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Autore: Emerlith    03/06/2013    4 recensioni
-Andromeda, non vorrei sembrarti scortese. Ma ora… qualsiasi cosa tu voglia dirmi, puoi farlo, ma non adesso. Adesso devo … -
-Devi correre da Bellatrix, come sempre. Non è così?-
Non c'erano tracce di provocazione nel tono che assunse, né vi trapelava alcuna minaccia. Semplicemente c'era una muta rassegnazione, talmente intensa da inchiodare Rodolphus su quell'altalena malconcia, con un tuffo sordo al cuore.
-Meda, ma…-
Andromeda spostò lo sguardo sul fiore scarlatto nell'occhiello. Delicatamente ne sfiorò i petali sottili con la punta delle dita curate.
-Dovresti andare allora, Rod. Sta facendo buio. Non so se i lampioni funzionano qui, sai…-
-Perché… perché non me l’hai mai detto?- Replicò Rodolphus, prendendole il viso.
Andromeda sorrise continuando ad accarezzare il fiore.
-Perché è un qualcosa di antico, Rod. Appartiene al passato. E tu… tu non hai mai voluto vederlo.-
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucius Malfoy, Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange, Sorelle Black | Coppie: Rodolphus/Bellatrix
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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A Lui, un lui qualunque o forse proprio a Lui,
A mia sorella,
che mi manca,
e ad un pomeriggio di maggio trascorso su una panchina,
con una Reggia da fiaba alle mie spalle,
e un grande Regalo di fianco a me.
Ti voglio bene, C.  
 

-Prologo-

"… Il mio sogno è nutrito d’abbandono, di rimpianto.
Non amo che le rose che non colsi.
Non amo che le cose che potevano essere e non sono state.”
-G. Gozzano-

 
“…Seven lonely lies written on Deadwinter’s night,
open the only book with the only poem I can read
In blood I sign my name and seal the midnight with a tear,
burn the paper, every line for them I cried…

If you fall I’ll catch, if you love I’ll love, 
and so it goes, my Dear, don’t be scared, you’ll be safe,
this I swear. If you only love me back.

I am the Playwriter and you are my Crown, make me cry for your love, 
like you’ve done many times, 
so I know I can’t write these storylines without you, Lady pain,
make me strong, can’t we be together without them forever…”

-Sonata Arctica, The Misery-

 
Andromeda guarda il giardino, fissa gli aceri macchiati di rosso, fissa le foglie che ancora, fiduciosamente,  resistono alle sferzate frizzanti dei primi venticelli freddi di Settembre e restano aggrappate a quei rami forti e secolari che anno dopo anno le spingono verso il torpore dei raggi del sole, sempre nascosto dalla coltre di nubi che carezzano e scivolano sulle colline verdi dell’Inghilterra.
 
Andromeda si aggrappa saldamente al davanzale di marmo, mentre il suo lieve respiro appanna il vetro della finestra e proprio come una folata di vento spazza via i ricordi, che a loro volta, come foglie autunnali vanno a posarsi ancora e ancora su un mantello dai colori sempre più indistinti, un mantello non abbastanza pesante da coprirle le spalle. Andromeda sposta lo sguardo sui roseti del viale principale, sulle colonne in pietra, sull’edera rampicante, e soprattutto sempreverde. E si chiede nuovamente, come quel giorno, ormai perso chissà dove, se sarebbe stato meglio desiderare d’essere rosa scarlatta e non foglia d’acero, dai colori mutevoli, fragile alle correnti, incerta se lottare per restare attaccata ai rami o lasciarsi cullare dal vento fra le colline. Abbarbicata al davanzale, accartocciata su se stessa, stringe quel ricordo, Andromeda, con le nocche bianche e con gli occhi ambrati d’autunno.
 
-Andromeda, vieni a salutare, sono arrivati gli ospiti tanto speciali di cui ti parlavo.-
Sua madre la spinge fra le gonne e i mantelli sgargianti che frusciano. Le afferra le spalle e la conduce con fermezza verso una donna che le sorride e si china verso di lei, con un enorme pacco regalo fra le mani.
-Eravamo tutti così impazienti di conoscerti, ma chèrie.-
Andromeda alza il viso verso quello di Druella Black, si stringe alle sue gambe, cerca una rassicurazione che non arriva, e che mai arriverà nel corso degli anni a venire, anche se la supplica negli occhi ambrati resterà immutata.
Sua madre le sorride a labbra serrate, in risposta le sistema il fermaglio e una ciocca dietro l’orecchio, perché, come sta sempre a sottolineare, quel ciuffo non vuol proprio saperne di starsene a posto.
E vorrebbe essere presa in braccio, Andromeda, anche se compie sei anni e come amano tanto ripeterle è già troppo grande, tant’è che l’ultima volta in cui è stata presa fra le braccia dei suoi genitori neppure se la ricorda.
Perciò dev’essere grande per forza, riflette, e pensa di doverlo dire a Bellatrix, dopo.
 
-Andromeda, ma che maniere sono queste?  Perché mai non parli? I signori Lestrange sono arrivati fin qui dalla Francia, hanno fatto un lungo viaggio per essere alla tua festa.- Le intima Druella, pur continuando a sorriderle a labbra strette.  Andromeda deglutisce, mentre il valzer risuona nelle sue orecchie e lei vorrebbe solo premerci le mani su e serrare le palpebre, fino a non vedere e non sentire più nulla.
Ma sua madre si scusa per lei, mentre l’altra donna, con uno strano accento, gentilmente rassicura entrambe di non dar troppo peso alla sua timidezza, perché, dice, spesso i bambini sono intimoriti dai volti nuovi.
E Andromeda, anche se resta a fissare la punta delle proprie scarpe, tesa come una corda di violino, non può far a meno di pensare che la signora Lestrange ha ragione. E’ la festa per il suo compleanno, eppure lei non conosce quasi nessuno.
Neppure la voleva, Andromeda, quella festa.
Improvvisamente, ecco che le ritorna quel groppo in gola, e la ormai familiare morsa allo stomaco. Andromeda fissa il prato ben curato, ostinatamente serra le mascelle, ma non riprova a serrare le palpebre, perché altrimenti sa che le lacrime scapperebbero fuori, colerebbero giù sulle sue guance e la tradirebbero.
E sua madre detesta, detesta vederla piangere.
I Black non devono mai piangere, dice.
Bellatrix non piange mai, dice.
 
Andromeda tenta di ricordare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di reprimere le lacrime, di impedire all’ambra di liquefarsi e trasformarsi in resina. Prova a ricordare la sua poesia preferita, ma ecco che sua madre le dà uno strattone e la costringe a sollevare la testa.
Ora, alle spalle della bella signora Lestrange, che come se nulla fosse continua a sorriderle incuriosita e commenta deliziata il suo vestitino a fiori verde, spuntano le teste  ricciolute di due ragazzini.
Andromeda fa un passo indietro, più intimorita di prima.
-Non essere sciocca, Andromeda.- Le bisbiglia irritata sua madre.
-Oh, eccovi qua.- Commenta la signora Lestrange, facendosi da parte.
-Andromeda, lui è Rabastan, avete quasi la stessa età. Mentre lui è Rodolphus. Eravamo tanto impazienti di farvi incontrare. Non è vero, Rodolphus?-
Andromeda fissa i ragazzini davanti a lei, strizzati nelle giacchette e nei calzoncini blu cobalto, impacciati quasi quanto lei. Si assomigliano, pensa, quasi quanto lei e Bellatrix. Ed è curioso, nota, ma non osa provare a dar voce a quell’ultimo fugace pensiero.
 Il più piccolo, basso e più grassottello rispetto al maggiore, stringe in mano un pacco regalo, e sembra quasi che non voglia darglielo, mentre l’altro ha con sé un enorme mazzo di fiori rossi.  Andromeda prende il pacchetto che il bambino le porge con riluttanza, ma nel farlo fissa gli occhi castani dell’altro, e quei capelli cenere, di un biondo scuro, un colore che non ha un nome.
 
Gli occhi castani non sorridono come quelli neri del primo bambino, ma la scrutano, attentamente, indagano, pare vogliano chiedere tutto senza ottenere risposta alcuna.
Le gonne hanno smesso di frusciare, il vento di scuotere i fiori, i violini e l’orchestra hanno cessato di suonare, ma Andromeda è troppo impegnata a indovinare quale domanda celino quelle iridi per farvi caso.
-Rodolphus, caro, non vuoi dare anche tu ad Andromeda i tuoi fiori?-
Il bambino guarda prima sua madre, poi Druella, poi fa un passo in avanti, ed il mazzo rosso si frappone tra loro.
-Oh, caro, non trovi siano meravigliosi? Perché nessuno scatta una fotografia?- Trilla allora Madame Lestrange a suo marito, che nel frattempo ha raggiunto il gruppetto.
L’uomo ride, un flash costringe entrambi i bambini ad abbassare lo sguardo.
-Era da tempo che aspettavamo questo giorno, signori miei.- Tuona risoluto Cygnus Black, prendendo Andromeda fra le braccia, mentre Rodolphus solleva la testa per guardarla e spalanca gli occhi, quasi avesse paura di vederla volare via. Andromeda ha le vertigini, vorrebbe urlare, ma suo padre continua a ridere e ad esibirla alla folla che applaude, come fosse un trofeo. I baffi del padre le pizzicano fastidiosamente la guancia. Cerca Bellatrix fra la folla ridente, senza riuscire a vederla. Allora urla, Andromeda. Ma non funziona neppure così. Il signor Lestrange urla più forte, alza il calice, proprio all’altezza del suo viso.
 
-Ad  Andromeda e Rodolphus!- E’ il coro che segue, che le impedisce di chiedere aiuto, che le serra la gola.
Potrebbe giurare che sua madre, alle sue spalle, stia asciugandosi gli occhi.
Bruscamente, mentre i mormorii concitati e i gridolini si placano, Andromeda viene rimessa giù.
Una goccia di vino rosso cade ai suoi piedi, proprio sulla punta delle scarpette bianche.
Il profumo troppo forte dei fiori la stordisce, le dà la nausea. La testa le gira paurosamente.
Barcolla, barcolla fin quando una mano delicata non intreccia le dita alle sue.
-Bon Anniversaire.- Si sente sussurrare, e rialza la testa, sbattendo le ciglia, senza capire.
Il bambino l’afferra, la guida oltre gli ospiti che schiamazzano.
Non appena si fermano, le sorride gentilmente.
-Questi sono per te, per il tuo compleanno.- Le dice, ridandole i fiori. -Auguri.- Si affretta ad aggiungere poi, grattandosi nervosamente la nuca. E pare sforzarsi, pare rincorrere le parole una ad una, sceglierle con cura, come se cercasse di calibrarne il peso di ognuna e avesse paura di affidarle al vento che soffia e scuote i palloncini e i festoni. E Andromeda, in quell’istante, gli è grata. Perché sa quanto sia difficile camminare sempre in punta di piedi, attenta a restare sul percorso già tracciato dai propri genitori per paura di perdersi in un groviglio di strade. E capisce già, a soli sei anni, che cosa voglia dire non essere mai abbastanza per nessuno, conosce la delusione e la rabbia che trapelano alternativamente dalle iridi più nere del buio di suo padre a quelle più azzurre del cielo di sua madre, e si chiede perché lei invece le abbia castane, semplicemente castane, marroni come il terreno, marroni come un qualcosa d’ insignificante, qualcosa che rimane nel mezzo.
 
Ma nonostante ciò, in quell’istante, Andromeda sorride a sua volta, dimentica delle lacrime.
-Grazie.- Riesce finalmente a dire, in un soffio.
Il bambino annuisce, poi alza la  testa al tramonto.
-Come si chiama?- Chiede allora, improvvisamente corrucciato, mentre le indica l’orizzonte alle sue spalle.
Andromeda si volta, con il bouquet tra le mani, e guarda gli aceri accesi dal tramonto infuocato, i palloncini bianchi che pigramente volteggiano al vento, i pochi suoi coetanei che schiamazzano impazienti della torta e incuranti della scena che si è appena svolta davanti ai loro occhi.
-Come si chiama che cosa?- Aguzza la vista al profilo delle montagne.
Rodolphus l’affianca, le indica di rimando.
-Intendi dire le montagne?-
Lui scuote la testa, morde il labbro inferiore.
-No. Il sole, quando cade dietro alle montagne. Come si dice, nella vostra lingua?-
-Oh. Intendi dire il tramonto?-
Il viso del ragazzino si illumina, annuisce con vigore.
-Sì, sì, intendevo quello. Ogni tanto dimentico ancora qualche parola, mi dispiace.-
-Non importa, non fa niente.- Si affretta ad aggiungere Andromeda per rassicurarlo.
Perché le piace, questo ragazzino con l’accento curioso, spuntato dal nulla, che è talmente accorto alle sfumature di ogni parola da arrabbiarsi se ne dimentica una.
-Io mi chiamo Andromeda. Ma credo tu lo sappia già.-
Il bambino si volta a guardarla, annuendo tristemente.
-Io sono Rodolphus, Rodolphus Lestrange. Ma tu puoi chiamarmi Rod. Mio fratello mi chiama così.-
Le porge la mano. Lei la stringe di nuovo.
-Hai un nome strano.- Non può far a meno di trattenersi, e lui di aggrottare un sopracciglio.
-Anche tu.-  Le fa notare Rodolphus, con un’alzata di spalle. E poi ride, e Andromeda sgrana gli occhi. Nessuno si è mai permesso di riderle in faccia così apertamente, nessuno ha mai scherzato con lei, nessuno le ha mai confidato così apertamente che il suo nome possa anche solo sembrare ridicolo.
Così ride anche lei.
-E’ vero.- Ammette per la prima volta, con gli occhi che brillano.
 
-I nostri nomi appartengono alle stelle, alle costellazioni, sono nomi importanti, reali.-
Entrambi si voltano.
Bellatrix  adocchia i fiori ancora fra le mani della sorella, la risata di Andromeda si spegne e il sorriso scema lentamente, fino a che sembra raggelarsi.
-In Francia non avete le rose, Lestrange?-Chiede Bellatrix, schioccando la lingua.
Andromeda posa nuovamente lo sguardo sul suo bouquet. Nota che anche il suo nuovo amico ha improvvisamente smesso di ridere,
ha teso le spalle, il collo.

-Sì, certo, perché?- Ribatte subito, sulla difensiva.
Bellatrix  ride, si avvicina con grazia e gli porge la mano. Lui l’afferra. La bacia.
-Perché sono quelli, i fiori preferiti di mia sorella.- Ribatte lentamente Bellatrix, ritraendo la mano.
-Non lo sapevo.-
-Come non sapevi che siamo al tramonto?- Lo schernisce.
Andromeda avverte un crampo alla bocca dello stomaco, simile ad un pugnetto, mentre vede Rodolphus arrossire e tira Bellatrix dal vestito gemendo appena.
-Io sono francese, ogni tanto scordo qualche parola della vostra lingua.- Prova a difendersi lui.
Bellatrix alza le spalle, con assoluta noncuranza.
-Io sono Bellatrix. Bellatrix Black. Questo vedi di non scordartelo. Non scordartelo mai.- E pianta gli occhi nei suoi, mentre Andromeda si lascia sfilar via il bouquet.
-Andiamo, Meda, c’è la caccia al tesoro. Dobbiamo sorteggiare le squadre. Tu non puoi giocare, Lestrange. Non ce li voglio alla festa di mia sorella, quelli che si chiedono dove va a finire il sole. E soprattutto non voglio quelli che regalano fiori di campo.-
E getta il mazzo in terra, mentre ridacchiando trascina via Andromeda, che non riesce a voltarsi.
 
-Ancora a contemplare il giardino, Meda? E’ tardi, i Lestrange saranno qui a breve. Non vorrai farti trovare in vestaglia, spero.-
Adesso si volta,  Andromeda. Guarda gli occhi celesti di Narcissa,e le sembra di risentire sua madre. E lo stesso groppo di tanti anni prima le serra la gola. Sua sorella si poggia allo stipite della porta, a braccia conserte, aggrotta le sopracciglia dorate in attesa di una risposta.
-Ricordi la festa per il mio sesto compleanno, Cissy?- Le chiede invece.
Narcissa alza gli occhi al soffitto.
-E come potrei? Avevo solo quattro anni. E se anche la ricordassi, ti sembra il momento per una passeggiata lungo il viale dei ricordi? Oggi è la giornata di Bella.-
Andromeda si riscuote. Un brivido freddo le corre lungo la schiena.
-Lo so.-  Replica in un sussurro.
Narcissa sorride indulgentemente, entra nel salone a passo deciso, oltrepassa la sorella, ancora in piedi in mezzo alla stanza. Spalanca la vetrata che dà sul Giardino d'Inverno. Un raggio opaco di sole percorre il marmo perlaceo, fluttua sulle pareti.
-Complimenti, Andromeda. Io non avrei saputo fare di meglio. Nessun giardiniere avrebbe saputo fare di meglio.-
Andromeda non sorride. Resta sulla soglia, al confine fra luce ed ombra. Al confine dov’è sempre stata.
-Pensi che a Bellatrix piacerà?-
Narcissa si apre in un sorriso.
-L’incantesimo di disillusione ha funzionato al meglio. Non si è accorta di nulla. Credo che le piacerà, sì.
E anche se non dovesse piacerle … puoi sempre replicarlo per il mio matrimonio.-
Andromeda deglutisce. Piano, senza far rumore.
-Però- aggiunge Narcissa, con entusiasmo  -Lungo le colonne io voglio rose. Siepi di rose rampicanti. Rose bianche. Me lo prometti, Meda?-
Andromeda guarda il viale. Una folata di vento scuote le alte siepi che ha curato, tagliato, annaffiato, e che ora lo costeggiano. Scuote i drappi di seta bianca che ricadono sul porticato, che celano abilmente l’altare intagliato in mogano. Arruffa i suoi capelli castani. Asciuga velocemente una lacrima che le riga la guancia.
-Te lo prometto, Cissy.-





Note: Salve a tutti, gente. E' con grande piacere (poveri voi) che finalmente, dopo tanti mesi, pubblico di nuovo. Come sempre, giusto un paio di precisazioni, e di ringraziamenti. Vi anticipo che la storia, anche se ho dovuto suddividerla in capitoli, non sarà molto lunga. E vi dico anche che io sono una frana nel suddividere un testo in capitoli, quindi... siete avvisati. Per correttezza, vi dico anche che non avrete aggiornamenti lampo. Mi dispiace, davvero, ma la storia va un attimino revisionata e corretta, e il tempo è contro di me nell'ultimo periodo. Perciò, non vi faccio promesse. Ma la ultimerò. Stiatene certi. Ora, passiamo ai dovuti ringraziamenti. Per l'aiuto fornitomi con l'impaginazione del banner, un grazie davvero sentito va a Melpomene Black. Grazie davvero, stavo impazzendo. Inoltre, è bene fare i dovuti complimenti all'artista dei due disegni che vedete assieme alle fotografie. Molti di voi la conoscono, si tratta di Katekat, che, oltre all'essere una grande autrice, è anche un'ottima disegnatrice. Perciò, me ne sono bellamente approfittata. Grazie davvero, cara. Per quanto riguarda invece le fotografie con lo scrigno e la lettera, la farfalla, e l'altalena, sono state scattate dalla sottoscritta, ma in questo caso non sono necessari i complimenti. Le altre, le ho prese da internet. Ad ogni modo, NON potete prendervi questo banner. :) Se volete una qualunque delle foto scattate da me chiedete. Per i disegni raffiguranti Bellatrix e Rodolphus ovviamente dovete chiedere il permesso a Katekat, non a me. Penso sia tutto. Sperando che il prologo non abbia fatto troppo schifo, vi saluto. Pubblicare è sempre un piacere. 
  
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