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Autore: moonwhisper    20/12/2007    5 recensioni
Nessuna scelta ora, è troppo tardi.
Lascialo andare, ci ha rinunciato...portami via.
La vita sembra irreale. Abbassando lo sguardo a volte ci si sente meglio...
Il mondo è spacciato ma a me non interessa perché...io sono con te.
La prima volta, è successo troppo velocemente.
La seconda volta, ho pensato che sarebbe durato.
Siamo tutti così in modo un po' diverso...
Soli...Insieme
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il suo respiro si condensò in una nuvoletta opaca.
Faceva freddo. Faceva freddo e si sarebbe beccata una polmonite se fosse rimasta lassù ancora un po’.
Guardò ancora una volta quel cellulare.
Cosa doveva fare? Chiamarla, non chiamarla…?
No, non ci riusciva. Bloccò per la dodicesima volta la tastiera e infilò per la dodicesima volta quel maledetto coso nella tasca destra dei jeans.
Chissà cosa stava facendo sua madre in quel momento…forse era meglio non pensarci. Altrimenti la voglia di tornare a casa l’avrebbe di nuovo assalita. E lei non poteva tornare, non ancora.
Fissò lo sguardo sulla città illuminata.
Le luci notturne creavano un magico alone aranciato su Monaco. Da quel terrazzo vedeva la vita notturna, colorata, scorrere sotto di lei.
Ma Laura era persa in altri pensieri.
Si appoggiò piano al cornicione.
Quell’ultima settimana era passata troppo in fretta, e troppe cose erano successe.
Aveva organizzato quel viaggio con la sua migliore ed unica amica, Monica, da tanto tempo. Tutto era pronto, definito nei minimi particolari. Ma pochi giorni prima della partenza si era capovolto tutto, tutto. Sgretolato.
Chiuse gli occhi. Ripercorse per l’ennesima volta tutto quello che l’aveva portata fin li, per cercare di trovare una risposta, una soluzione.

*Flashback*
E’ mercoledì sera.
Lei e Monica stanno tornando da un pomeriggio a casa dell’amica, dove hanno passato il tempo a controllare tutto il programma del viaggio e a fantasticare.
Camminano sul marciapiede, sotto i lampioni accesi, chiacchierando, interrotte solo dallo sfrecciare di qualche macchina nel vialetto.
-Cacchio Laura ma ci pensi? La prossima settimana, a quest’ora, saremo a Monaco, nel nostro Hotel da straricchi…-
-Pagato e spesato dal tuo amorevole papi- aggiunge lei sorridendo.
Moni fa finta di arrabbiarsi.
-Che faccia qualcosa anche lui una volta tanto! Sono 18 anni che non mi caga di striscio, adesso che gli è tornata la voglia di fare il padre lasciamo che si sbizzarrisca!- risponde infilando il mento nella sciarpa.
Laura le sorride. Ha ragione, eccome. Sa cosa vuol dire avere un padre che se ne frega di te.
-Sarà fichissimo Moni- dice trasognante. Un po’ perché non riesce ancora a crederci, un po’ perché era sempre meglio cambiare discorso quando spuntavano fuori i padri.
-Già, saranno due settimane unicamente per noi, Monaco, e i negozi. Non vedo l’ora di dilapidareee!!!-
La guarda, le treccine bionde che le escono dal cappello di lana, il naso all’insù e quei suoi due occhi azzurri sgranati sul mondo. La sua vera ed unica amica. Ride, e Moni la segue, euforica.
Arrivano davanti al cancello di casa sua, le dita gelate nascoste nelle tasche.
-Ci vediamo domani mattina allora- dice la Moni.
-Si ok, prima di passare fammi uno squillo per avvisare che stai arrivando- risponde lei.
I soliti tre baci sulle guance.
-va bene tesorooo- esclama Monica –a domani, e salutami tua mamma!!! Dalle la buonanotte da parte mia!- dice allontanandosi.
-va bene- risponde Laura cercando la chiave del cancelletto.
Sente da lontano la sua amica intonare London Calling dei Clash e ride.
Moni è folle.
Finalmente quella porca chiave decide di farsi pescare. Non le piace trovarsi fuori di casa da sola, la sera. È un terrore che le ha instillato sua madre.
Attraversa il cortiletto e si pulisce le scarpe nel tappetino di fronte alla porta.
Sono le nove ormai, e sua madre è sicuramente già a casa.
Sospira. Sa che scoprirà come le è andata la giornata appena entrerà. Con sua madre non è difficile capirlo. Se è seduta sul divano con il solito bicchiere di troppo in mano, è andata male, se invece è in cucina ad apparecchiare è un buon segno.
Infila la chiave nella porta ed entra.
-Mamma sono tornata!- urla. Vede la luce del salotto accesa e il morale le scende a livello suole. È un’altra giornata no a quanto pare.
-Mamma…- ripete. Si sfila la sciarpa e abbandona le sneackers sul tappeto dell’ingresso.
-Mamma allor…- sbuffa entrando nel salotto. Ma non riesce a finire la frase.
Davanti a quello spettacolo il sangue nelle vene le si gela, il cervello si scollega. Il vuoto. Non esiste più nulla, solo sua madre, sua madre abbandonata sul divano. La mano penzolante, la maglietta sporca di vomito, e una bottiglia in frantumi a terra.
Nella stanza c’è puzza di bile e alcool.
E tante, troppe pastiglie bianche sparse sul tavolo da mani di chi cerca spasmodicamente la fine.
Un’altra volta.
“no, no mamma, non me lo fare” pensa correndo verso il telefono.
La prima volta l’aveva colta impreparata, la seconda anche. Ma ormai alla terza il suo cervello è perfettamente in grado di ragionare con freddezza.
Sente una voce distante dire qualcosa. Vede se stessa pulire la bocca di sua madre, pulire il viso e cambiarle la maglietta. Non devono trovarla in quello stato.
Conserva le pastiglie sparse sul tavolo in un tovagliolo e se lo mette in tasca. Ai medici sarebbe servito sapere cosa aveva ingoiato quella volta. Non deve fermarsi, non deve fermarsi o impazzirà.
Quando sente le sirene in fondo alla strada tira un sospiro di sollievo.
Ce l’avrebbe fatta anche quella volta. Sua madre era forte.
Spalanca la porta e corre in strada.
Tutto il resto è un copione già interpretato.
Sua madre in barella, lei che prende in fretta le chiavi di casa ed entra nell’ambulanza sotto gli sguardi spaventati e curiosi dei vicini.
È la terza volta che succede, e preferirebbe che loro facessero finta di nulla. Semplicemente.
Il viaggio è penoso.
Deve sopportare le mille domande che le si accumulano nella testa, sforzarsi di non interpretare gli atteggiamenti degli infermieri come segnali d’allarme.
Una volta in ospedale è ancora peggio.
Deve sorbire gli sguardi compassionevoli dei medici.
Tutti pensano di capire, sempre.
Si stacca da sua madre solo quando gli infermieri le dicono chiaramente che non può andare oltre.
Resta li, immobile, di fronte a quella porta chiusa.
Si siede su un seggiolino blu dai contorni sbucciati, in sala d’attesa. Non c’è quasi nessuno. Giusto un’infermiera intenta a firmare delle carte dietro la scrivania.
Neon bianchi e riviste strappate.
E tutto così squallido.
Quel pronto soccorso, casa sua, sua madre, la sua vita. Tutto è stato sempre così.
A diciotto anni da poco compiuti, seduta ad aspettare di sapere se anche quella volta sua madre se la caverà, da sola, si rende conto dello schifo che è stata la sua vita fino a quel momento, e dello schifo che farà.
Perché la vita di certe persone deve andare così e basta.
Perché ha scoperto troppo presto che i sogni e le speranze non sono sufficienti.
Perché ora sa, e sapere vuol dire accettare, capendo che semplicemente un’altra via d’uscita non c’è.
Si stringe nel giubbotto, ma non riesce lo stesso a scacciare quel freddo che ha dentro.
Appoggia la testa al muro, lo sguardo fisso sull’orologio.
Le 22.00…le 22.40…23.00…mezzanotte…l’una…
Questa volta perdonare non sarà così facile.

Qualcuno ripete fastidiosamente una parola nel suo orecchio.
Deve dirgli di smettere. BASTA! BASTA CAZZO!
-Signorina, signorina? Si svegli signorina! Oh!-
Trasale spalancando gli occhi. L’infermiera che pochi secondi prima le stava picchiettando un dito sulla spalla si raddrizza.
Riacquista subito completa conoscenza della realtà. Il suo sguardo corre di nuovo all’orologio.
Le 5.00.
-Il dottore mi ha mandata ad avvisarla che sua madre sta bene, deve solo dormire un po’.-
La notizia le arriva al rallentatore.
Sta bene, è viva.
E lei? Lei è contenta?
Cos’è lei adesso?
Solo confusione.
-Vuole che la porti da lei?-le chiede l’infermiera. Di nuovo quell’espressione compassionevole. Posa lo sguardo altrove e si alza. Le gambe sono indolenzite e la testa le scoppia.
-Si, grazie- risponde. La sua voce suona roca, impastata dal sonno. Un’altra notte in pronto soccorso che lasciava le sue tracce.
Raccoglie le forze e segue la donna oltre quella porta che poche ore prima le è stata sbattuta in faccia.
Attraversano un corridoio ampio, dalle pareti perfettamente candide, il pavimento brillante. Tutto quel bianco le da’ fastidio agli occhi.
Girano un angolo e si fermano davanti ad una porta grigia.
L’infermiera le fa un cenno.
-Può restare quanto desidera. Nella camera c’è il bagno se ha bisogno e se mi vuole chiamare sono nella stanza accanto.-
Le sorride. Laura pensa che è un sorriso buono. La capisce, chi non proverebbe compassione per la figlia di una madre tossica e suicida?
Ricambia a fatica il sorriso, ma l’infermiera sembra soddisfatta e la lascia, scomparendo con un fruscio oltre la porta successiva.
Una volta sola poggia la mano sulla maniglia di plastica.
Non ce la fa dannazione. Non ce la fa.
Ricaccia indietro il nodo che le è salito in gola e abbassa la maniglia.

Eccola li.
Sua madre.
Chiude la porta dietro di se con un click.
Per un minuto rimane immobile. La osserva da lontano, aggrappata a quella porta. Cercando la forza necessaria per avvicinarsi e non crollare.
Ce la fa.
Si siede su uno sgabello che deve essere stato messo li apposta per lei.
Sua madre è bellissima. Quel pensiero la prende in un momento poco opportuno, ma è vero. Anche così, provata, esausta, è bellissima. I lunghi capelli castani sono sparsi sul cuscino, e la luce della lampada vicino al comodino li illumina, risvegliando i riflessi dorati. Ha le labbra dischiuse, di quella forma stupenda. Gli zigomi alti.
Spesso quando passeggiano insieme Laura sorprende gli uomini a guardarla. E quando nello specchio riesce a riconoscere in lei gli stessi lineamenti, gli stessi occhi scuri, non riesce a soffocare quel moto di vanità improvvisa.
Ma sua madre non sarà mai raggiungibile, è il suo essere che la rende così unica ed affascinante. E lei non riuscirà mai ad eguagliarla.
D’istinto le afferra la mano. Le sfiora le dita lunghe e affusolate. Improvvisamente si rende conto di quant’è pallida e lo stomaco si stringe. Di nuovo quel qualcosa che le sale in gola.
“Perché? Perché mamma? Perché non ti basto io per amare la vita?”
Si chiede la stessa cosa da quando è diventata abbastanza grande da capire quando una persona è felice, e quando no.
E sua madre non è mai stata felice. Sua madre piangeva, sua madre rompeva gli specchi. Poi la cercava nella sua stanza e l’abbracciava per notti intere, singhiozzando.
Succedeva che insieme ridessero, ma erano pochi e rari attimi, che non le bastavano mai.
Laura le lascia la mano e si alza di scatto.
Non ce la fa.
Non ce la fa più. Sente che la sua volontà di resistere sta crollando e si catapulta nel bagno chiudendo la porta dietro di se.
Appena in tempo.
Comincia a piangere, e scivola lungo quella superficie ruvida.
Infila una manica in bocca per soffocare i gemiti.
Non è abbastanza forte per quello che succede e per quello che verrà. Come potrebbe mai esserlo?
Ha solo diciotto anni.
Ha solo diciotto anni cazzo.
Si rannicchia contro la porta e appoggia la testa sulle ginocchia.
I singhiozzi sono talmente forti che la scuotono tutta.
Il suo è un pianto disperato.
E non c’è nessuno.
Non c’è stato mai nessuno per lei, e non ci sarà mai nessuno.
L’unica persona che potrebbe aiutarla si trova oltre quella porta, imbottita di farmaci e antidepressivi.
Ha sempre e solo dovuto contare su se stessa.
Cosa deve fare…che cazzo deve fare. Le risposte non ci sono mai.
Perde la cognizione del tempo in quel bagno d’ospedale.
Sa solo che ad un certo punto si accorge di aver smesso di piangere e si alza.
Si specchia.
Fa paura. Ha le occhiaie, gli occhi arrossati, e la pelle diafana chiazzata di rosso dove ha cercato inutilmente di fermare le lacrime, senza nessun risultato.
No, non può, non adesso.
Ancora una volta farà il suo dovere.
Apre il rubinetto e si bagna il viso, fin quando l’acqua gelata non le provoca quel pizzicore sulla pelle.
È stanca, distrutta. Ma il tempo per riposare dovrà trovarselo in un secondo momento.
Si asciuga il viso con quella carta ruvida ed esce dalla stanza.
Resta seduta accanto al letto fin quando sua madre non si sveglia.
Fin quando non la guarda con gli occhi gonfi, iniettati di sangue. Lei cerca di parlare, di spiegare, e Laura ascolta. Laura ascolta e non dice nulla.
Sua madre le chiede un abbraccio, e lei un abbraccio le da. Ma sa benissimo che ora qualcosa tra di loro si è spezzato definitivamente. Vorrebbe urlare che è stanca di essere prigioniera in un ruolo che non le spetta in quella famiglia disastrata, che ha bisogno di costruirsi una vita, di non dovere preoccuparsi ogni volta che esce di casa perché non sa cosa troverà al ritorno. Vorrebbe ferirla. Vorrebbe farle capire cosa si prova.
Ma non può farcela. Riesce solo ad abbracciarla.
Ed inspiegabilmente, per pochi minuti le basta.

  
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