Ricordo che una volta, tanto tempo fa, ero al mare, il mio mare.
Ero sotto all’ombrellone, seduta sulla sdraio, e mi annoiavo, o forse ero più arrabbiata che annoiata proprio perché non avevo niente da fare. Mi ricordo che, nella mia mente, urlavo: mandavo a fanculo tutti, ma proprio tutti, perché non avevano alcuna intenzione di degnarmi della benché minima attenzione ed io ero costretta ad annoiarmi. Quante volte ho ucciso il mondo intero con quello che mi passava per la testa ma, maggiormente, quante volte ho distrutto il mio futuro, definendomi un’illusa perché credevo, fermamente ma segretamente, in un qualcosa di cui non avevo mai avuto prova. E quindi ero lì, ad essere arrabbiata ad occhio e croce con tutti e a darmi dell’idiota, quando li vidi.
Mi girai di
scatto, schifata dai miei pensieri, e mi colpì la scena che,
ne sono certa, mi
accompagnerà finché vivrò: erano
indubitabilmente sugli ottant’anni e se ne stavano sotto
all’ombrellone con una
serenità dovuta sia alla compostezza mentale che
all’impedimento fisico. Lui era
seduto su una sedia di quelle pieghevoli e guardava
all’orizzonte, quasi
vedesse una verità ai più sconosciuta, e lei
armeggiava con il contenuto di una
borsa da mare. Ad un certo punto, ne estrasse un comunissimo tubetto di
crema
solare e, con una calma senza tempo, iniziò a spalmarla
sulle spalle di lui. Non
lo faceva con quella frettolosa distrazione che avevo visto fare a
qualunque
altra coppia nella mia breve vita, frizionando con energia
affinché la crema si
assorba il prima possibile e si possa ritornare a fare
qualcos’altro, sicuramente
molto più esaltante, no: lei lo faceva piano piano,
godendosi la dolcezza di
quel gesto. E lui, lo vedevo bene, non era rimasto indifferente a quel
tocco:
anche se prima osservava rapito l’orizzonte, perso nei suoi
pensieri, aveva
fatto caso a quella sua premura, oh sì: le sue labbra si
piegarono in un tenero
sorriso e i suoi occhi non erano più cupi, troppo
concentrati su un qualcosa
che non riusciva a comprendere, ma si rischiararono e divennero sereni,
come se
ora avesse carpito quel fastidioso eppure affascinante mistero; oppure
si era
solo fermato davanti alla sua incomprensibilità e non aveva
più voglia di
capire. Beh, nonostante la già notevole
particolarità di queste anime, non
furono solo i loro sguardi e la loro lentezza a colpirmi; infondo,
avrebbero
potuto benissimo essere sintomo di stanchezza nel fisico piuttosto che
dolcezza
di cuore.
Ebbene lei finì di fare il suo lavoro e fece il giro della
sedia:
apparentemente si stava staccando da lui per posare il tubetto di crema
solare
ma io, avendo avuto l’incommensurabile fortuna di essere in
prima fila, vidi la
realtà dei fatti. Lei non
tolse la mano
dalla spalla di lui mentre faceva il giro della sedia, e lui
sicuramente non lo
voleva: mentre lei camminava, lui si sincerava che quella mano non se
ne
andasse, che stesse ancora appollaiata sulla sua spalla, coprendola con
la sua.
Lei allora, sorpresa ma non troppo da quel gesto, ritornò
sui suoi passi e,
invece che andare a posare la crema, gli si piazzò davanti:
solo allora lui
distolse lo sguardo dal suo enigmatico orizzonte e
lo inchiodò dritto in quello di lei. E a
quel punto, beh, a quel punto il mondo poteva anche implodere,
l’umanità
estinguersi nel giro di un secondo, il mare esplodere in tutta la sua
potenziale
furia e generare uno tsunami, un vortice, o venire Dio in persona su
questo
sciagurato pianeta e cancellare il suo più grande misfatto:
loro si stavano
guardando.
Si guardavano, e il sole in quel momento mi parve più
luminoso, il
mare più azzurro e tutto sembrò andare al posto
giusto: loro si guardavano, lui
le sorrideva come se fosse un miracolo, con una tenerezza in quelle
labbra
piegate ma leggermente tremanti( e credetemi, non era il Parkinson) che
sapeva
di infinito, che rimandava ad una vita spesa a fianco di quella donna,
che
sicuramente si sarà fatta odiare quando gli urlava di essere
una persona
disordinata perché lasciava la sua biancheria un
po’ ovunque e gli ricordava,
con quel tono iroso, che lei non era la sua schiava. Quella benedetta
donna che
prima diceva una cosa e poi affermava l’esatto opposto, nel
giro di un secondo,
e che cercava di fargli perdere il lume della ragione con
quest’atteggiamento. Quella
donna che aveva la capacità di sorprendersi e di
sorprenderlo ancora, dopo
tanti anni e tante lune. Quella donna che, chissà come, era
ancora lì, non ad
accudirlo per abitudine ma a prendersi cura di lui perché,
dopo tutti quegli anni,
non si era ancora stancata di lui e di quel suo caratteraccio. Avevano
costruito
un mondo insieme, una vita di ricordi, così profumati,
così dolci, che le
labbra devono per forza tremare e gli occhi sorridere.
Perché i miracoli, sì,
quelli esistono, e lei era il suo, perché ancora oggi,
proprio come faceva
quando aveva quindici anni, lei era insicura, temeva di essere di
troppo e non
voleva disturbare; credeva che lei non fosse abbastanza per lui e
quindi,
quando aveva finito di spalmargli la crema, aveva esitato con la mano,
desiderando prolungare il contatto ma non osando prendere
l’iniziativa. E gli
anni, invece che guarirla da questa paura, farla sorridere e poi farla
cedere
alla noia, svanita ampiamente la novità di quella
sensazione, l’avevano
ripiegata ancora di più sulle sue insicurezze di bambina,
credendo che fosse
lui ad essersi annoiato di lei. Allora lui, come la prima volta, tante
vite
addietro, si sorprese di quella immutata e cieca devozione e la
giudò ad uscire
dal buio delle sue incertezze: la prese saldamente per mano e la
condusse
davanti a lui, spingendola a guardarlo negli occhi e non nascondendosi
dietro
la sua schiena. Non doveva esserci paura o timore perché lui
non le avrebbe mai
permesso di andare via, non le avrebbe mai permesso di essere
schiacciata dal
peso di quelle assurde insicurezze.
E sorridevano, si sorridevano come non ho
mai più visto fare, neanche ad una coppia di novelli sposi o
di neoinnamorati,
e forse il perché è molto più ovvio di
quello che sembri: non c’era l’ardore
della gioventù a guidare i loro gesti ma la semplice quanto
inestimabile
consapevolezza che quello che avevano non era un fuoco, estinguibile
con il
tempo o con una secchiata d’acqua gelida, che molte volte ed
inaspettatamente,
la realtà ti assesta con una destrezza da tale da uccidere
qualsiasi incendio
sia divampato. Non avevano alcun dubbio, alcuna fretta: sapevano che
erano lì e
non avrebbero voluto essere altrove, sapevano che potevano morire da un
momento
all’altro, ma il primo che fosse andato via sarebbe
immancabilmente stato
seguito a ruota dall’altro. Sapevano che avevano visto tante
di quelle cose,
tanti di quei mondi, ma che non avevano ancora perso la voglia di
scoprire quello
che si celava dietro alla risposta un po’ scorbutica
dell’uno o alla lacrima
che solcava la guancia dell’altra. Sapevano che avevano
vissuto così tante
vite, tutte in una sola, tutte in ogni singolo attimo del loro tempo
insieme,
che la morte non era che una ridicola guastafeste che credeva di fare
loro uno
sgarbo, togliendo loro la possibilità di assaporarsi ancora,
ma non sapeva che
il loro non sarebbe stato un vero addio; e no, non certo
perché esista un qualche
Dio. Sapevano che la morte, beh, non era che un’altra
frontiera che non avevano
ancora esplorato e che non vedevano l’ora di farlo: loro, in
realtà non
sarebbero mai potuti morire, perché erano pura e semplice
eternità.
Ma maggiormente,
sapevano che non erano soli.
Non c’era nessun tarlo fastidioso che rode il
cervello di tutti gli innamorati e che porta loro a chiedersi se sono
ricambiati non solo nei sentimenti ma anche nella loro
intensità: loro sapevano
che si erano voluti
ogni giorno della
loro vita, che quel loro desiderio, sempre immancabilmente in pendenza,
aveva
fatto venire loro dei muscoli fortissimi alla gambe, risultato di tutte
quelle
volte in cui temevano di cedere e poi il desiderio ha fatto stringere
loro i
denti ed andare avanti, perché sapevano che l’uno
reggeva la mano all’altra e l’altra
era lì per sorreggerlo se mai avesse messo un piede in
fallo. Ma di cadere non
se ne parlava proprio, perché (loro sapevano anche questo)
se avessero
inciampato e l’altro non fosse riuscito a tenerlo su, non
sarebbero
precipitati, ma avrebbero solamente preso il volo; e l’altro
l’avrebbe seguito,
credetemi. E quindi sì, loro a volte, per gioco, si sono
lasciati cadere, perché
il desiderio è anche questo: perdizione. Però
hanno avuto anche la giusta dose
di coraggio per capire che non si può stare troppo sospesi,
che poi ad un certo
punto vengono le vertigini e si rischia di precipitare, oppure si vola
troppo
vicino al sole e ci si bruciano le ali, proprio come ha fatto Icaro; e
nessuno
dei due voleva essere Dedalo e piangere la propria perdita. Hanno
saputo quando
fermarsi perché sapevano che, per quanto esaltante fosse, il
volare non è nella
natura umana e quindi avrebbero finito per uccidersi.
Loro sapevano: ed è tutto
quello che il resto del mondo non è mai riuscito ad
avere.
E quindi io,
spettatrice inconsapevole di un dramma mai andato in scena, mi sentii
come se
mi fossi ritrovata a spiare due ragazzi che facevano l’amore,
come se fossi
entrata, con la delicatezza di un elefante, in una stanzetta appartata
in cui
un uomo innamorato stava per fare la sua proposta alla sua donna, come
se
avessi letto per sbaglio il diario di mia madre. Sentii che stavo
violando l’intimità
più sacra, che meritavo di essere punita per questa mia
blasfemia ma non potevo
staccare gli occhi da quella scena: erano così infiniti,
così immortali.
Mi capita
di sentirmi così quando osservo la luna, il mare, o un
paesaggio immenso:
essere lì e non riuscire a carpire tutta quella bellezza, e
rendermi conto di
quanto sono piccola, infima, ignorante e limitata perché mi
servirebbero altre
centinaia di migliaia di occhi per riuscire a dare giustizia a quel
piccolo,
grande miracolo.
E furono quello: come avrei potuto vivere come avevo fatto
fino ad ora dopo aver visto loro due? Un attimo prima di vederli mi ero
data
dell’illusa, dell’idiota, perché, come
recriminavano in tanti, vivevo nel mio
universo fatto di libri e storia, dove tutto va come deve andare, dove
la
delusione non è compresa la maggior parte delle volte e, se
mai la si dovesse
incontrare, non è certo la fine del mondo: basta cominciare
un altro libro. Ma la
vita non la puoi cambiare, o forse sì, ma non è
così semplice: quasi sempre non
ti scoprirai coraggioso abbastanza per mettere il punto ad un
manoscritto ed
iniziare a scriverne uno completamente diverso. E allora io mi sentivo
una
stupida, la più elevata specie di cretina che si era
rovinata la vita con le
proprie mani, credendo che almeno un quarto di quello che leggeva nei
suoi
amati libri potesse essere vero, che non ero razionale abbastanza da
discernere
la realtà da una colorata menzogna. Ma poi li ho visti ed ho
creduto di star
leggendo il più emozionante dei libri, la più
esaltante delle storie; e non mi
sono più data della stupida.
Ho visto due vecchietti che si accarezzavano e si
sorridevano teneramente, guardandosi dritto negli occhi ed ho avuto la
certezza
che il resto della mia vita cominciasse proprio in quel preciso istante.