelle cose, tanti di quei mondi, ma che non avevano ancora perso la voglia di scoprire quello che si celava dietro alla risposta un po’ scorbutica dell’uno o alla lacrima che solcava la guancia dell’altra. Sapevano che avevano vissuto così tante vite, tutte in una sola, tutte in ogni singolo attimo del loro tempo insieme, che la morte non era che una ridicola guastafeste che credeva di fare loro uno sgarbo, togliendo loro la possibilità di assaporarsi ancora, ma non sapeva che il loro non sarebbe stato un vero addio; e no, non certo perché esista un qualche Dio. Sapevano che la morte, beh, non era che un’altra frontiera che non avevano ancora esplorato e che non vedevano l’ora di farlo: loro, in realtà non sarebbero mai potuti morire, perché erano pura e semplice eternità. 
Ma maggiormente, sapevano che non erano soli.
Non c’era nessun tarlo fastidioso che rode il cervello di tutti gli innamorati e che porta loro a chiedersi se sono ricambiati non solo nei sentimenti ma anche nella loro intensità: loro sapevano  che si erano voluti ogni giorno della loro vita, che quel loro desiderio, sempre immancabilmente in pendenza, aveva fatto venire loro dei muscoli fortissimi alla gambe, risultato di tutte quelle volte in cui temevano di cedere e poi il desiderio ha fatto stringere loro i denti ed andare avanti, perché sapevano che l’uno reggeva la mano all’altra e l’altra era lì per sorreggerlo se mai avesse messo un piede in fallo. Ma di cadere non se ne parlava proprio, perché (loro sapevano anche questo) se avessero inciampato e l’altro non fosse riuscito a tenerlo su, non sarebbero precipitati, ma avrebbero solamente preso il volo; e l’altro l’avrebbe seguito, credetemi. E quindi sì, loro a volte, per gioco, si sono lasciati cadere, perché il desiderio è anche questo: perdizione. Però hanno avuto anche la giusta dose di coraggio per capire che non si può stare troppo sospesi, che poi ad un certo punto vengono le vertigini e si rischia di precipitare, oppure si vola troppo vicino al sole e ci si bruciano le ali, proprio come ha fatto Icaro; e nessuno dei due voleva essere Dedalo e piangere la propria perdita. Hanno saputo quando fermarsi perché sapevano che, per quanto esaltante fosse, il volare non è nella natura umana e quindi avrebbero finito per uccidersi. 
Loro sapevano: ed è tutto quello che il resto del mondo non è mai riuscito ad avere. 
E quindi io, spettatrice inconsapevole di un dramma mai andato in scena, mi sentii come se mi fossi ritrovata a spiare due ragazzi che facevano l’amore, come se fossi entrata, con la delicatezza di un elefante, in una stanzetta appartata in cui un uomo innamorato stava per fare la sua proposta alla sua donna, come se avessi letto per sbaglio il diario di mia madre. Sentii che stavo violando l’intimità più sacra, che meritavo di essere punita per questa mia blasfemia ma non potevo staccare gli occhi da quella scena: erano così infiniti, così immortali. 
Mi capita di sentirmi così quando osservo la luna, il mare, o un paesaggio immenso: essere lì e non riuscire a carpire tutta quella bellezza, e rendermi conto di quanto sono piccola, infima, ignorante e limitata perché mi servirebbero altre centinaia di migliaia di occhi per riuscire a dare giustizia a quel piccolo, grande miracolo. 
E furono quello: come avrei potuto vivere come avevo fatto fino ad ora dopo aver visto loro due? Un attimo prima di vederli mi ero data dell’illusa, dell’idiota, perché, come recriminavano in tanti, vivevo nel mio universo fatto di libri e storia, dove tutto va come deve andare, dove la delusione non è compresa la maggior parte delle volte e, se mai la si dovesse incontrare, non è certo la fine del mondo: basta cominciare un altro libro. Ma la vita non la puoi cambiare, o forse sì, ma non è così semplice: quasi sempre non ti scoprirai coraggioso abbastanza per mettere il punto ad un manoscritto ed iniziare a scriverne uno completamente diverso. E allora io mi sentivo una stupida, la più elevata specie di cretina che si era rovinata la vita con le proprie mani, credendo che almeno un quarto di quello che leggeva nei suoi amati libri potesse essere vero, che non ero razionale abbastanza da discernere la realtà da una colorata menzogna. Ma poi li ho visti ed ho creduto di star leggendo il più emozionante dei libri, la più esaltante delle storie; e non mi sono più data della stupida. 
Ho visto due vecchietti che si accarezzavano e si sorridevano teneramente, guardandosi dritto negli occhi ed ho avuto la certezza che il resto della mia vita cominciasse proprio in quel preciso istante.

  
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